Il contesto di ritrovamento – La Baia della Caletta –
Lungo il tratto di costa che corre tra il Tellaro ed il borgo di Lerici (SP) snodandosi in una serie di piccole insenature sorge,
racchiusa e protetta dalla Punta di Maralunga a Nord e la Punta di Maramozza a Sud, la Baia della Caletta. Collocata in posizione assai pittoresca, riparata da alte pareti di roccia scoscese, la Baia si estende, nel suo tratto più interno, per un’ampiezza massima che sfiora i 200 m., e si insinua verso l’interno della costa per circa 500 m. La peculiare conformazione morfologica della cala la rende piuttosto rischiosa per la navigazione in giorni di vento forte di Libeccio, quando i marosi si infrangono con violenza sulle rocce a strapiombo e una pericolosa corrente, deviata dallo spartiacque naturale costituito dalla piccola penisola di Punta Maralunga, irrompe verso l’interno dell’insenatura sospingendovi i natanti.
Qui, su un basso fondale sabbioso, circa 50 m. ad Ovest della costa e 10 m. a Nord di un imponente scoglio affiorante che
caratterizza il settore più meridionale della baia, giacciono i resti di quella che dovette essere una navis lapidaria di prima età imperiale naufragata con il suo carico, composto essenzialmente dai rocchi semilavorati di una colonna di marmo lunense.
Le campagne di scavo
Prima campagna: Luglio 1990
La prima segnalazione ufficiale della presenza di massicci blocchi di marmo sul fondo della Baia della Caletta risale al 1987,
quando l’Associazione per la Pubblica Assistenza di Lerici ne notificò l’esistenza alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Regione Liguria. Tale ritrovamento destò immediato interesse - dato che avrebbe rappresentato quello che, ancora allo stato
attuale, sarebbe l’unico rinvenimento di un carico lapideo di età romana in acque liguri – e spinse la Soprintendenza stessa ad accertare l’effettiva natura delle evidenze messe in luce. Dopo una serie di tentativi falliti a causa delle avverse condizioni marine, nel Febbraio del ’90 una campagna di rilievo televisivo realizzata con l’ausilio di una telecamera subacquea filoguidata, permise il riconoscimento di tre grossi corpi marmorei cilindrici
semisprofondati nel fango del fondale, oltre ad un blocco lapideo circolare di minori dimensioni.
Avuta pertanto conferma dell’attendibilità della notizia, si provvide ad informare il Servizio Tecnico del Ministero dei Beni Culturali che, dopo un’ulteriore sopralluogo, assegnò un primo finanziamento per una più approfondita indagine conoscitiva del sito. La prima campagna di scavo fu attivata dalla Soprintendenza nel Luglio del ’90 e godette della preziosa collaborazione, sotto la direzione scientifica del Dott. Gian Piero Martino, del Nucleo Carabinieri subacquei di Genova Voltri e del circolo subacqueo di Nervi “Duilio Marcante”. A supporto delle operazioni fu messo a disposizione il rimorchiatore “Tagis”, utilizzato altresì nel corso dei successivi interventi di indagine fino al 1993. L’intervento, che prevedeva appena cinque giornate di lavoro, aveva come scopo principale quello di effettuare un rilievo accurato dei blocchi individuati, oltre ad accertare la presenza di ulteriori elementi indicativi della presenza dell’eventuale relitto connesso al carico lapideo.
Sin dalle prime immersioni fu possibile identificare e documentare i tre imponenti elementi marmorei di forma
lievemente tronco-conica, subito interpretati come probabili rocchi di colonna. L’area di interesse fu racchiusa entro un quadrato di 15 m. di lato, delimitato da capisaldi (A, B, C, D) ai quattro angoli ed ulteriormente suddiviso mediante reticolo in settori, anch’essi quadrati, di 2 m. di lato. I blocchi si presentavano adagiati secondo un orientamento grossomodo Ovest-Est, su fondo sabbioso, ad una profondità variabile tra i 7 e gli 8 m. Osservando la pianta del sito in figura (alla cui numerazione in legenda farò riferimento d’ora innanzi per indicare i tre rocchi) appare evidente come i manufatti n. 1 e 2 giacessero in posizione sostanzialmente allineata, ad una distanza di meno di 2 m. l’uno dall’altro; il blocco n. 3, invece, si trovava a ben 4,80 m. a Sud del n. 2, ponendo sin dalle prime battute legittimi interrogativi sulle dinamiche di affondamento conseguenti al supposto naufragio. I reperti n. 2 e 3, inoltre, mostravano un orientamento pressoché identico, a differenza del blocco n. 1, maggiormente ruotato verso Sud.
Come si può rilevare dalla pianta in fig., la disposizione dei tre rocchi in relazione al Nord geografico lungo i rispettivi assi longitudinali ( x ) e trasversali ( y ) è mostrata nella tabella riportata di seguito (tabella 1).
