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Il "relitto della colonna" di Lerici: un'ipotesi di interpretazione nel quadro dei trasporti marittimi di carichi lapidei in età romana.

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Le naves lapidariae

Le fonti antiche

Schedatura dei relitti

Relitti antichi che hanno restituito carichi lapidei, per lo più composti da marmi, sono segnalati in molte zone del Mediterraneo, dislocati per lo più lungo rotte abituali testimoni dei traffici esistenti tra le regioni di estrazione e le varie località di destinazione, prima fra tutte, in età imperiale, Portus e quindi la Marmorata, grande nodo di smistamento dei marmi provenienti da ogni angolo

dell'Impero. Riferendomi in prima battuta più in generale ai “relitti antichi”, intendo riportare in questa sede un catalogo che abbracci un arco cronologico piuttosto ampio, compreso grossomodo tra l'età tardo – repubblicana e quella bizantina. Questo in ragione di due ordini di fattori, in realtà connessi tra di loro: da un lato il numero relativamente scarso di relitti di questo tipo, ed ancor più le generali condizioni di pessima conservazione degli scafi o di parziale

conoscenza dei relitti stessi, spesso limitata esclusivamente a superficiali segnalazioni, ci obbliga ad allargare il campo di indagine; dall'altro l'alto grado di conservatività nelle tecniche di navigazione e di assemblaggio nell'architettura navale ci consente di operare confronti validi, pur con le debite cautele, anche tra contesti risalenti ad epoche piuttosto distanti tra loro.

Il seguente catalogo è impostato in maniera sintetica, delineando per i vari relitti, elencati in ordine alfabetico, i dati

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principali e prestando particolare attenzione alle porzioni di scafo e agli elementi di assemblaggio dello stesso, laddove presenti.

1) Agropoli1

Al largo della costa campana è segnalato un non ben

identificato carico marmoreo di probabile provenienza egea, forse diretto a Roma. Le scarse evidenze ad esso connesse permettono di supporne una generica datazione ad età romana.

2) Beausèjour2

Al largo di Cap d’Agde, situato una sessantina di Km. a Nord/Est di Narbonne, giace ad una profondità compresa tra i 3 e i 5 m. un modesto carico di blocchi in marmo lunense, del peso complessivo di 23 ,7 tonnellate,3 disposti su un’area di 8x3 m. Il

relitto, parzialmente indagato dal DRASM e datato alla metà del I secolo d. C., ha restituito frammenti di anfore ascrivibili ai tipi

Dressel 1A, Dressel 2-4 da Tarraconensis, Gauloise; esemplari

riferibili a Dressel 20 non sono probabilmente da considerare pertinenti al sito. Secondo la Bernard il carico doveva essere destinato alle coste della Narbonese. Scarsissime le evidenze relative allo scafo, limitate a frammenti di lamina plumbea, sei chiodi in ferro e vari chiodi in bronzo.

1 Cfr. PARKER, 1992, N. 18.; GIANFROTTA, 1981, PP. 27-31. 2 Cfr. BERNARD, 2000, PP. 51-53; BERNARD, 2001, P. 45.

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3) Camarina4

Poche centinaia di metri a Sud del Capo di Camarina, a 50 m. dalla costa e a circa 3 m. di profondità, è situato un relitto, disposto su un’area di 18x5 m., che ha restituito un carico misto di elementi litici e ceramici. Il carico lapideo è composto da due colonne marmoree, una delle quali spezzata a metà, della lunghezza di 6,25 m. l’una, e da 10 blocchi squadrati in arenaria. Il marmo delle colonne è il pregiato “giallo antico” della Numidia, proveniente dalle cave imperiali di Simitthu, l’odierna Chemtou. I blocchi di arenaria, che misurano approssimativamente 70x30x20 cm., dovevano servire come zavorra.

Tra le ceramiche trasportate, la cui cospicua quantità fa pensare ad una loro pertinenza ad un carico secondario, sono state rinvenute forme anforacee di produzione africana e ceramiche domestiche in terra sigillata chiara, sempre africana, distinte

essenzialmente in casseruole e piatti piani. Tali reperti permettono di datare il relitto alla metà del III secolo d. C. Interessante è stato il rinvenimento di alcune porzioni lignee dello scafo della nave, la cui destinazione finale doveva essere probabilmente Roma: si tratta di numerose porzioni di ordinate e di frammenti di elementi

longitudinali, tra cui forse la chiglia, tutti in legno di quercia. Le analisi effettuate non hanno permesso di individuare tecniche di assemblaggio dissimili da quelle canonicamente adottate per i relitti di età romana. (VEDI MEGLIO; SE POSSIBILE)

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4) Capo Cimiti5

Quattro miglia a sud di Capo Colonna, dove si stagliano solitari i resti del tempio di Hera Lacinia, una ventina di metri al largo di Capo Cimiti, su un fondale di 5-7 m. di profondità,

giacciono i resti di una navis lapidaria che trasportava sei colonne di marmo cipollino dell’Eubea. Cinque di esse si conservano intatte, mentre una risulta essere spezzata in due; le approssimative

dimensioni dei blocchi corrispondono ad 8,5 m. di lunghezza per 90 cm. di diametro. Il peso complessivo del carico, il cui porto di destinazione risulta incerto, si aggira intorno alle 100 tonnellate.

5) Capo Granitola A6

A circa 150 m. dalla costa di Capo Granitola, poche miglia a Sud di Mazara, giacciono a 3 metri di profondità 49 blocchi di marmo proconnesio. I manufatti, di forma parallelepipeda e

trapezoidale, misurano all’incirca 3,5 x 1 x 1 m.; il peso totale del carico ammonta a 150 tonnellate, sebbene la disposizione dei blocchi faccia pensare ad un recupero in antico di molti elementi, che dovevano essere disposti in otto file parallele arrivando a pesare nel complesso oltre 350 tonnellate. Alcuni frammenti di anfore del tipo Kapitän 2 hanno permesso di datare il sito tra il 180 d. C. e la fine del III secolo d. C. Alcuni frammenti di marmi di diverse

varietà rinvenuti sul relitto, tra cui compaiono il “verde antico” ed il pario, sono stati interpretati come residui di carichi lapidei

precedenti. Nessuna traccia dello scafo è stata portata alla luce.

5 Cfr. ROGHI, 1961, PP. 55-61; ROYAL, 2007, P. 51.

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6) Capo Granitola D7

Poco più a Sud di Capo Granitola, nei pressi di località Tre Fontane, un secondo carico marmoreo è stato individuato nel 1988: si tratta di tre capitelli corinzi, due ionici e tre basi di colonna in marmo bianco; i manufatti sono stati recuperati e sono attualmente conservati presso il Museo Civico di Mazara. Dalle analisi

stilistiche effettuate da Pensabene sull’unico capitello corinzio leggibile è possibile datare il carico tra il 160 e il 190 d.C.

7) Capo Taormina8

Ai piedi del promontorio di Capo Taormina, ad una

profondità compresa tra i 21 e i 28 m., si conservano i resti di un relitto di navis lapidaria genericamente ascrivibile ad età imperiale. Il carico, del peso totale di circa 100 tonnellate, è composto da 37 colonne e due blocchi parallelepipedi in marmo verde; le

dimensioni delle colonne, molte delle quali si presentano

pesantemente frantumate, sono comprese tra i 40 cm. ed i 6,05 m. di lunghezza ed i 45 cm. ed i 90 cm. di diametro; i due blocchi squadrati misurano invece rispettivamente 1,80 x 0,85 x 0,70 m., e 2,25 x 1 x 1 m. Alcune delle colonne conservano l’originaria posizione di stivaggio, essendo disposte lungo uno stesso asse, mentre i manufatti rimanenti mostrano un orientamento sparso, dovuto al probabile rotolamento verso Sud lungo il pendio del fondale. Nessun resto dello scafo è stato rinvenuto, al di fuori di un lungo perno in rame dalla forma singolare: si tratta di un’asta lunga 71 cm., dal fusto a sezione quadrata, dotata di due teste a calotta

7 Cfr. PURPURA, 1983, PP. 44-48; PURPURA, 1991, P. 137; PENSABENE, 200?, PP. 533-541; PARKER, 1992, P. 116. 8 Cfr. KAPITÄN, 1961

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emisferica alle estremità; una placchetta quadrata disposta ad una delle estremità doveva servire probabilmente da supporto alla

ribattitura di questo particolare dispositivo di fissaggio. Un ulteriore reperto proveniente dal sito risulta essere uno scandaglio di piombo del diametro di 20 cm e del peso di 13,4 Kg.

8) Capraia D9

Ad una profondità di oltre 100 m. è segnalata la presenza di alcuni blocchi lapidei, forse di marmo.

