Il rapporto tra il fotografo è suo soggetto è sicuramente un interessante campo di indagine. Un criterio per distinguere le fotografie può essere infatti quello di dividerle a seconda della consapevolezza o meno del soggetto di essere ripreso. Ci sono immagini nelle quali è evidente che il soggetto o i soggetti immortalati non erano a conoscenza di essere l’oggetto dell’attenzione del fotografo; altre volte invece, come accade nella maggior parte delle immagini da me trattate, i soggetti erano perfettamente consapevoli di essere ripresi e anzi lo scatto è il risultato di una collaborazione artistica ed emotiva con il fotografo.
Il fotografo francese dei primi del Novecento Gyula Halász, conosciuto con lo pseudonimo di Brassaï, disapprovava i fotografi il cui intento era quello di cogliere alla sprovvista i propri soggetti nella speranza o forse nell’erronea convinzione di riuscire in questo modo a rivelare qualcosa di speciale sul loro conto, svelando quel quid che essi non erano disposti a concedere volontariamente. Riteneva che questo atteggiamento predatorio e spregiudicato producesse una fotografia che risultava essere una vera
aggressione della sfera personale del soggetto. [15]
Un certo grado di intromissione nella vita altrui è però comunque necessario alla fotografia per poter compiere il proprio scopo di rivelatrice di realtà nascoste, riportando al presente situazioni passate o mostrando la bellezza celata anche nelle cose più umili e che quest’arte ha il dono di cogliere e svelare. L’invasione del privato di altri coinvolge in particolare la fotografia documentaria, che dovendo coniugare artisticamente il lavoro di denuncia, non può esimersi dal ricercare il bello nella disgrazia altrui. L’abilità del fotografo documentale in cerca della reazione del pubblico consiste nell’immedesimarsi nell’osservatore ‘tipo’, riuscendo a comprendere qual è l’esatto frammento della vita di qualcun’altro che è necessario per suscitare nello spettatore una reazione empatica rispetto alla scena rappresentata. Allo stesso tempo il fotografo deve anche essere abbastanza abile nel chiedere, o ‘rubare’, ed ottenere questo frammento di vita dal proprio soggetto.
Il mezzo fotografico influenza il comportamento sia di chi sta dietro l’obiettivo, sia di chi ci sta davanti: il fatto di sapere di essere inquadrate da una macchina fotografica modifica la prospettiva delle persone, perché diventano consapevoli che le loro azioni, il loro aspetto ed il loro atteggiamento sono sul punto di essere registrati e con ogni probabilità verranno anche divulgati. Dall’ altra parte dell’obiettivo i limiti morali e le inibizioni sociali vengono in parte accantonati da chi fa la fotografia che diviene una sorta di lasciapassare nelle vite altrui, permettendo al fotografo, prima, e all’osservatore, dopo, di entrare nell’esistenza di sconosciuti, di colonizzarne le esperienze e di trovare modi nuovi per guardare soggetti apparentemente familiari.
Si tratta di due forze in contrasto tra loro: da un lato la tendenza a mettersi in posa del soggetto che per quanto possibile, desidera apparire al proprio meglio, dall’altro l’interesse opposto del fotografo che, per riuscire a denunciare con efficacia il dramma o l’ingiustizia in corso, ha bisogno che la scena non venga alterata almeno per il tempo necessario a scattare la fotografia.
L’esistenza di un rapporto umano tra fotografo e soggetto è un aspetto che non può essere dato per scontato solo in virtù della visione dell’immagine prodotta. La fortissima carica emozionale delle dieci fotografie che tratto, ad esempio, può far supporre all’osservatore che tra il soggetto ed il fotografo sia intercorsa una libera cooperazione, in parte magica e in parte accidentale, che li ha portati a conoscersi ed a stabilire un rapporto di intimità tale da venire trasmesso attraverso la fotografia. Nella maggior parte dei casi è stato così: si tratta di quelle fotografie in cui è presente l’intenzionalità, ovvero quando il fotografo ha ricercato attivamente la situazione, consapevole dell’ingiustizia che si stava consumando, e ha deciso di ricoprire il ruolo di divulgatore, consapevole della propria capacità di trasformare l’intenzione in un’espressione artistica in grado di smuovere la coscienza del suo pubblico. C’è intenzionalità nella fotografia di Gene Smith, che passò tre anni nella città di Minamata per poter comprendere il più possibile le conseguenze dell’avvelenamento da mercurio e anche nel caso di Lewis Hine, che dedico vent’anni della sua vita a documentare ed a conoscere i giovani lavoratori oggetto della sua ricerca. Altre volte capita che non ci sia un investimento emotivo in prima persona da parte del fotografo, ma semplicemente che questi si trovi nel posto giusto al momento giusto. John Dominis, autore della famosissima immagine scattata durante la premiazione dei 200 metri maschili alle Olimpiadi del 1968 dichiarò in un’intervista di non essersi reso conto dell’atto di protesta che stava immortalando; era stato chiamato a ‘coprire’ la manifestazione sportiva e con la sua fotografia aveva intenzione di riprendere soltanto il momento di premiazione di due atleti connazionali.
Esistono poi casi nei quali il coinvolgimento emotivo nasce nel momento in cui il fotografo si trova ad essere testimone di un avvenimento particolarmente toccante o sconvolgente; è ciò che accadde a Nilüfer Demir, l’autrice della foto che ritrae Aylan Shenu, annegato a soli tre anni mentre scappava con la sua famiglia dalla guerra civile in Siria. La fotoreporter era in servizio sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, dove era previsto che arrivassero le carrette del mare con cui scappano i migranti, tuttavia non poteva prevedere la terribile scena a cui fu spettatrice, tragicamente perfetta per rappresentare l’emergenza umanitaria che è tuttora in corso.
Naturalmente non esiste una formula fissa od un particolare equilibrio tra coinvolgimento emotivo e distacco professionale che consenta di stabilire con certezza il successo di una fotografia documentaria, tuttavia posso notare che come accadde a Don McCullin con il bambino albino che ritrasse in Biafra, l’interazione anche se solo molto breve, del fotografo con il soggetto lo aiuta nello sforzo emotivo ed intellettuale di concepire contemporaneamente le tre dimensioni della fotografia: il soggetto, il pubblico e lo ‘specchio’ attraverso il quale il messaggio passa da una vita ad un’altra.