Asse x(deg.) Asse y (deg.)
BLOCCO n. 1 300° N/O 30° N/E
BLOCCO n. 2 275° O 5° N
BLOCCO n. 3 283° O 13° N
Tab. 1
Ai tecnici e agli archeologi di questa prima campagna di scavo i manufatti apparivano abbondantemente ricoperti di
concrezioni e flora marina, nonché sprofondati nella sabbia del fondale per più di un terzo del loro diametro; fu tuttavia possibile apprezzare le loro imponenti dimensioni.46
Oltre ai rocchi di marmo fu indagato anche un ulteriore
elemento litico, posto al di fuori del quadrato delimitante l’area dei tre blocchi, 9,20 m. ad Est del blocco n. 1; tale elemento risultò corrispondere ad un grosso ciottolo semilavorato in arenaria, di forma approssimativamente ellittica. Il reperto, segnalato in pianta con il numero 4, emergeva di pochi centimetri dal fondale e misura circa 78 cm. di diametro per 38 cm. di altezza.47 Ad una
ricognizione superficiale dell’area, nessun altro elemento
potenzialmente inerente al carico marmoreo poté essere riscontrato, eccezion fatta per una decina di frammenti fittili assai fluitati e rinvenuti in disposizione casuale nella zona compresa dall’indagine. Si procedette pertanto, in seguito al completamento della
documentazione grafica e video dell’area, ad effettuare un approfondimento nei settori corrispondenti allo stretto corridoio passante tra i blocchi n. 1 e 2 (settori 5 e 12), nonché lungo il perimetro del rocchio n. 2. Superati i primi strati, caratterizzati da sporadico e frammentario materiale ceramico antico frammisto ad oggetti moderni, la sorbona ad aria impiegata per lo scavo cominciò a restituire reperti indubbiamente ascrivibili alla presenza di un relitto antico: chiodi in rame di varie forme e dimensioni, esigui frammenti di legno, gran quantità di lacerti di lamine plumbee, notoriamente utilizzate fino a tutto il I secolo d.C. per il
rivestimento degli scafi;48 assai scarni, sfortunatamente, i
rinvenimenti ceramici, attestati in soli tre esemplari, tuttavia
46 Per un esame dettagliato dei rocchi, v. infra, pp.14-
47 Tale oggetto, indagato durante la campagna di scavo del 1994 e recuperato nel corso di quella del 1997 (v. infra, pp.
9-12), è attualmente conservato a Genova, presso i magazzini della Soprintendenza Archeologica della Liguria.
riferibili a tipologie di grandi fittili prodotti durante la prima età imperiale.49
Lo scavo procedette fino a raggiungere, lungo il perimetro del blocco n. 2, l’argilloso strato di appoggio del manufatto, dove, oltre ad uno dei frammenti ceramici citati, segnatamente una
porzione di spalla di anfora Dressel 2/4 (LBC 98 da inventario), fu altresì portato alla luce un peculiare esemplare di grappa “a doppia coda di rondine” in rame (LBC 87 da inventario). Il nominato strato di appoggio risultò inoltre essere caratterizzato dalla presenza di alcuni ciottoli di pietra, di colore grigio-verde.
Seconda campagna: Settembre 1991
Nel Settembre del 1991 il sito fu interessato da un secondo intervento volto innanzitutto ad asportare uno dei blocchi giacenti sul fondale, con lo scopo essenziale di poter analizzare con
attenzione il marmo di cui i manufatti sono composti e con l’intento di indagare in profondità l’area occupata dal blocco stesso, onde ricavare ulteriori elementi di conoscenza in merito al relitto. Anche in questa occasione la durata dei lavori fu piuttosto breve,
considerando che tutte le operazioni descritte furono portate a termine in soli sette giorni di cantiere.
Dopo aver sistemato e rimesso in bolla i capisaldi lasciati in
situ alla fine della precedente campagna di scavo, si procedette
anzitutto a posizionare un nuovo reticolo di 8x8 m., suddiviso in settori di 2 m. di lato, ancora una volta corrispondenti all’area adiacente al blocco n. 2; gli sforzi dell’équipe di scavo erano pertanto nuovamente incentrati sui settori da 5 a 12, in tale occasione indagati più estensivamente e non solo nella fascia perimetrale del rocchio n. 2. Rimessa dunque in azione la sorbona, si poté proseguire con lo scavo e scendere ancora di quota rispetto agli strati messi in luce l’anno precedente, fino a raggiungere il giallo strato argilloso, ricco di ciottoli grigio-verdi, su cui poggiava il blocco n. 2, che fu completamente liberato dai detriti in cui era rimasto immerso per secoli.
