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delle strutture: cenni teorici

3.9 Model updating

4.2.1 Il restauro di Avena

Nel 1923 Antonio Avena, allora direttore dei musei della città di Verona, persuase il Comune ad esporre la collezione civica d’arte a Castelvecchio, a quell’epoca quasi completamente in rovina. I notevoli lavori di conversione furono completati nel 1926 ma, a differenza delle alterazioni subite da Castelvecchio in epoca precedente, che sebbene complesse erano state di carattere utilitario in quanto rispondevano a cambiamenti di strategie militari, questi nuovi lavori erano invece guidati da un’idea di restauro, nell’accezione che il termine aveva in quel periodo. Avena e il suo architetto, Forlati, si apprestarono a creare l’illusione di un palazzo storico, una serie di ricchi interni di abitazione modellati sugli stili del XVI e XVII secolo, in cui sarebbe stata allestita la collezione di dipinti e sculture. In entrambi i piani, i muri e i soffitti vennero decorati e le feritoie sul fiume murate e nascoste dalla costruzione di falsi camini nella parete nord di ogni sala. Nella Reggia le pareti vennero decorate con affreschi che riprendevano quelli scaligeri e quest’intervento venne esteso ai soffitti. All’esterno si restaurarono le merlature e le torri.

Figura 28 - Sala della Botola, le pareti sono decorate con motivo a tappezzeria tipico delle dimore medioevali.

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Figura 30 - Sala dedicata a Ugo Vassallini, eroe veronese della prima guerra mondiale.

Figura 31 - Sala dedicata ad Alessandro Bolognese Trevenzuoli, eroe di guerra.

Malgrado questo, l’alterazione più radicale, quella che trent’anni dopo avrebbe lasciato Scarpa e Magagnato più perplessi, fu il rifacimento della facciata sul cortile della caserma napoleonica. Tutte le porte e le finestre esistenti, con la sola eccezione di alcune finestrine quadrate, vennero rimosse e si costruì una nuova facciata che incorporava delle finestre gotiche, recuperate da edifici demoliti in seguito allo straripamento dell’Adige del 1882. Per le aperture tra le sale al primo piano dell’ala settentrionale si utilizzarono due portali. Sia la facciata nord che quella est furono progettate simmetricamente e una loggia a tre archi venne collocata al centro della facciata nord, divenendo l’entrata principale. Il cortile maggiore, usato fino ad allora per le parate militari, venne trasformato in un giardino all’italiana diviso approssimativamente in quadranti lungo l’asse di un vialetto che collegava la torre d’ingresso principale e l’entrata nella loggia.

Figura 32 - Facciata sul cortile della caserma napoleonica prima del restauro di Avena.

Figura 33 - Demolizioni durante il cantiere di restauro di Castelvecchio del 1924 - 26.

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Figura 34 - La facciata della caserma francese al termine dei lavori di restauro.

L’itinerario progettato da Avena e Forlati iniziava dalla torre e percorreva l’intero complesso a “L” della caserma al pianterreno e al primo piano, collegati da tre scale. Sembra inoltre che ci fossero altri tre ingressi oltre a quello principale. All’estremità occidentale dell’ala napoleonica una piccola scala attraversava il muro comunale collegando la caserma napoleonica alla Reggia, il cui primo e secondo piano entrarono a far parte del museo mentre il pianterreno venne riservato, come ancor’oggi, ai militari.

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Figura 35 - Immagine dello scalone che valicava l’antico muro comunale realizzato nell’intervento di Avena.

Avena demolì il passaggio tra la Torre del Mastio e la Reggia e lo sostituì a livello del secondo piano con una passerella coperta, che divenne l’unico collegamento con l’area della Reggia. Infine il piano superiore dell’ala orientale venne trasformato in sala da concerto (la sala Boggian) a cui si accedeva dall’entrata di fronte all’Arco dei Gavi.

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Figura 37 - Pianta e itinerario di visita del museo di Avena del 1926: 1- Corso Castelvecchio; 2- Vallo esterno; 3- Piazzetta Arco dei Gavi; 4- fiume adige; 5- ponte scaligero; 6- Reggia, pianoterra; 7- strada di accesso al ponte scaligero; 8- Torre dell’orologio; 9- entrata sud-ovest; 10- scala napoleonica; 11- torre dell’ingresso principale; 12- muro comunale; 13- fontane; 14-entrata secondaria; 15- entrata al museo; 16-torre di nord-est; 17- cortile della Reggia; 18- torre del Mastio; 19- primo piano della Reggia; 20- secondo piano della Reggia; 21- vetrata; 22- camminamenti; 23- Galleria superiore; 24- sala della musica, poi sala Boggian.