9) Carry – le – Rouet10

Al largo delle Bouches – du – Rhône, a 6 m. di profondità, un’équipe del DRASM ha portato alla luce un modesto carico lapideo composto da 24 blocchi squadrati di calcare delle cave di Ponteau, presso Martigues. Ciascun blocco misura all’incirca 1,60 x 0,60 x 0,60 m., per un peso complessivo del carico che si aggira intorno alle 30 tonnellate; molti dei blocchi presentano marchi di cava rappresentati dai monogrammi greci ΑΡ, mentre solo il blocco centrale presenta incise le lettere ΓΑΡ. Tali simboli sono molto simili a quelli rinvenuti sugli elementi architettonici della “Torre Quadrata” di Marsiglia, particolare che ha fatto pensare che i blocchi del relitto fossero destinati alla costruzione delle mura di

Massalia. I frammenti di anfore Dressel 1A e di ceramica campana

rinvenuti al di sotto dei manufatti litici, permettono di datare il sito a cavallo tra il II ed il I secolo a. C. Scarsissime le evidenze relative allo scafo, riducibili a pochi, sconnessi frammenti lignei e ad alcune

9 Cfr. PARKER, 1992, P. 127.

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porzioni di lamina plumbea del rivestimento della carena: elementi che non permettono di ipotizzare una tecnica costruttiva non

ordinaria.

10) Cavlena11

Un carico composto da blocchi litici e colonne in marmo è segnalato al largo dell’isola di Krk, in Croazia.

11) Coscia di Donna12

Al largo della Punta del Francese, sulla costa

nord-occidentale della Sardegna, giace un carico di manufatti in marmo, forse lunense, composto da 3 blocchi di forma pressoché cubica di 2,20 m. di lato ciascuno e da 12 parallelepipedi di 2,80 x 1,20 x 0,80 m. Il peso complessivo del carico dovrebbe ammontare intorno alle 265-275 tonnellate.

12) Dramont I13

Il relitto è stato rinvenuto al largo di Saint Raphäel, ad una profondità di 32 m. Il principale carico lapideo, disperso su un’area di circa 500 m2, è costituito da tre blocchi squadrati di marmo

“africano” del peso complessivo di 23 tonnellate. Le dimensioni dei blocchi risultano essere, rispettivamente, di 2,2m. x 1m. x 1m., 3,8m. x 0,95m. x 0,8 m. e 2,68m. x 1,1m. x 1m. A tali manufatti si accompagnava una grande quantità di pietra pomice, del volume totale di più di 500 litri, oltre ad alcune centinaia di chili di

11 Cfr. JURISIČ, 2000, P. 12 Cfr. GALASSO, 2001…

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corindone, un minerale abrasivo di estrema durezza proveniente con buona probabilità dall’isola di Naxos. Tra gli altri reperti rinvenuti si possono annoverare una statuetta di un cobra in bronzo, una lucerna in frammenti, un’urna bronzea estremamente danneggiata; il ritrovamento di alcuni frammenti anforacei riferibili alle tipologie

Dressel 2-4, Dressel 7-11 e Dressel 20 consente di datare il relitto

tra il 50 e il 75 d. C. L’eterogeneità del carico ha fatto pensare che la nave fosse salpata da Portus, alla volta di una non ben

identificabile località lungo le coste francesi.

Il relitto di Dramont I si distingue soprattutto per il fortunato rinvenimento, caso oltremodo raro per le naves lapidariae, di cospicue porzioni lignee dello scafo: una parte di carena lunga 8,5 m. e larga 3 m., due massicci frammenti di chiglia ed altri elementi sparsi. L’assemblaggio è shell first e presenta una tecnica canonica con mortase e tenoni fissati con caviglie di legno; i chiodi utilizzati per il fissaggio del fasciame alle ordinate risultano piuttosto radi. Quel che più colpisce è la robustezza degli elementi lignei

conservati, piuttosto sovradimensionati se si considera il peso non eccessivo del carico trasportato. Se le tavole del fasciame misurano infatti uno spessore medio di 5 cm., le ordinate, poste ad una

distanza di circa 15 cm. le une dalle altre, raggiungono anche i 17 cm. di altezza. Quanto alla chiglia, in sezione essa si presenta come un trapezio di 26 cm. di altezza con basi rispettivamente di 18 e 21 cm. I torelli sono saldamente fissati alla chiglia sia per mezzo di mortase e tenoni che tramite chiodi, lunghi oltre 25 cm., secondo una tecnica riscontrabile ad esempio anche a Mahdia.

Un particolare non irrilevante è costituito dal fatto che le parti di scafo conservate non giacevano al di sotto dei blocchi del carico, bensì a più di 6 m. di distanza da essi, verso Nord-Est: ciò

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indicherebbe un ribaltamento del carico in fase di naufragio. In linea generale è altresì possibile rimarcare che la presenza di chiodi risulta piuttosto sporadica anche per quel che concerne

l’assemblaggio del fasciame interno alle serrette.

13) Giardini Naxos14

Il relitto è stato individuato nella baia di Giardini Naxos, 500m. a sud di Capo Taormina, a 24 m. di profondità. Il carico si compone di 13 blocchi squadrati in marmo cipollino di Carystos, in Eubea, e 24 colonne di un marmo bianco di provenienza

genericamente egea, disposti su un’area di 17 x 6 m. I blocchi parallelepipedi, di cui il più massiccio misura 3,3 x 1 x 0,6 m., presentano in alcuni casi i caratteristici tagli “a scalino” frutto di estrazioni effettuate lungo una litoclasi; tali oggetti dovevano essere destinati a formare lastre di rivestimento parietale o pavimentale. Le colonne misurano invece dai 40 agli 80 cm. di diametro e

raggiungono una lunghezza massima di 6 m.; esse dovevano servire alla costruzione di un qualche edificio pubblico di medie

dimensioni o di una villa. Il peso totale del carico si aggira intorno alle 95 tonnellate.

La disposizione dei manufatti, nonostante una lieve

dispersione dovuta al rotolamento di alcune colonne lungo il pendio del fondale, mostra come il carico fosse stato accuratamente

sistemato lungo l’asse longitudinale della nave. Gli unici reperti ceramici certamente riferibili al relitto si riducono a due porzioni di anfore olearie della Mauretania, che consentono una datazione del sito al III secolo d. C. I soli elementi relativi alla struttura della nave venuti alla luce sono diversi chiodi di svariate dimensioni, di cui la

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maggior parte in bronzo e solo alcuni in rame, un cardine ed una maniglia, entrambi di bronzo; nessuna porzione lignea dello scafo è stata registrata. Tuttavia, sulla base dell’estensione dell’area di dispersione del carico e di alcuni confronti con altri casi di naves

lapidariae, è stato proposto che le dimensioni della nave dovessero

attestarsi intorno ai 23 – 25 m. di lunghezza per 6 m. di larghezza e 3 m. di altezza di immersione. I porti di origine e destinazione dell’imbarcazione non sono facili da individuare con precisione: è certo che la nave deve aver toccato le coste dell’Eubea per caricare il cipollino, ma non è chiaro dove possa aver imbarcato le colonne in marmo bianco, forse in Asia Minore o in Attica. Quanto alla destinazione, la più probabile sembra essere Roma, ma non si possono escludere località delle province occidentali o anche del Nord-Africa.

14) Isola delle Correnti15

A ponente dell’Isola delle Correnti e a Sud della Punta delle Formiche, ad una profondità variabile tra i 7 e i 9 m., è situato uno dei più imponenti carichi marmorei noti, del peso stimato di oltre 350 tonnellate. I manufatti presenti risultano essere 40 blocchi

parallelepipedi, di dimensioni comprese tra gli 80 x 60 x 55 cm. ed i 4,30 x 2,25 x 1,10 m.; il blocco più grande raggiunge il peso di 28,5 tonnellate. Il marmo è di colore bianco con venature bluastre, forse proconnesio. A tali oggetti si aggiunge un frammento di marmo lavorato, una porzione di un disco che presenta una scanalatura sull’orlo.

15 Cfr. KAPITÄN, 1961

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Il carico era disposto in quattro file di blocchi sovrapposti, che hanno conservato grossomodo la posizione originaria; fattore, quest’ultimo, che ha fatto supporre uno stivaggio degli stessi sul fondo dell’imbarcazione. Nessun elemento relativo allo scafo della nave è stato rinvenuto, ad eccezione di una porzione di lamina plumbea del rivestimento. Quanto alla ceramica, solo un puntale d’anfora, di dubbia pertinenza al relitto, è venuto alla luce: si tratta forse di una porzione di un esemplare di produzione africana di III – IV secolo d. C. Il peso del carico nonché l’area da esso occupata sul fondale fanno pensare ad una nave lunga tra i 40 e i 48 m., larga 10 – 11 m.

15) Izmetište16

Al largo delle isole croate di Pakleni è segnalato un carico di 9 blocchi litici, il più grande dei quali, semilavorato, è di un granito verde-scuro; gli altri otto oggetti sono invece di una non ben

identificabile pietra calcarea. La provenienza del carico è

attribuibile ad area egea e databile, grazie alle ceramiche rinvenute, agli inizi del II secolo d. C.

16) Jakljan17

16 Cfr.JURISIČ, 2000, P. 40. 17 Cfr.JURISIČ, 2000, P. 40.

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Nelle acque adiacenti all’isola di Jakljan, in Croazia, è stato rinvenuto un carico composto da tre sarcofagi semi-lavorati

accompagnati dai rispettivi coperchi. Dalle tecniche di lavorazione adottate sui sarcofagi è possibile datare genericamente il sito ad epoca classica.