L’intervento permise di riportare alla luce numerosi chiodi in rame di varie dimensioni, lamine plumbee, cinque perni in bronzo a cavallo tra i settori 7 e 10 (LBC 117, 118, 146, 147, 172 da
catalogo), scarni frammenti lignei, blocchetti di marmo, vari ciottoli in pietra grigio-verdi, una discreta quantità di frammenti ceramici ascrivibili a grandi fittili, ma privi di elementi tipologici
significativi; a ciò si aggiunse il ritrovamento di un lingotto di piombo in parte fuso ad una delle estremità (LBC 148 da catalogo) ed una seconda grappa “a doppia coda di rondine” (LBC 150 da catalogo), sempre al confine tra i settori 7 e 10.
A questo punto, una volta eseguite le attività di
documentazione grafica, fotografica e video, fu possibile dare avvio alle operazioni di recupero del blocco n. 2, scelto per ragioni che appaiono piuttosto ovvie dato che tutta l’area circostante tale manufatto era ormai stata completamente scavata. Gli evidenti problemi conseguenti le imponenti dimensioni ed il notevole peso dell’oggetto, stimato attorno alle 40 tonnellate, furono
brillantemente superati grazie alla collaborazione del Dipartimento Marittimo di La Spezia e del GRUPNUL (Gruppo Navi Uso
Locale) della Marina Militare, che misero a disposizione un pontone con gru di portata adeguata; l’enorme blocco fu dunque strappato al mare per essere in seguito trasportato presso il Museo Archeologico di Luni, dove è tuttora conservato.
L’area precedentemente occupata dal manufatto n. 2 era così finalmente libera e poté essere indagata, dopo la stesura di un reticolo di 4 quadrati di 2 m. di lato (settori 6, 7, 10, 11);
l’approfondimento nel piccolo saggio di scavo restituì altri chiodi in rame, nuovi frammenti di lamina plumbea, cinque lacerti ceramici, alcuni frammenti lignei, uno dei quali di discrete dimensioni; tale frammento ligneo non venne tuttavia recuperato, ma lasciato in situ per essere analizzato con maggior cura in un’altra occasione.
Terza campagna: Novembre 1992
Proprio con lo scopo di approfondire l’analisi del reperto ligneo segnalato alla fine della precedente campagna – oltre che con l’intento di allargare eventualmente lo scavo con un saggio
nell’area del blocco n. 3 – fu approntata, nell’inverno del 1992, una breve campagna di intervento che vide la collaborazione degli stagisti del corso di “Assistente tecnico archeologico subacqueo” organizzato dall’ENFAP in collaborazione con il Ministero per i Beni Culturali e la Regione Liguria.
Sfortunatamente, le avverse condizioni meteo-marine che imperversarono sulla Baia della Caletta per quasi tutto il periodo preventivato in sede di organizzazione dello scavo, non permisero l’attuazione del piano di lavoro prestabilito. Fu esclusivamente possibile accertare la non pertinenza del summenzionato frammento ligneo al relitto.
Quarta campagna: Agosto 1993
Con l’estate successiva e le propizie condizioni del mare legate alla bella stagione, si procedette ad un ulteriore intervento, mirato questa volta a sondare la zona compresa tra i blocchi n. 1 e
3, corrispondenti nello specifico ai settori 13, 14, 19, 20. La
speranza del team di scavo era quella di poter riscontrare, anche in questa area, la presenza di evidenze archeologiche pertinenti allo strato di argilla gialla, con inclusi ciottoli grigio-verdi, costituente il livello di piano d’appoggio del rocchio n. 2. Procedendo con
sorbona e narghilè, dopo aver atteso alle preliminari operazioni di disposizione e messa in bolla del reticolo, gli archeologi, insieme ai loro collaboratori appartenenti all’Arma dei Carabinieri ed al corpo dei Vigili del Fuoco, incontrarono in prima istanza alcuni strati caratterizzati dalla presenza di pochi chiodi in rame e lacerti ceramici frammisti a materiale moderno.
Nel giro di pochi giorni, tuttavia, lo strato argilloso di colore giallo venne alla luce, restituendo un chiodo, frammenti di lamina plumbea ed alcuni significativi reperti ceramici: una porzione di ansa pseudo-bifida (settore 13) e vari frammenti di parete d’anfora. Svariate zone della superficie dello strato evidenziato recavano diffuse lenti di colore rosso, probabile testimonianza della
ossidazione e dissoluzione di manufatti in ferro. Un ristretto saggio in profondità mostrò che lo strato di argilla gialla, spesso poco più di 15 cm, copriva un ulteriore strato argilloso, di colore grigio, archeologicamente sterile.
