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1.6 Cultura Visuale: problemi di affermazione e peculiarità

1.6.1 Il regime scopico da oggetto di indagine a pictorial turn

Nella parte finale del paragrafo precedente è stata introdotta la dicitura “regime scopico”: essa è l’iperonimo prescelto per provare a definire l’oggetto di ricerca della Cultura Visuale.

La nozione di regime scopico viene introdotta dal teorico cinematografico Christian Metz (1977) per distinguere le modalità di rappresentazione cinematografiche da quelle teatrali; il termine viene poi traslato a designare come alcune identità dominanti riescano a costringere gli spettatori ad assumere particolari angolazioni visuali, dopo aver informato di sé lo sguardo cinematico48; infine confluisce nell’identificazione di un ordine non visuale che,

agendo a un livello pre-riflessivo, determina i modi dominanti del vedere e dell’essere visti (Sassatelli 2011: 147).

Il regime scopico, dunque, coinvolge i dispositivi tecnologici e istituzionali, gli elementi relazionali e identitari, le dinamiche politiche e culturali, ponendosi a cavallo dei processi che mediano la rappresentazione e la visione.

Per questo, lo si potrebbe definire con questa dicitura:

L’insieme delle immagini artificiali, fisse e in movimento, offerte allo sguardo e delle convenzioni visive, estetiche e sociali che ne permettono la fruizione, in rapporto ai dispositivi della visione (i media e la

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riproducibilità tecnica), e alle pratiche sociali di fruizione e consumo di tali immagini, all’interno delle culture e dei rapporti di potere di un’epoca49.

Di conseguenza è avvalorabile la teoria di Michele Cometa secondo cui la disciplina che va sotto il nome di Cultura Visuale abbia come oggetto di indagine proprio il regime scopico, dal momento che il suo fulcro di interesse è rappresentato dal complesso interplay di soggetti e oggetti della visione che lo definiscono come tale.

In questo modo si contempla sia la considerazione delle immagini come prodotti di una prassi figurativa consapevole, sia come espressione di processi inconsci e immateriali; inoltre si tiene conto dei dispositivi che consentono la loro visione e che presiedono alla loro creazione e, infine, si annovera il discorso sullo sguardo (Cometa 2012).

Non si tratta solamente, quindi, di porre l’immagine al centro del dibattito ermeneutico ma di valutarne più a fondo le potenzialità gnoseologiche (Ivi). Non a caso, quando si parla di regime scopico, si fa riferimento a una mixture di elementi e, contestualmente, a una pluralità di campi d’indagine che ivi convergono50 e che, di conseguenza, come già era stato messo in luce anche da

W.J.T. Mitchell (2008), conducono, se non all’eliminazione, certamente alla messa in discussione di ogni netta distinzione tra l’artistico e il non-artistico, tra cultura “alta” e cultura “bassa”51.

49 Si rimanda al sito www.mediastudies.it e ad Antonio Somaini (a cura di), Il luogo dello

spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero, Milano 2005.

50 Afferma a tal proposito Antonio Somaini che il regime scopico, per essere individuato

«presuppone che accanto allo studio fisiologico del funzionamento della visione, accanto all’analisi fenomenologica della coscienza d’immagine e alla descrizione della stratificazione del fenomeno visivo, accanto infine all’analisi di quel plesso di schemi percettivi, memorie e aspettative che costituisce il ruolo attivo e costruttivo dello spettatore, si sviluppi una riflessione sulla molteplicità dei fattori culturali, sociali e tecnologici che strutturano il processo del vedere, sottolineando come tale vedere abbia sempre luogo in riferimento a diverse forme di rappresentazione, a una rete di credenze e di pratiche interpretative socialmente condivise, a un intrecciarsi con la sfera del piacere e del desiderio, e all’interno di determinate possibilità di visione che vengono configurate dall’azione degli strumenti e dei dispositivi che regolano la produzione e la fruizione delle immagini.»

Antonio Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero, Milano 2005, p.13.

51 Per la separazione tra cultura “alta” e cultura “bassa” all’interno dell’ambito dei Visual Studies

si rimanda a James Elkins, Visual Studies. A skeptical introduction, Routledge, New York- London, 2003, pp.45 ss.

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Il punto di partenza, per tentare di comprendere le peculiarità della Cultura Visuale e del suo regime scopico, non può che essere rinvenuto nel cosiddetto pictorial turn che per Antonio Somaini risulta essere fondato, in primis, sul riconoscimento della centralità della visione e sullo studio delle differenti forme di sguardo e di spettatorialità (Somaini 2005), data per assodata l’irriducibilità del figurale al discorsivo e, quindi, l’impossibilità di avvalersi esclusivamente del paradigma semiologico per l’analisi del Visuale.