17) Kizilburun18

Al largo del promontorio turco di Kizilburun, a sud-ovest di Izmir, è stato recentemente indagato un relitto posto ad una

profondità di 42-45 m. Il carico lapideo ha restituito vari manufatti in marmo proconnesio, tra cui otto tamburi di colonna che misurano all’incirca 90 cm. di altezza e tra 150 e 160 cm. di diametro

ciascuno; la sovrapposizione dei rocchi, semilavorati, permette di restituire una colonna alta più di 9 m. Oltre alla colonna la nave trasportava anche 15 blocchi squadrati semilavorati, due louteria, uno dei quali corredato dalla propria base, una stele anepigrafe, un piccolo mortarium, un capitello non lavorato, tutti in marmo del Proconneso. Il peso del carico marmoreo ammonta intorno alle 75 tonnellate.

A tali reperti si aggiungono 9 maniglie in bronzo, lo stelo di un globo di vetro e numerosi frammenti fittili riferibili ad un’ampia varietà di ceramiche da mensa e da fuoco, oltre a ceramica fine ellenistica e a diverse tipologie anforacee quali Lamboglia 2, anfore di Kos ed egizie: rinvenimenti che permettono di datare il sito al I secolo a. C. Scarse, invece, le evidenze relative allo scafo della nave, riducibili ad una gran quantità di dispositivi di fissaggio (oltre 250) costituiti per lo più da chiodi di rame; attinenti

all’equipaggiamento dell’imbarcazione sono invece uno scandaglio

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di piombo, due collari di ancora sempre in piombo ed una porzione di tubazione metallica concrezionata.

18) Ladispoli B19

Al largo della costa di Ladispoli è segnalata la presenza di 9 colonne di marmo disposte su tre file.

19) Les Riches Dunes 5

Una campagna di survey effettuata nel 2002 dal DRASM al largo di Cap d’Agde, permise di riconoscere i resti di un relitto di

navis lapidaria naufragata con il proprio carico; tra i reperti rilevati

è stato possibile individuare, oltre ad una serie di lastre frammentate in marmo grigio e ad un capitello ionico in marmo bianco, una piccola colonna, sempre in marmo bianco, di 50,4 cm. di lunghezza, ed un massiccio blocco squadrato e semilavorato di 2m. x 1 m. x 0,4 m.; il materiale di cui è costituito tale blocco è stato interpretato come marmo lunense.

20) Lixouri20

Di fronte alla costa di Cefalonia, a soli 4 m. di profondità, è stato rinvenuto un carico in marmo di provenienza egea costituito da sei statue acefale di figure sia maschili che femminili, due capitelli ionici e quattro basi di semi-colonne. Il sito è

genericamente datato ad epoca romana.

19 Cfr. GIANFROTTA, 1981, PP. 70-72. 20 Cfr. TOUCHAIS, 1981, P. 805.

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21) Mahdia21

Caratterizzato senza dubbio da uno dei carichi più ricchi ed imponenti mai rinvenuti, il relitto è stato individuato agli inizi del ‘900 al largo delle coste tunisine, ad una profondità di 40 m. Non mi dilungherò nella descrizione delle decine di raffinati oggetti d’arte portati alla luce durante gli scavi, limitandomi a citarne i più significativi: busti e teste in marmo, tra cui una raffigurante

Afrodite, due candelabri e quattro grandi crateri decorati da bassorilievi con scene dionisiache in marmo, statue in bronzo di varie dimensioni, tra cui un’erma di Dioniso ed una statuetta raffigurante un erote. A ciò si aggiunga una quantità di altri elementi architettonici in marmo, e, quel che qui più interessa, un imponente carico di ben 70 colonne in marmo dell’Imetto o

pentelico, lunghe tra 1,85 e 4,4 m., corredate dalle rispettive basi e capitelli corinzi e ionici; il peso delle sole colonne corrisponde a circa 205 tonnellate, pertanto il carico nella sua totalità doveva ammontare ad oltre 250 tonnellate.

I reperti ceramici e l’analisi stilistica degli oggetti d’arte permettono di datare il relitto al secondo/terzo decennio del I secolo a. C. La particolare composizione del carico, che rende il relitto di Mahdia un caso piuttosto unico, ha fatto pensare che gli oggetti ad esso pertinente, di provenienza greca, fossero destinati ad abbellire la dimora di qualche potente e raffinato senatore romano; una testimonianza, dunque, di quella “grecizzazione” della classe dirigente romana seguita alle conquiste di Grecia e Asia Minore.

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Interessante è stato il rinvenimento di cospicue porzioni lignee dello scafo, che hanno mostrato la presenza di un doppio ricorso di fasciame e della laminatura plumbea di rivestimento, senza peraltro indicare l’utilizzo di tecniche di assemblaggio non convenzionali. Gli elementi conservati sono riferibili alla chiglia, davvero massiccia, larga 40 cm. ed alta 50 cm.; i torelli,

analogamente al caso di Dramont I, sono fissati ad essa sia per mezzo di un sistema mortasa-tenone con caviglie in legno che tramite lunghi chiodi ( 40 cm.) che attraversano obliquamente il doppio fasciame. Le dimensioni stimate per l’imbarcazione sono di circa 40 m. di lunghezza per 13,8 m. di larghezza; la disposizione dei materiali architettonici trasportati mostra uno stivaggio in asse con lo scafo e suggerisce una sistemazione delle colonne

simmetricamente ai due lati della chiglia, sul fondo della carena. Secondo l’ipotesi ricostruttiva di Höckmann22 la nave doveva

possedere 8 bagli, di cui 2 estremamente ravvicinati a ridosso dell’albero di maestra al fine di fornire un maggior contrasto alle spinte delle murate. Gli spazi di ponte libero tra un baglio e l’altro, compresi tra i 5 e i 6,5 m., dovevano permettere di caricare

agevolmente nella stiva le colonne, lunghe anche più di 4 m. METTI IMMAGINI

22) Margarina23

22 Cfr. HÖCKMANN, 1994, P. 60. 23 Cfr. JURISIČ, 2000, P. 40.

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Nelle acque dell’isola di Susak, in Croazia, è segnalato un carico di 20 colonne lavorate in marmo bianco con venature grigiastre, accompagnato da alcuni blocchi litici squadrati

semilavorati. Probabilmente pertinente allo stesso relitto è un vicino deposito di tegole, datate, in base alla loro fattura, al I secolo d. C. Il peso del carico ammonta a poco più di 30 tonnellate.

23) Marzamemi A24

Sulla costa sud/orientale della Sicilia, al largo di Marzamemi è stato rinvenuto, alla profondità di 7 m., un carico composto da 15 grossi blocchi riferibili ad elementi architettonici semi-lavorati ( 5 colonne, 3 basi di colonna, 7 porzioni di architrave) in marmo bianco-grigiastro dell’Attica. Il più imponente dei manufatti risulta essere una colonna lunga 6,20 m. e del diametro di 1,78 m. che arriva a pesare ben 40 tonnellate. Il carico, del peso complessivo di 172 tonnellate, è disperso su un’area molto ampia, di circa 60 x 30 m.; tale circostanza ha destato sospetti sulla presenza di un unico relitto. I rinvenimenti ceramici, riferibili ad anfore del tipo Kapitän

1 e 2, forse attinenti ad un carico secondario data la discreta

quantità, permettono in ogni caso di datare il deposito alla prima metà del III secolo d. C. Non v’è traccia dello scafo; l’unico elemento riferibile alla struttura della nave è rappresentato da un massiccio chiodo in rame lungo 14 cm., con testa a calotta

emisferica del diametro di 3 cm.

24 Cfr. KAPITÄN, 1961

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24) Marzamemi B25

Pochi metri a Nord del primo sito è stato indagato, ad una profondità di 5-10 m., un secondo relitto, il cui carico era composto da colonne ed altri pezzi architettonici relativi ad una basilica di età giustinianea. La maggior parte dei manufatti risulta essere di

marmo proconnesio, mentre alcune porzioni più frammentarie sono di “verde antico”. Le colonne sono conservate per lo più in

frammenti, ma la loro altezza originaria doveva essere di circa 3,40 m.; esse dovevano servire come sostegno delle navate della chiesa. Durante gli scavi vennero alla luce inoltre 28 basi e 27 capitelli, oltre alle lastre per la costruzione di un ambone prefabbricato.

Ai due rinvenimenti citati, può esserne aggiunto un terzo, avvenuto agli inizi del ‘900 in occasione della costruzione del porto di Marzamemi: si tratta di due colonne lunghe 9 m. ciascuna, del peso di 20 tonnellate, forse di granito rosso nubiano. I manufatti sono esposti in una piazza di Pachino, ma nulla di preciso si conosce in merito al sito subacqueo da cui esse provengono.26

25) Meloria C27

Le ricognizioni eseguite a metà degli anni Novanta hanno condotto al ritrovamento, nelle acque della piccola isola al largo delle coste livornesi, di 11 grossi blocchi squadrati e di quella che doveva probabilmente essere una colonna semilavorata del

25 Cfr. KAPITÄN, 1961

a, pp. 303-305; KAPITÄN, 1961b, pp. 300-302; KAPITÄN, 1969, PP. 122-133; PARKER, 1992, P. 267. 26 Cfr. KAPITÄN, 1961

b, p. 312.