Quinta campagna: Ottobre 1994
Durante la campagna del 1994, condotta grazie al supporto del rimorchiatore “Eterno”, l'attenzione della Soprintendenza si concentrò essenzialmente sull'indagine del reperto litico n. 4
(settore 99), fino a quel momento escluso dai precedenti interventi di scavo. Non servì molto tempo per liberare completamente
l'oggetto (denominato sino ad allora tanto provvisoriamente quanto impropriamente “capitello”) dalla sabbia del fondale, arrivando a mettere in luce, scendendo in quota di appena 20 cm., lo strato argilloso di colore giallo che abbiamo ormai più volte rilevato costituire il livello di piano di appoggio dei manufatti del carico naufragato. Il cosiddetto capitello risultò così essere un massiccio blocco di arenaria (diam. 78 cm. ca., h. 38 cm.), grossolanamente sbozzato in forma quasi cilindrica.
Lo strato su cui il manufatto era adagiato si mostrò subito, anche in questa occasione, piuttosto ricco di materiale metallico (chiodi di varie dimensioni, frammenti di lamina plumbea) ma alquanto avaro di reperti ceramici, presenti peraltro in esemplari estremamente frammentari, sebbene indicativamente ascrivibili a forme anforacee. Prima di essere prelevati, i reperti vennero
fotografati, posizionati in pianta ed orientati in relazione all'angolo nord-est del blocco n.1 e di un corpo morto in cemento pochi dm. a nord-est del reperto litico n. 4. Data la discreta quantità di evidenze si ritenne opportuno approntare un reticolo rigido di quattro
quadrati di due metri di lato, corrispondenti ai settori 94, 95, 98 e 99. Le successive operazioni di scavo, condotte in collaborazione con alcuni esponenti del corpo sommozzatori dei Vigili del Fuoco,
si concentrarono essenzialmente sui settori 98 e 99, e
permisero il rinvenimento di ulteriori cospicui frammenti di lamina plumbea nonché di chiodi di notevoli dimensioni restituiti dal
settore 99 ( LBC??). Dal settore 98, sempre poggianti sullo strato di argilla gialla, emersero oltre frammenti di piombo e ad alcuni chiodi.
Una volta terminato lo scavo dei quadrati 98 e 99, si pianificò il sollevamento e successivo spostamento al di fuori del reticolo del blocco n.4, onde indagare l'area da esso occupata: l'operazione, piuttosto delicata, fu portata a termine grazie all'utilizzo di un pallone della portata di una tonnellata, gonfiato tramite la manichetta della sorbona. L'analisi della zona lasciata libera in seguito all'asportazione del manufatto in arenaria presentava caratteristiche in totale accordo con i contesti in precedenza indagati: blocchetti di pietra grigio-verde, alcuni chiodi, esigui frammenti lignei, porzioni di lamina di piombo.
Sesta campagna: Luglio 1997
L'ultima campagna di intervento sul sito del relitto della Baia della Caletta vide focalizzarsi l'attenzione degli archeologi della Soprintendenza sull'area occupata dal blocco n. 3 e sui settori immediatamente a nord di esso (i settori 15, 16, 17, 18). Purtroppo la situazione stratigrafica si presentava piuttosto problematica, dato che tutta la zona mostrava la presenza di un massiccio fenomeno di insabbiamento sovvenuto negli anni successivi alla campagna di
scavo precedente; insabbiamento dovuto, con buona probabilità, alle violente alluvioni susseguitesi in quegli anni. Se durante i primi interventi, infatti, lo strato argilloso con inclusi ciottoli grigio-verdi, interpretato come piano deposizionale del relitto, si trovava circa 80 cm. al di sotto della quota del fondale moderno, nel 1997 fu
necessario sorbonare strati di sabbia, tutti di recente formazione, per uno spessore di oltre un metro e mezzo prima di raggiungerlo. Tali strati restituirono alcuni frammenti ceramici, tra cui una porzione di orlo e collo d’anfora con impostazione dell’attacco di un’ansa
bifida (settore 15, LER 196).
Tanta fatica, peraltro, non poté essere appagata dal
rinvenimento di reperti archeologicamente rilevanti: lo strato di argilla gialla nei settori indagati, infatti, non restituì la benché minima testimonianza della presenza del relitto. Tale circostanza fece supporre che il rocchio n. 3, pur rispondendo probabilmente ad una fase di deposizione in sincronia con gli altri reperti, per
dinamiche legate al naufragio dovette rotolare lungo la depressione del fondale per andarsi ad adagiare nella sua attuale posizione. Va rimarcato, inoltre, che nel corso degli scavi ci si avvalse della consulenza del sig. “Giovannino”, grande conoscitore dei fondali della zona e preziosa fonte orale: egli ricordava con precisione, tra l'altro, la presenza in passato di un quarto blocco marmoreo, lungo circa la metà del rocchio n. 3 e collocato qualche metro più ad est di quest' ultimo. Una chiara testimonianza, pertanto, di recenti atti di spoliazione del relitto, resi senza dubbio piuttosto semplici dalla bassa profondità del sito.