Il concetto di pictorial turn, che trova la sua massima espressione nell’opera di W.J.T. Mitchell e che viene normalmente reso e tradotto nella nostra lingua mediante la dicitura “svolta iconica”, affonda le sue radici filosofiche nel pensiero di Ludwig Wittgenstein che pone al centro delle riflessioni circa l’immagine e il visuale in genere, l’importanza poliedrica a questa attribuibile52.

Con la Scuola di Francoforte viene codificata l’associazione tra il regime del visuale e i mezzi di comunicazione: inizia qui a emergere come la rilevanza del pictorial turn non risieda tanto nell’importanza attribuita alla rappresentazione visuale, quanto nell’ammissione del particolare campo di conflitto creatosi intorno alle immagini nella ricerca intellettuale (Mitchell 2008); in una società che tende a divenire sempre più “società dello spettacolo”53 da una parte e

“società della sorveglianza”54 dall’altra, dove emergono in modo sempre più

nitido gli aspetti negativi della crescente visibilità55, occorre perlomeno provare

a comprendere cosa siano di preciso le immagini, in quale rapporto si pongano rispetto al linguaggio, al mondo, agli osservatori, quale sia e come vada interpretata la loro storia e cosa si debba fare con loro e su di loro, laddove la loro produzione e diffusione sia, come oggi, dilagante.

L’epoca in cui viviamo, in cui la componente visuale occupa una posizione centrale, è anche un’epoca in cui si manifesta una forte paura dell’immagine e

52 Si tenga conto che qui viene proposta la lettura critica del pensiero di Ludwig Wittgenstein

realizzata da W.L.T. Mitchell, lo studioso che si è scelto, per rilevanza dell’argomento trattato nelle sue opere e per la completezza delle sue modalità di dissertazione, di assumere come fulcro per l’esplicitazione del concetto di pictorial turn.

In questo caso cfr. W.J.T. Mitchell, “Wittgenstein’s imagery and what it tells us”, in New Literary History, The Johns Hopkins University Press, New York 1988, pp.361 ss.

53 L’espressione è chiaramente mutuata dal celebre saggio di Guy Debord a cui si rimanda; Guy

Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 2004.

54 Il riferimento in questo caso va a Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi Editore,

Torino 1993.

55 I rischi correlati alla crescente visibilità, in termini di privacy, sorveglianza, ripercussioni su

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un’ansia che questa possa distruggere i propri creatori: l’immagine pare essere diventata un medium a sé stante che, dopo essersi staccato da coloro che l’hanno generato, è ora dotato di vita autonoma56.

Il pictorial turn non ha la pretesa di essere una risposta univoca alla molteplicità di questioni sollevate dallo sviluppo di qualsiasi teoria dell’immagine, dal momento che esso «è semplicemente un modo per iniziare a porre la questione» (Mitchell 2008: 33).

Ciò appare palese fin dalla definizione che W.J.T. Mitchell ne fornisce (Mitchell 1994: 16):

Qualunque cosa sia il pictorial turn, dunque, dovrebbe essere chiaro che non è un ritorno alle teorie ingenue della rappresentazione, basata sulla mimesi, la copia o la corrispondenza o una rinnovata metafisica della ‘presenza’ pittorica: esso è piuttosto una riscoperta postlinguistica e postsemiotica dell’immagine intesa come un’interazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, corpi e figuratività. È la consapevolezza che l’essere spettatore può essere una questione altrettanto profonda delle varie forme di lettura e che l’esperienza visiva potrebbe non essere completamente spiegabile sul modello della testualità. Cosa più importante, essa è la consapevolezza che, nonostante il problema della rappresentazione pittorica sia sempre stato presente, adesso preme senza darci scampo, e con una forza senza precedenti, a ogni livello della cultura, dalle più sofisticate speculazioni filosofiche alle più volgari produzioni dei mass media.

L’elemento su cui si continua a insistere, e che abbiamo visto essere il principio cardine tout-court dei Visual Studies, è la complessità riconosciuta sia all’oggetto d’indagine, sia alle metodologie e ai campi di ricerca che qui convogliano.

56 Mutuando il pensiero di Marshall McLuhan, si vuole qui provocatoriamente sottolineare come

anche l’immagine tenda sempre più a essere vista in qualità di soggetto autogenerato e dotato di vita propria, eludendo l’attribuzione di potere che essa detiene grazie all’azione del soggetto. Si rimanda, a ogni modo, a Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 2008.