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diametro di 1,70 e lunga 3,50m, in marmo forse lunense. Il peso totale del carico si aggira intorno alle 50 tonnellate.

26) Methone C28

Al largo di Methoni, pochi Km. a Sud di Pilo, giacciono ad una profondità di 9-10 m. 20 frammenti di colonne in granito di probabile provenienza egizia. Il carico è disposto su un’area di 20 x 30 m. ed il suo peso ammonta a circa 132 tonnellate; le colonne, la cui lunghezza originaria doveva attestarsi intorno agli 8 m.,

sembrano essere il frutto del tentativo di riutilizzo di un edificio crollato. La presenza di frammenti di anfore del tipo Kapitän 2 consente di datare il relitto tra il 200 ed il 250 d. C.

27) Methone D29

Nella stessa località, non distanti dalla riva, sono stati rinvenuti quattro sarcofagi non finiti, decorati a ghirlande e

corredati dai rispettivi coperchi, in pietra di Assos. Gli scarsi reperti ceramici rinvenuti suggeriscono una datazione tra il II ed il III secolo d. C.

28) Porto Novo30

28 Cfr. PARKER, 1992, P. 276. 29 Cfr. PARKER, 1992, P. 276.

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Il carico, del peso complessivo di 138 tonnellate, conta anzitutto cinque grossi parallelepipedi semilavorati in marmo lunense; quattro di essi, tutti alti 1 m., misurano sugli altri lati rispettivamente: 2,7 m. x 2,5 m., 2,7 m. x 2,3 m., 3,1 m. x 2,4 m., 1,9 m. x 1,9 m.; il quinto blocco, davvero imponente, misura 0,8 m. di altezza, 5,8 m. di lunghezza e 2,1 m. di larghezza.

Oltre ai blocchi quadrangolari, quattro rocchi di colonna appena sbozzati, disposti sul fondale a mo’ di croce, completano il carico; tutti e quattro presentano lo stesso diametro, di circa 1,5 m., mentre le rispettive lunghezze risultano essere: 4,8 m., 3, 3 m., 3,2 m., 2,2 m. La sovrapposizione dei blocchi, il più pesante dei quali supera le 23 tonnellate di peso, permetterebbe la restituzione di un’unica colonna alta complessivamente 12-13 m.

29) Punta del Milagro31

Al largo delle coste di Tarragona, non lontano dal punto di rinvenimento del sarcofago di Ippolito (Punta de la Mora) , un carico di fusti di colonne non ben identificate fu recuperato nel corso del ‘900.

30) Punta Scifo32

Il relitto in questione fu descritto per primo da Orsi nel 1911 e nel 1921; i pezzi del carico vennero in seguito recuperati e

dispersi tra vari musei ed edifici calabresi e pugliesi, e quindi censiti negli anni ’70 da Pensabene, che riuscì tuttavia ad

31 Cfr. RIPOLL, 1961, P.20.

(20)

individuarne solo una parte. I manufatti litici giacevano disposti su un’area di 50 x 50 m. a 200 m. dalla costa di Punta di Scifo, poco a Sud di Capo Colonna, ad una profondità di 6-7 m. Originariamente il carico era composto da 11 colonne di due ordini di lunghezze, 3,60 m. e 6 m. (il diametro maggiore misura 65 cm.), 5 labra accompagnati dai rispettivi sostegni modanati a forma di zampe leonine, 5 blocchi quadrangolari dal lato di circa 1,55 m, una grossa lastra di 2,10 x 1,05 x 0,07 m. ed un gruppo statuario di Cupido e Psiche: tutti i reperti elencati erano in marmo “pavonazzetto” synnadico. In marmo bianco di Synnada era invece un ulteriore blocco, mentre altri due parallelepipedi, rispettivamente di 1,8 m3 e

2,07 m3, nonché due altari, erano in marmo proconnesio.Secondo i

calcoli di Orsi il blocco più pesante raggiungeva le 22 tonnellate, mentre il carico totale ammontava a 150 tonnellate.

Le date consolari incise su alcune delle colonne permettono di datare il relitto tra il 197 ed il 200 d.C. Il marmo synnadico può essere stato trasportato inizialmente a Nicomedia o, attraverso la navigazione fluviale sul Meandro, a Mileto; in una di queste due località, probabilmente, la nave fu caricata insieme al proconnesio e salpò verso Ponente. Alcune frammentarie evidenze lignee dello scafo, che sembrerebbe essersi spezzato a metà nel corso del naufragio, hanno permesso di ipotizzare una nave lunga 30-35 m. ed hanno messo in luce la presenza della tecnica a mortasa e tenone, oltre all’utilizzo di alcuni perni in ferro. V MEGLIO GANDOLFI

Recenti ricognizioni effettuate nelle vicinanze di Punta Scifo hanno permesso l’individuazione di almeno altri tre depositi litici, posti a bassa profondità in prossimità della costa.33 Le indagini

risultano essere in fase preliminare, tanto da non poter affermare

(21)

con certezza se il materiale in questione sia marmo od altra pietra. I depositi, denominati provvisoriamente AA, AB ed IT05-AD, sono composti rispettivamente da circa 10, 45 e 55 blocchi squadrati, per un peso stimato di circa 50 tonnellate per il primo sito ed oltre 500 tonnellate per gli altri due. Non è ancora chiaro tuttavia se si tratti di resti di strutture portuali sommerse dal mare o di

carichi pertinenti a relitti. Se fosse confermata quest’ultima ipotesi ci troveremmo di fronte ai due più imponenti carichi di naves

lapidariae fino ad ora conosciuti, che presupporrebbero la presenza

di imbarcazioni di 55-60 m. di lunghezza.

31) Saint Tropez34

Il relitto, investigato agli inizi degli anni Cinquanta da F. Benoît, ha restituito un carico di marmi considerati lunensi

consistente di 14 blocchi, del peso complessivo di 200 tonnellate circa. I manufatti rinvenuti, e recuperati35 grazie ad un ponte-gru,

possono essere così ripartiti:

• 8 tamburi di colonna, di diametro compreso tra 1,80 m. e 1,93 m. e di altezza compresa tra 1,70 m. e 1,95 m.

• un tamburo inferiore, corredato da un listello, di 2,20 m. di diametro per 1,93 m. di altezza

• 3 basi lavorate, corredate da plinti di 2,70 m. di

lunghezza, alti 1,05 m.; il diametro del fusto è di 2,15 m.

• una lastra rettangolare di 2,70 m. di lunghezza per 70 cm. di larghezza

34 Cfr. BENOÎT, 1952, PP. 237-307.

35 In realtà uno degli otto tamburi, del peso di circa 10 tonnellate, non poté essere recuperato a causa della sua posizione

(22)

• un architrave di 5,45 m. di lunghezza per 1,60 di larghezza, per 1,60 m. di altezza.

32) Saintes-Maries-de-la-Mer36

Ritengo sia possibile raggruppare sotto uno stesso paragrafo le assai preliminari osservazioni condotte su tre distinti carichi di marmo, ritenuto lunense (VEDERE MEGLIO SUL BILAN…), rinvenuti dagli archeologi del DRASM al largo di Saintes-Maries-de-la-Mer, alle foci del Rodano, nel 1999. Il relitto indicato con il numero 18 consta di 7 blocchi (CILINDRICI O

PARALLELEPIP??) di cui il più grande misura 2,8 m. x 2,1 m. Al numero 21 corrispondono almeno sette imponenti elementi marmorei quasi completamente sommersi dai detriti del fondale, mentre per il numero 22, l’unico databile, è accertata la presenza di sei-sette blocchi di cui due, lunghi 2,1m., di forma semi-cilindrica; i rimanenti oggetti presentano invece un taglio a foggia di parallelepipedo.

33) Salakta37

Poco a Sud di Mahdia, ad una profondità di 4-5 m., sono state individuate parti di un architrave ed un pilastro in marmo bianco

36Cfr. LONG, 1999, PP. 41-43. 37 Cfr. PARKER, 1992, P. 378.

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venato di grigio, oltre ad alcuni blocchi squadrati. Le tecniche di lavorazione sembrano suggerire una datazione ad età Severiana.

34) San Pietro38

A 100 m. dalla spiaggia di S. Pietro in Bevagna, 8 Km a Sud di Mandria, giacciono ad una profondità compresa tra 4 e 6 m. 23 sarcofagi semilavorati, privi di coperchio. Non è chiaro se il marmo di pregevole qualità di cui sono costituiti i manufatti provenga da Afrodisia, Thasos, o qualche altra località delle coste dell’Asia Minore. La fattura dei sarcofagi ed i scarni frammenti ceramici rinvenuti sul sito permettono di datare genericamente il relitto al III secolo d. C. Il peso complessivo del carico ammonta a circa 75 tonnellate, lasciando supporre la presenza di una nave di circa 20 m. di lunghezza per 5-6 m. di larghezza. Nessun resto dello scafo è stato tuttavia individuato.