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Non a caso, un altro snodo nell’analisi relativa al pictorial turn è la valutazione della terminologia “media visuali”, non tanto da un punto di vista lessicale quanto semantico.

Con l’espressione media visuali si designano, di prassi, la televisione, il cinema, la fotografia, la pittura e tutti quei media dove la componente visuale sembra avere una presenza preponderante.

In realtà, come ben mette in evidenza W.J.T. Mitchell, la definizione risulta essere alquanto ambigua e inesatta poiché, dal punto di vista della modalità sensoriale, tutti i media sono di fatto misti (mixed media); ovviamente, tiene a sottolineare lo studioso, la compresenza di elementi percepibili attraverso sfere sensoriali differenti varia nella sua composizione da medium a medium; ciò vuol dire che ci troveremo ad avere media misti ma non misti nello stesso modo e, dunque, con proporzioni diverse degli elementi (Mitchell 2008).

I media non possono essere puramente visuali dal momento che non esiste una percezione puramente visuale e nemmeno, di conseguenza, una categoria iperonima che possa racchiuderli.

Per via di questa forte disgregazione che il concetto di media visuali subisce, non solo siamo costretti a dovere ragionare in modo più complesso sui media, includendo nella loro analisi critica ratio sia sensoriali che semiotiche57 ma,

soprattutto, siamo portati a dovere porre il Visuale al centro dell’attenzione analitica e non più a trattarlo come un concetto fondativo che può essere dato per scontato.

Di nuovo, quindi, viene reso palese come la Cultura Visuale, collocandosi in uno spazio critico più produttivo e andando oltre tutte le discrasie scopiche, finisca con l’indagare la presenza del Visuale negli altri sensi e a estendere il suo campo d’indagine oltre gli argini che sembravano esserle stati imposti: in virtù di queste constatazioni, il discorso relativo al pictorial turn convoglia necessariamente verso la riflessione circa la natura dell’immagine58, che può essere giudicata

57 Non è questa la sede per compiere una disamina circa le caratteristiche dei media e le modalità

di studio a essi applicabili; ciò che preme qui sottolineare è, però, che ogni tentativo definitorio, per quanto possa giovare alla creazione di una tassonomia dei media e a una loro valutazione critica, finisce per confluire in una semplificazione fuorviante per la valutazione dei medesimi, i quali sono invece, per loro stessa natura, oggetti complessi. Tali considerazioni valgono in modo peculiare, sulla base di quanto finora si è cercato di evidenziare, per l’accezione di visuali.

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come il segno per antonomasia del Visuale59. La complessità dell’immagine

resta il caposaldo del regime scopico e dunque della Cultura Visuale che, come interrogativo di fondo, si pone, invero di comprendere se le immagini siano dotate di una vita propria, se esistano nella forma di una “immagine originale”, se abbiano la capacità di evolversi e poi di estinguersi o se, al contrario, i loro processi di vita e di morte dipendano solo dalla presenza di uno sguardo60 e,

quindi, di uno spettatore che finisce per coincidere con ciascuno di noi.

Come evidenziato a inizio capitolo, nonostante il processo di riconoscimento di autonomia della Cultura Visuale sia ancora in corso, le sue metodologie di indagine, l’interdisciplinarità che la caratterizza, insieme alla considerazione di ogni elemento relativo al Visuale, la rendono lo strumento più adatto per fungere da sostrato di questo lavoro di tesi.

59 Inutile dire quanto sia stato scritto sull’immagine e da quante prospettive e discipline essa sia

stata indagata; ciò che si è cercato di realizzare in questi paragrafi è una dissertazione sull’immagine in relazione alla svolta iconica e, quindi, come si sia evoluto il modo di valutarla e di leggerla dopo questa importante rivoluzione culturale.

Questo lavoro di ricerca non avanza, comunque, nessuna pretesa di dissertazione olistica del tema in questione.

60 La Cultura Visuale tiene conto anche del rapporto co-evolutivo e co-deterministico esistente

tra la storia sociale dello sguardo e l’evoluzione delle tecnologie della visione e, dunque, nell’indagine del suo complesso oggetto di ricerca, avvalora non solo il contenuto comunicativo dell’immagine, ma anche l’ambito tecnologico di produzione dell’immagine e le pratiche dello sguardo coinvolte.

43 Capitolo 2

RIFLESSIONI SULLA FOTOGRAFIA