35) Sapientza39

Lungo la costa dell’isola greca di Sapientza, ad una

profondità di 7-8 m., giace un carico di blocchi di marmo

bianco-38 Cfr.WARD-PERKINS, THROCKMORTON, 1965, PP. 201-209; ALESSIO, ZACCARIA, 1996, PP. 211-223. 39 Cfr. PARKER, 1992, p. 386.

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grigiastro considerati di epoca romana. Il peso totale del deposito è stimato intorno alle 300 tonnellate.

36) Sidi Ahmad40

Al largo della costa occidentale del Golfo della Sirte sono segnalate due lunghe colonne in marmo, forse “cipollino”.

37) Şile41

Il relitto è stato rinvenuto al largo di Şile, sul Mar Nero, a 400 m. dalla costa ad una profondità di 6 m. Il carico comprendeva due colonne lunghe 3,5 m. ed un grosso blocco squadrato di una breccia forse identificabile come “verde antico” della Tessaglia, oltre ad una serie di altri manufatti in marmo del Proconneso: 5 capitelli ionici, una base di colonna, due grossi blocchi squadrati (del lato di 3,15 e 2,15 m.), una lastra, la statua colossale semi-lavorata di un imperatore (h. 4,5 m.), un grosso busto femminile forse di età traianea, il coperchio di un sarcofago, una stele e due sfere. Il relitto ha restituito anche alcuni dispositivi metallici, non meglio identificati dagli scopritori.

38) Skerki Bank F42

Il relitto giace in mare aperto, tra la Sicilia e la Tunisia, a 765 m. di profondità, e mostra la presenza di un carico misto di elementi

40 Cfr. PARKER, 1992, p. 403. 41 Cfr. BEYKAN, 1988, PP. 127-135. 42 Cfr. MCCANN, OLESON, 2004, PP. 90-117.

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litici da costruzione e ceramiche africane, cui si aggiungono 16 anfore di provenienza mista ( Naxos, Baetica, Tunisia, Pompei) che consentono di datare il sito alla metà del I secolo d. C. Il carico lapideo comprende vari blocchi e colonne, probabilmente di granito rosso di Aswan, o di granito grigio del Mediterraneo occidentale; il peso dei manufatti litici non dovrebbe superare le 9 tonnellate, tuttavia sono supposte per l’imbarcazione le misure di 20 m. di lunghezza per 5 m. di larghezza. Tra i rinvenimenti effettuati risultano gli elementi plumbei di una pompa di sentina, un’ancora in ferro, 6 chiodi in rame.

39) Torre Chianca43

Il relitto, datato alla metà del III secolo d. C., giace a 6 m. di profondità, non lontano da Porto Cesareo, in Puglia. Il carico risulta composto da 5 colonne di “cipollino” di Carystos, lunghe 8-9 m. Alcune anfore rinvenute sul sito sono attribuibili alla forma Dressel

43.

40) Torre Sgarrata44

A Sud-Est di Taranto è stato rinvenuto ad una profondità di 11 m. un relitto di navis lapidaria con il suo carico di 18 sarcofagi

43 Cfr. PARKER, 1992, P. 426.

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sbozzati e 23 grossi blocchi squadrati; sei di tali blocchi sono di alabastro (onice gialla), mentre il restante materiale è di un marmo bianco probabilmente proveniente da Thasos. Alcuni dei sarcofagi erano disposti l’uno dentro l’altro, ed al loro interno erano poi sistemate sottili lastre, sempre in marmo. Il peso del carico ammonta a poco più di 160 tonnellate, mentre la portata lorda doveva aggirarsi intorno alle 250 tonnellate. Tra i reperti rinvenuti si possono annoverare, oltre a frammenti di anfore tripolitane di II-III secolo d. C. e a frammenti di tegole e vetro, sei monete, tra cui una in bronzo di Commodo coniata a Lesbo che fornisce una datazione del relitto alla fine del II secolo d. C. La lunghezza della nave è stimata in almeno 30 m. sulla base dei numerosi frammenti di scafo rinvenuti, tra cui compaiono una cospicua porzione del fasciame, frammenti di ordinate e cinte, frammenti di chiglia e buona parte del paramezzale con la scassa dell’albero.

L’assemblaggio del fasciame mostra una tecnica a mortase e tenoni con caviglie in legno di quercia, secondo uno schema

costruttivo molto simile a quello adottato sulle navi di Nemi; non è stata ravvisata la presenza di forme di calafataggio. L’utilizzo di chiodi, per lo più in rame, sembra essere limitato in maggior misura alle estremità finali di ciascun asse del fasciame; chiodi in ferro ed in rame sono stati adottati poi in interventi di manutenzione

successivi alla costruzione dell’imbarcazione. Il frammento di chiglia conservato si presenta troppo poco consistente per

permettere di comprenderne dimensioni e tecniche di assemblaggio. Maggiori informazioni sono invece deducibili dal paramezzale, conservato per oltre 2 m. di lunghezza, che non sembra mostrare segni di giunzione ai madieri o alla chiglia per mezzo di chiodi o

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caviglie. La scassa, inoltre, presenta un intaglio quadrangolare di 15 cm. di profondità e 45 cm. di lato.

41) Veliki Školj45

Non lontano dall’isola di Mljet, in Croazia, sono segnalati 15 grossi contenitori in pietra corredati da coperchi, destinati

probabilmente al trasporto di olio. Il sito è datato all’inizio del II secolo d. C. in accordo con i reperti ceramici rinvenuti.

Considerazioni in merito alla struttura delle naves

lapidariae

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Prendendo in esame il sintetico catalogo di relitti appena presentato risulta immediata la percezione di quanto scarse siano le evidenze archeologiche in grado di fornire solidi elementi di

valutazione di eventuali particolarità strutturali relative alle naves

lapidariae. Su oltre 40 relitti i soli casi che abbiano restituito

significative porzioni lignee di scafo si riducono a quelli di

Dramont I, Mahdia, Torre Sgarrata e, in minor misura, Camarina e Punta Scifo. Prima di scendere un po’ più nel dettaglio delle

tecniche costruttive, mi sembra opportuno rimarcare alcuni elementi di riflessione generale in merito a quelle che dovevano essere le caratteristiche di queste imbarcazioni.

Se andiamo a considerare, infatti, il peso dei carichi lapidei trasportati, e dunque il dislocamento delle varie navi indagate, ci rendiamo conto di trovarci di fronte a grandezze non esagerate rispetto ai relitti delle più comuni onerariae: la maggioranza delle

naves lapidariae conosciute presenta carichi compresi tra le 90 e le

160 tonnellate di peso, ed anche le navi con portate superiori, come Mahdia o Isola delle Correnti, attestandosi intorno alle 300

tonnellate non superano comunque il peso dei carichi di grandi onerarie come la nave di Albenga o quella della Madrague de Giens. Il fattore dirimente riguardo ad eventuali accorgimenti tecnici adottati per le lapidariae non è connesso pertanto ad una mera questione di peso, bensì alla distribuzione del peso stesso per unità di volume in relazione all’alto peso specifico dei materiali litici. Se comparato ad un carico di anfore di pari peso, uno di materiali lapidei presenterà, ovviamente, notevoli differenze: anzitutto la pressione per centimetro quadrato esercitata sulle strutture dello scafo sarà enormemente maggiore; il volume del materiale trasportato sarà al contrario inferiore e molto meno

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omogeneamente distribuibile nella stiva date le grandi dimensioni e la rigidità degli elementi del carico. La grande pressione esercitata solo su alcune porzioni dello scafo, probabilmente quelle del fondo, come arguibile dai casi di Mahdia ed Isola delle Correnti (v. supra), doveva comportare problematiche relative alla robustezza delle strutture ed all’equilibrio dell’imbarcazione.

A tale proposito mi preme sottolineare che per

un’imbarcazione la capacità di conservare l’equilibrio, sia statico che dinamico, costituisce una caratteristica fondamentale,

consistente banalmente nella facoltà di non rovesciarsi in seguito al carico di un peso o a causa del rollio. Il mantenimento di questa necessaria condizione alla navigabilità è garantito dal contenimento delle oscillazioni dello scafo all’interno di un angolo massimo di sicurezza ed è il frutto dell’azione delle varie forze contrastanti che agiscono sullo scafo stesso. Per il principio di Archimede sappiamo che un natante in acqua riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso di liquido spostato; questa spinta ha un punto di

applicazione detto centro di carena, normalmente rappresentato sulla sezione maestra. Altri due punti necessari al calcolo

dell’angolo di rollio sono il metacentro, cioè il punto attorno al quale la nave oscilla, ed il baricentro, ovvero il centro di massa dello scafo ove si applica la forza peso. Considerando lo scafo come un pendolo in relazione al metacentro, se la nave è ferma la forza di spinta e la forza peso si equilibrano sulla stessa verticale, ma

quando le verticali delle due forze si spostano in relazione ad un’oscillazione si genera un momento. Al fine di evitare

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Il “relitto della colonna” di Lerici

Il contesto di ritrovamento – La Baia della Caletta –

Lungo il tratto di costa che corre tra il Tellaro ed il borgo di Lerici (SP) snodandosi in una serie di piccole insenature sorge,

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racchiusa e protetta dalla Punta di Maralunga a Nord e la Punta di Maramozza a Sud, la Baia della Caletta. Collocata in posizione assai pittoresca, riparata da alte pareti di roccia scoscese, la Baia si estende, nel suo tratto più interno, per un’ampiezza massima che sfiora i 200 m., e si insinua verso l’interno della costa per circa 500 m. La peculiare conformazione morfologica della cala la rende piuttosto rischiosa per la navigazione in giorni di vento forte di Libeccio, quando i marosi si infrangono con violenza sulle rocce a strapiombo e una pericolosa corrente, deviata dallo spartiacque naturale costituito dalla piccola penisola di Punta Maralunga, irrompe verso l’interno dell’insenatura sospingendovi i natanti.

Qui, su un basso fondale sabbioso, circa 50 m. ad Ovest della costa e 10 m. a Nord di un imponente scoglio affiorante che

caratterizza il settore più meridionale della baia, giacciono i resti di quella che dovette essere una navis lapidaria di prima età imperiale naufragata con il suo carico, composto essenzialmente dai rocchi semilavorati di una colonna di marmo lunense.

Le campagne di scavo

Prima campagna: Luglio 1990

La prima segnalazione ufficiale della presenza di massicci blocchi di marmo sul fondo della Baia della Caletta risale al 1987,

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quando l’Associazione per la Pubblica Assistenza di Lerici ne notificò l’esistenza alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Regione Liguria. Tale ritrovamento destò immediato interesse - dato che avrebbe rappresentato quello che, ancora allo stato

attuale, sarebbe l’unico rinvenimento di un carico lapideo di età romana in acque liguri – e spinse la Soprintendenza stessa ad accertare l’effettiva natura delle evidenze messe in luce. Dopo una serie di tentativi falliti a causa delle avverse condizioni marine, nel Febbraio del ’90 una campagna di rilievo televisivo realizzata con l’ausilio di una telecamera subacquea filoguidata, permise il riconoscimento di tre grossi corpi marmorei cilindrici

semisprofondati nel fango del fondale, oltre ad un blocco lapideo circolare di minori dimensioni.

Avuta pertanto conferma dell’attendibilità della notizia, si provvide ad informare il Servizio Tecnico del Ministero dei Beni Culturali che, dopo un’ulteriore sopralluogo, assegnò un primo finanziamento per una più approfondita indagine conoscitiva del sito. La prima campagna di scavo fu attivata dalla Soprintendenza nel Luglio del ’90 e godette della preziosa collaborazione, sotto la direzione scientifica del Dott. Gian Piero Martino, del Nucleo Carabinieri subacquei di Genova Voltri e del circolo subacqueo di Nervi “Duilio Marcante”. A supporto delle operazioni fu messo a disposizione il rimorchiatore “Tagis”, utilizzato altresì nel corso dei successivi interventi di indagine fino al 1993. L’intervento, che prevedeva appena cinque giornate di lavoro, aveva come scopo principale quello di effettuare un rilievo accurato dei blocchi individuati, oltre ad accertare la presenza di ulteriori elementi indicativi della presenza dell’eventuale relitto connesso al carico lapideo.

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Sin dalle prime immersioni fu possibile identificare e documentare i tre imponenti elementi marmorei di forma

lievemente tronco-conica, subito interpretati come probabili rocchi di colonna. L’area di interesse fu racchiusa entro un quadrato di 15 m. di lato, delimitato da capisaldi (A, B, C, D) ai quattro angoli ed ulteriormente suddiviso mediante reticolo in settori, anch’essi quadrati, di 2 m. di lato. I blocchi si presentavano adagiati secondo un orientamento grossomodo Ovest-Est, su fondo sabbioso, ad una profondità variabile tra i 7 e gli 8 m. Osservando la pianta del sito in figura (alla cui numerazione in legenda farò riferimento d’ora innanzi per indicare i tre rocchi) appare evidente come i manufatti n. 1 e 2 giacessero in posizione sostanzialmente allineata, ad una distanza di meno di 2 m. l’uno dall’altro; il blocco n. 3, invece, si trovava a ben 4,80 m. a Sud del n. 2, ponendo sin dalle prime battute legittimi interrogativi sulle dinamiche di affondamento conseguenti al supposto naufragio. I reperti n. 2 e 3, inoltre, mostravano un orientamento pressoché identico, a differenza del blocco n. 1, maggiormente ruotato verso Sud.

Come si può rilevare dalla pianta in fig., la disposizione dei tre rocchi in relazione al Nord geografico lungo i rispettivi assi longitudinali ( x ) e trasversali ( y ) è mostrata nella tabella riportata di seguito (tabella 1).

Asse x(deg.) Asse y (deg.)

BLOCCO n. 1 300° N/O 30° N/E

BLOCCO n. 2 275° O 5° N

BLOCCO n. 3 283° O 13° N

Tab. 1

Ai tecnici e agli archeologi di questa prima campagna di scavo i manufatti apparivano abbondantemente ricoperti di

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concrezioni e flora marina, nonché sprofondati nella sabbia del fondale per più di un terzo del loro diametro; fu tuttavia possibile apprezzare le loro imponenti dimensioni.46

Oltre ai rocchi di marmo fu indagato anche un ulteriore

elemento litico, posto al di fuori del quadrato delimitante l’area dei tre blocchi, 9,20 m. ad Est del blocco n. 1; tale elemento risultò corrispondere ad un grosso ciottolo semilavorato in arenaria, di forma approssimativamente ellittica. Il reperto, segnalato in pianta con il numero 4, emergeva di pochi centimetri dal fondale e misura circa 78 cm. di diametro per 38 cm. di altezza.47 Ad una

ricognizione superficiale dell’area, nessun altro elemento

potenzialmente inerente al carico marmoreo poté essere riscontrato, eccezion fatta per una decina di frammenti fittili assai fluitati e rinvenuti in disposizione casuale nella zona compresa dall’indagine. Si procedette pertanto, in seguito al completamento della

documentazione grafica e video dell’area, ad effettuare un approfondimento nei settori corrispondenti allo stretto corridoio passante tra i blocchi n. 1 e 2 (settori 5 e 12), nonché lungo il perimetro del rocchio n. 2. Superati i primi strati, caratterizzati da sporadico e frammentario materiale ceramico antico frammisto ad oggetti moderni, la sorbona ad aria impiegata per lo scavo cominciò a restituire reperti indubbiamente ascrivibili alla presenza di un relitto antico: chiodi in rame di varie forme e dimensioni, esigui frammenti di legno, gran quantità di lacerti di lamine plumbee, notoriamente utilizzate fino a tutto il I secolo d.C. per il

rivestimento degli scafi;48 assai scarni, sfortunatamente, i

rinvenimenti ceramici, attestati in soli tre esemplari, tuttavia

46 Per un esame dettagliato dei rocchi, v. infra,

pp.14-47 Tale oggetto, indagato durante la campagna di scavo del 1994 e recuperato nel corso di quella del 1997 (v. infra, pp.

9-12), è attualmente conservato a Genova, presso i magazzini della Soprintendenza Archeologica della Liguria.

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riferibili a tipologie di grandi fittili prodotti durante la prima età imperiale.49

Lo scavo procedette fino a raggiungere, lungo il perimetro del blocco n. 2, l’argilloso strato di appoggio del manufatto, dove, oltre ad uno dei frammenti ceramici citati, segnatamente una

porzione di spalla di anfora Dressel 2/4 (LBC 98 da inventario), fu altresì portato alla luce un peculiare esemplare di grappa “a doppia coda di rondine” in rame (LBC 87 da inventario). Il nominato strato di appoggio risultò inoltre essere caratterizzato dalla presenza di alcuni ciottoli di pietra, di colore grigio-verde.

Seconda campagna: Settembre 1991

Nel Settembre del 1991 il sito fu interessato da un secondo intervento volto innanzitutto ad asportare uno dei blocchi giacenti sul fondale, con lo scopo essenziale di poter analizzare con

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attenzione il marmo di cui i manufatti sono composti e con l’intento di indagare in profondità l’area occupata dal blocco stesso, onde ricavare ulteriori elementi di conoscenza in merito al relitto. Anche in questa occasione la durata dei lavori fu piuttosto breve,

considerando che tutte le operazioni descritte furono portate a termine in soli sette giorni di cantiere.

Dopo aver sistemato e rimesso in bolla i capisaldi lasciati in

situ alla fine della precedente campagna di scavo, si procedette

anzitutto a posizionare un nuovo reticolo di 8x8 m., suddiviso in settori di 2 m. di lato, ancora una volta corrispondenti all’area adiacente al blocco n. 2; gli sforzi dell’équipe di scavo erano pertanto nuovamente incentrati sui settori da 5 a 12, in tale occasione indagati più estensivamente e non solo nella fascia perimetrale del rocchio n. 2. Rimessa dunque in azione la sorbona, si poté proseguire con lo scavo e scendere ancora di quota rispetto agli strati messi in luce l’anno precedente, fino a raggiungere il giallo strato argilloso, ricco di ciottoli grigio-verdi, su cui poggiava il blocco n. 2, che fu completamente liberato dai detriti in cui era rimasto immerso per secoli.

L’intervento permise di riportare alla luce numerosi chiodi in rame di varie dimensioni, lamine plumbee, cinque perni in bronzo a cavallo tra i settori 7 e 10 (LBC 117, 118, 146, 147, 172 da

catalogo), scarni frammenti lignei, blocchetti di marmo, vari ciottoli in pietra grigio-verdi, una discreta quantità di frammenti ceramici ascrivibili a grandi fittili, ma privi di elementi tipologici

significativi; a ciò si aggiunse il ritrovamento di un lingotto di piombo in parte fuso ad una delle estremità (LBC 148 da catalogo) ed una seconda grappa “a doppia coda di rondine” (LBC 150 da catalogo), sempre al confine tra i settori 7 e 10.

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A questo punto, una volta eseguite le attività di

documentazione grafica, fotografica e video, fu possibile dare avvio alle operazioni di recupero del blocco n. 2, scelto per ragioni che appaiono piuttosto ovvie dato che tutta l’area circostante tale manufatto era ormai stata completamente scavata. Gli evidenti problemi conseguenti le imponenti dimensioni ed il notevole peso dell’oggetto, stimato attorno alle 40 tonnellate, furono

brillantemente superati grazie alla collaborazione del Dipartimento Marittimo di La Spezia e del GRUPNUL (Gruppo Navi Uso

Locale) della Marina Militare, che misero a disposizione un pontone con gru di portata adeguata; l’enorme blocco fu dunque strappato al mare per essere in seguito trasportato presso il Museo Archeologico di Luni, dove è tuttora conservato.

L’area precedentemente occupata dal manufatto n. 2 era così finalmente libera e poté essere indagata, dopo la stesura di un reticolo di 4 quadrati di 2 m. di lato (settori 6, 7, 10, 11);

l’approfondimento nel piccolo saggio di scavo restituì altri chiodi in rame, nuovi frammenti di lamina plumbea, cinque lacerti ceramici, alcuni frammenti lignei, uno dei quali di discrete dimensioni; tale frammento ligneo non venne tuttavia recuperato, ma lasciato in situ per essere analizzato con maggior cura in un’altra occasione.

Terza campagna: Novembre 1992

Proprio con lo scopo di approfondire l’analisi del reperto ligneo segnalato alla fine della precedente campagna – oltre che con l’intento di allargare eventualmente lo scavo con un saggio

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nell’area del blocco n. 3 – fu approntata, nell’inverno del 1992, una breve campagna di intervento che vide la collaborazione degli stagisti del corso di “Assistente tecnico archeologico subacqueo” organizzato dall’ENFAP in collaborazione con il Ministero per i Beni Culturali e la Regione Liguria.

Sfortunatamente, le avverse condizioni meteo-marine che imperversarono sulla Baia della Caletta per quasi tutto il periodo preventivato in sede di organizzazione dello scavo, non permisero l’attuazione del piano di lavoro prestabilito. Fu esclusivamente possibile accertare la non pertinenza del summenzionato frammento ligneo al relitto.

Quarta campagna: Agosto 1993

Con l’estate successiva e le propizie condizioni del mare legate alla bella stagione, si procedette ad un ulteriore intervento, mirato questa volta a sondare la zona compresa tra i blocchi n. 1 e

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3, corrispondenti nello specifico ai settori 13, 14, 19, 20. La

speranza del team di scavo era quella di poter riscontrare, anche in questa area, la presenza di evidenze archeologiche pertinenti allo strato di argilla gialla, con inclusi ciottoli grigio-verdi, costituente il livello di piano d’appoggio del rocchio n. 2. Procedendo con

sorbona e narghilè, dopo aver atteso alle preliminari operazioni di disposizione e messa in bolla del reticolo, gli archeologi, insieme ai loro collaboratori appartenenti all’Arma dei Carabinieri ed al corpo dei Vigili del Fuoco, incontrarono in prima istanza alcuni strati caratterizzati dalla presenza di pochi chiodi in rame e lacerti ceramici frammisti a materiale moderno.

Nel giro di pochi giorni, tuttavia, lo strato argilloso di colore giallo venne alla luce, restituendo un chiodo, frammenti di lamina plumbea ed alcuni significativi reperti ceramici: una porzione di ansa pseudo-bifida (settore 13) e vari frammenti di parete d’anfora. Svariate zone della superficie dello strato evidenziato recavano diffuse lenti di colore rosso, probabile testimonianza della

ossidazione e dissoluzione di manufatti in ferro. Un ristretto saggio in profondità mostrò che lo strato di argilla gialla, spesso poco più di 15 cm, copriva un ulteriore strato argilloso, di colore grigio, archeologicamente sterile.

Quinta campagna: Ottobre 1994

Durante la campagna del 1994, condotta grazie al supporto del rimorchiatore “Eterno”, l'attenzione della Soprintendenza si concentrò essenzialmente sull'indagine del reperto litico n. 4

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(settore 99), fino a quel momento escluso dai precedenti interventi di scavo. Non servì molto tempo per liberare completamente

l'oggetto (denominato sino ad allora tanto provvisoriamente quanto impropriamente “capitello”) dalla sabbia del fondale, arrivando a mettere in luce, scendendo in quota di appena 20 cm., lo strato argilloso di colore giallo che abbiamo ormai più volte rilevato costituire il livello di piano di appoggio dei manufatti del carico naufragato. Il cosiddetto capitello risultò così essere un massiccio blocco di arenaria (diam. 78 cm. ca., h. 38 cm.), grossolanamente sbozzato in forma quasi cilindrica.

Lo strato su cui il manufatto era adagiato si mostrò subito, anche in questa occasione, piuttosto ricco di materiale metallico (chiodi di varie dimensioni, frammenti di lamina plumbea) ma alquanto avaro di reperti ceramici, presenti peraltro in esemplari estremamente frammentari, sebbene indicativamente ascrivibili a forme anforacee. Prima di essere prelevati, i reperti vennero

fotografati, posizionati in pianta ed orientati in relazione all'angolo nord-est del blocco n.1 e di un corpo morto in cemento pochi dm. a nord-est del reperto litico n. 4. Data la discreta quantità di evidenze si ritenne opportuno approntare un reticolo rigido di quattro

quadrati di due metri di lato, corrispondenti ai settori 94, 95, 98 e 99. Le successive operazioni di scavo, condotte in collaborazione con alcuni esponenti del corpo sommozzatori dei Vigili del Fuoco,

si concentrarono essenzialmente sui settori 98 e 99, e

permisero il rinvenimento di ulteriori cospicui frammenti di lamina plumbea nonché di chiodi di notevoli dimensioni restituiti dal

settore 99 ( LBC??). Dal settore 98, sempre poggianti sullo strato di argilla gialla, emersero oltre frammenti di piombo e ad alcuni chiodi.

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Una volta terminato lo scavo dei quadrati 98 e 99, si pianificò il sollevamento e successivo spostamento al di fuori del reticolo del blocco n.4, onde indagare l'area da esso occupata: l'operazione, piuttosto delicata, fu portata a termine grazie all'utilizzo di un pallone della portata di una tonnellata, gonfiato tramite la manichetta della sorbona. L'analisi della zona lasciata libera in seguito all'asportazione del manufatto in arenaria presentava caratteristiche in totale accordo con i contesti in precedenza indagati: blocchetti di pietra grigio-verde, alcuni chiodi, esigui frammenti lignei, porzioni di lamina di piombo.

Sesta campagna: Luglio 1997

L'ultima campagna di intervento sul sito del relitto della Baia della Caletta vide focalizzarsi l'attenzione degli archeologi della Soprintendenza sull'area occupata dal blocco n. 3 e sui settori immediatamente a nord di esso (i settori 15, 16, 17, 18). Purtroppo la situazione stratigrafica si presentava piuttosto problematica, dato che tutta la zona mostrava la presenza di un massiccio fenomeno di insabbiamento sovvenuto negli anni successivi alla campagna di

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scavo precedente; insabbiamento dovuto, con buona probabilità, alle violente alluvioni susseguitesi in quegli anni. Se durante i primi interventi, infatti, lo strato argilloso con inclusi ciottoli grigio-verdi, interpretato come piano deposizionale del relitto, si trovava circa 80 cm. al di sotto della quota del fondale moderno, nel 1997 fu

necessario sorbonare strati di sabbia, tutti di recente formazione, per uno spessore di oltre un metro e mezzo prima di raggiungerlo. Tali strati restituirono alcuni frammenti ceramici, tra cui una porzione di orlo e collo d’anfora con impostazione dell’attacco di un’ansa

bifida (settore 15, LER 196).

Tanta fatica, peraltro, non poté essere appagata dal

rinvenimento di reperti archeologicamente rilevanti: lo strato di argilla gialla nei settori indagati, infatti, non restituì la benché minima testimonianza della presenza del relitto. Tale circostanza fece supporre che il rocchio n. 3, pur rispondendo probabilmente ad una fase di deposizione in sincronia con gli altri reperti, per

dinamiche legate al naufragio dovette rotolare lungo la depressione del fondale per andarsi ad adagiare nella sua attuale posizione. Va rimarcato, inoltre, che nel corso degli scavi ci si avvalse della consulenza del sig. “Giovannino”, grande conoscitore dei fondali della zona e preziosa fonte orale: egli ricordava con precisione, tra l'altro, la presenza in passato di un quarto blocco marmoreo, lungo circa la metà del rocchio n. 3 e collocato qualche metro più ad est di quest' ultimo. Una chiara testimonianza, pertanto, di recenti atti di spoliazione del relitto, resi senza dubbio piuttosto semplici dalla bassa profondità del sito.

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CATALOGO DEI REPERTI

La presente sezione costituisce un catalogo completo dei reperti provenienti dalle varie campagne di scavo nonché dalle ricognizioni effettuate sul sito della Baia della Caletta tra il 1990 e il 1997. Tutto il materiale di seguito indicato, ad eccezione dei rocchi di marmo, è attualmente conservato a Genova, nei magazzini della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria. Terrei a

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sottolineare che, come arguibile dalla sezione dedicata alla cronistoria delle campagne di scavo, il sito è stato indagato

esclusivamente per saggi effettuati in poche delimitate aree ritenute significative. In assenza di uno scavo completo del relitto, le analisi e le considerazioni di seguito effettuate dovranno essere

necessariamente considerate ad uno stadio ancora preliminare e non esaustivo delle problematiche inerenti il giacimento.

Ho proceduto alla compilazione del catalogo cominciando dal carico, suddividendo i manufatti in base alla loro composizione materiale ad iniziare dai blocchi di marmo e dal restante materiale litico; seguono il catalogo dei reperti ceramici e di quelli metallici, ed infine un breve accenno agli scarsissimi materiali lignei.

Ciascuna categoria di oggetti e, laddove possibile, alcuni singoli reperti, sono corredati da una breve trattazione volta a meglio inquadrarli , sulla base di confronti con analoghi contesti, sotto il profilo cronologico e funzionale. La completa documentazione grafica e fotografica dei rinvenimenti è contenuta nelle tavole in appendice al testo; tuttavia, al fine di fornire una più agevole comprensione in fase di lettura, ho preferito inserire, laddove necessario, alcune immagini esemplificative internamente al testo.

IL CARICO

I blocchi di marmo – reperti n. 1, 2, 3 -

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Come facilmente riscontrabile dall'osservazione della pianta, le rispettive posizioni occupate dai blocchi rispetto al reticolo impostato sull'area di scavo sono le seguenti:

blocco n. 1: settori 5, 12, 48, 49, 50, 55, 56 blocco n. 2: settori , 6, 7, 8, 9, 10, 11

blocco n. 3: settori 22, 23, 24, 26

Aspetto generale

Le superfici esposte dei tre rocchi si presentano pesantemente compromesse da attività post-deposizionali subite in ambiente sottomarino. Più che le colonie vegetali, che pure condizionano negativamente le possibilità di analisi autoptica dei reperti, sono l'azione idrodinamica e soprattutto l'attacco condotto alla pietra dai cosiddetti datteri di mare a rendere pressoché illeggibili, ad

eccezione di alcune limitate porzioni, le superfici dei manufatti. Tali molluschi (Litophaga litophaga) giungono infatti a scavare cunicoli lunghi diversi centimetri nella roccia, ma il danno

maggiore ad essi correlato è causato dalla pesca di questi animali, vietata ormai dal 1998, conducibile esclusivamente mediante la rottura della pietra in cui il mollusco trova riparo.50

Nonostante le menzionate attività di disturbo subite, i blocchi marmorei della Baia della Caletta non hanno tuttavia perso le

caratteristiche forme leggermente tronco-coniche che permettono di interpretarli come rocchi di colonna. Le rispettive dimensioni dei

50 A testimonianza di ciò vari blocchetti di marmo di recente asportazione sono stati rinvenuti nel corso degli scavi (v.

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manufatti, in marmo di Carrara51, sono illustrate nella tabella

seguente (tabella 2).

BLOCCO n. 1 BLOCCO n. 2 BLOCCO n. 3

Lunghezza (cm.) 380 495 260

Diam. Max. (cm.) 210 195 185

Diam. min. (cm.) 198 190 178

Tab. 2

Considerato che il peso specifico ( γ ) del marmo di Carrara corrisponde a circa 2725 Kg/m³, calcolati i volumi ( V ) dei singoli blocchi è possibile valutare il peso ( P ) di ciascun manufatto

secondo la formula

P = V x γ

I pesi ed i volumi rispettivi risultano pertanto in tabella 3.

BLOCCHI VOLUME (m³) PESO (Kg)

n. 1 12,256 33.398

n. 2 14,209 38.720

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n. 3 6,638 18.088

Tab. 3

Sembra piuttosto verosimile che, date le loro forme e

dimensioni, i tre rocchi in esame potessero andare a costituire, una volta posti in opera, un'unica colonna di 11,35 m. di altezza ( v. fig. ): si può infatti notare come il diametro minimo del blocco n. 1 e il diametro massimo del blocco n. 2 da un lato, ed il diametro minimo del blocco n. 2 e il diametro massimo del blocco n. 3 dall'altro, presentino misure pressoché identiche, con uno scarto pari a soli 3 e 5 cm. Scarto facilmente azzerabile in un'eventuale fase di rifinitura dei manufatti, considerato che ci troviamo di fronte a materiale semilavorato. Parrebbe dunque plausibile concludere che, oltre alla sbozzatura del marmo, i lapidarii lunensi si siano anche preoccupati di impostare già, in nuce, la rastremazione della colonna in questione.

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Volendo dare adito a questa ipotesi, può essere interessante confrontare le proporzioni tra le dimensioni della nostra colonna con quelle indicate dai canoni vitruviani. Nel De Architectura (III, 3-5) Vitruvio raccomanda, per colonne di altezza compresa tra i trenta e i quaranta piedi (dunque all'incirca tra i 9 e i 12 m.), di calcolare il diametro superiore dell'oggetto dividendo il diametro massimo della base per 7,5 e poi moltiplicandolo per 6,5.

Applicando tale formula ai dati della colonna di Lerici otterremo, nel diametro superiore, uno scarto di soli 4 cm. in meno rispetto alla proporzione suggerita da Vitruvio, come è possibile verificare con un semplice calcolo:

[210 cm. (diam. Max.) x 7,5] : 6,5 = 182 cm. (diam. min.) mentre, come abbiamo avuto modo di osservare, il diametro minore effettivo della colonna è di 178 cm. Considerato che mi sembra accettabile concedere un piccolo margine d'errore ai nostri cavatori, e soprattutto tenuta in conto ancora una volta la

condizione di parziale lavorazione dei manufatti, penso non sia azzardato congetturare che i tre blocchi in esame possano essere stati concepiti in relazione alle norme architettoniche vitruviane.

Caratteristiche petrografiche

52

Una serie di analisi condotte dall' Ing. Orlando Pandolfi su alcuni campioni estratti dai tre blocchi, hanno permesso di

52 Per la stesura del presente paragrafo ho fatto ampio riferimento agli studi effettuati in sede della propria tesi di laurea

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determinare con rigore scientifico la provenienza e le caratteristiche chimico-fisiche dei marmi della Baia della Caletta. Per le sue

proprietà organolettiche la pietra in esame risulta essere senza dubbio marmo lunense, generalmente definito come “ marmo bianco a grana fine compatta, con un'alta percentuale di purezza e cristallinità che conferiscono alla pietra la sua tipica

luminescenza”53 Tale definizione è riferita per lo più al cosiddetto

“statuario”, il più pregiato dei marmi lunensi, così denominato sin dall'antichità proprio per le sue caratteristiche particolarmente ricercate nella produzione di statue.54 Esistono nondimeno svariate

qualità di marmo lunense, identificate dal Dolci in ventotto tipi litologici appartenenti a sette classi distinte,55 tra cui il “bianco

ordinario”, il “bardiglio”, il “cipollino”.

Il marmo della colonna di Lerici deriva verosimilmente dal bacino n. 2 di Torano (sebbene l'esatta provenienza potrebbe essere dimostrata solo in seguito ad ulteriori indagini petrografiche, a carattere distruttivo), ed è di tipo bianco ordinario. Le qualità

litologiche principali consistono in una grana medio-grossa e colore bianco perlaceo attraversato da rameggiature grigie, dovute ad infinitesime quantità di pirite microcristallina; l'età geologica risale al Lias inferiore. Ulteriori caratteristiche sono illustrate nelle tabelle n. 4, 5 e 6, di seguito riportate.

53 BORGHINI, 1989, P. 45. 54 Cfr. Strabone, V-2,5. 55 DOLCI 1989, P. 28.

Figura

Foto                            Disegno DESCRIZIONE

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