113 4.2.1 Il restauro di Scarpa

Nel 1956 Licisco Magagnato venne nominato direttore dei Musei Civici d’Arte di Verona. A seguito della scoperta della Porta del Morbio avvenuta nel gennaio del 1958, si decise di spostare a Castelvecchio l’allestimento della mostra “Da Altichiero a Pisanello”, inizialmente previsto nel palazzo della Gran Guardia. Infatti l’ala occidentale della Reggia risale al periodo scaligero nelle sue strutture murarie e conserva ampi brani di affreschi coevi e un ambiente che ha interamente mantenuto le decorazioni trecentesche. Magagnato ha ben chiaro che Castelvecchio, dopo gli interventi in stile curati negli anni venti del Novecento da Avena e Forlati, necessita di un radicale restauro e di un riallestimento generale da affidare a uno specialista, anche se in un primo tempo egli probabilmente non pensa di coniugare l’allestimento della mostra con la sistemazione permanente della collezione. Come in moti altri casi, la maggiore accessibilità dei finanziamenti reperibili per un’esposizione temporanea e l’impellenza della sua realizzazione vengono “sfruttati” per imprimere velocità e concretezza al più ampio e definitivo progetto di recupero. In una relazione del 1956, Magagnato propone al sindaco Giorgio Zanotto il nome di Carlo Scarpa, che aveva al suo attivo gli allestimenti di alcuni tra i più prestigiosi musei italiani: alcune sale delle Gallerie degli Uffizi a Firenze (1953 - 1956), le Gallerie dell’Accademia di Venezia (1945 - 1959), la Galleria Nazionale di Palazzo Abatellis a Palermo (1953 - 1954), gli allestimenti delle Biennali e alcune tra le più importanti mostre veneziane (da quella di Giovanni Bellini nel 1948 a quella dell’Arte antica cinese nel 1954).

Nel dicembre del 1957 iniziarono le indagini e gli scavi archeologici volti a meglio comprendere le parti originali del monumento. Essi condurranno alla scoperta della Porta del Morbio che, per la sua importanza nella storia urbana veronese, diviene il fulcro del progetto di restauro. La sua posizione consente di collegare in modo rapido e diretto il pianoterra della Galleria all’ala della Reggia dove era stato deciso di allestire la mostra, garantendo la necessaria fluidità al percorso museale. Il restauro dell’ala della Reggia e di due piani del Mastio rappresenta la realizzazione della tranche iniziale di un progetto ben più complesso, che l’allestimento della mostra consente di rendere concreto con tempi brevi e con finanziamenti immediati.

Quando l’incarico iniziale per la reggia venne esteso al restauro dell’intero Castelvecchio, Scarpa si trovò ad affrontare un compito ben più complesso, sia in termini di progettazione museale vera e propria che per quanto riguarda la valutazione delle diverse fasi della storia del castello. Una volta rimosse le false decorazioni e la scala in stile, la reggia era stata riportata a una condizione assai

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simile a quella in cui era stata lasciata nel XIV secolo dai suoi costruttori: un’unica omogenea struttura che sarebbe stato possibile trasformare senza traumi in complesso museale.

Dall’altra parte del muro comunale invece erano rappresentati almeno quattro distinti e successivi periodi di costruzione: il muro comunale (XII e XIII secolo), la fortezza scaligera (metà del XIV secolo), le aggiunte napoleoniche dell’Ottocento e infine il restauro di Avena degli anni venti, ciascuna di queste fasi sovrapposta alla precedente a nasconderla parzialmente. Scarpa cercò, come un archeologo, di mettere a nudo le costruzioni originarie per ricostruire almeno nell’immaginazione la struttura e le funzioni originarie del castello. Ma per far questo si trovò a dover affrontare il dilemma di tutti gli archeologi: per riportare alla luce le opere originarie è spesso necessario distruggere le successive costruzioni su di esse stratificate. Egli non ebbe remore con il restauro di Avena e fu assolutamente radicale nel rimuovere ogni traccia all’interno del museo. All’esterno, per quanto riguardava la facciata sul cortile ricostruita da Avena, la soluzione fu assai meno semplice. Sia Scarpa che Magagnato erano decisi a rivelare la falsa natura della facciata cambiando radicalmente il modo in cui il visitatore l’avrebbe percepita.

“A Castelvecchio tutto era falso. Ho deciso di adottare alcuni valori ascendenti, per rompere la

innaturale simmetria: lo richiedeva il gotico e il gotico, soprattutto quello veneziano, non è molto simmetrico”6 Scarpa disse, riguardo alla facciata, in una conferenza a Madrid nel 1978. Egli doveva trovare un modo per dimostrare che la facciata era un falso e sperimentò una grande varietà di idee: provò a spostare le finestre, ne aggiunse di nuove, pensò a un trattamento astratto della superficie dell’intonaco e concepì un’idea originale per separare con una zona vetrata la parte superiore della facciata dal tetto. Alla fine la sua soluzione lasciò la facciata apparentemente quasi intatta, ma disturbata da alcuni stratagemmi. In primo luogo abbiamo la radicale demolizione dell’ultima campata della galleria; in secondo luogo l’entrata viene spostata dalla campata centrale eliminando così ogni influenza simmetrica sul cortile; il terzo stratagemma è l’inserimento all’interno del museo di una quinta che segue un ritmo indipendente e in contrappunto con il resto della facciata; il quarto sono le modifiche che fanno si che la facciata esistente appaia sottile e quasi evanescente; per ultimo troviamo lo scambio attivo tra l’interno e l’esterno, come nel caso del sacello, del museo e della pavimentazione dell’ingresso e ancora di più nell’emergere della pavimentazione della galleria sulla piastra.

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Figura 38 - Disegni preparatori per lo studio del restauro della facciata della caserma realizzati da Carlo Scarpa.

Con le strutture napoleoniche Scarpa fu più pragmatico e tuttavia no esitò a proporre sostanziali demolizioni al fine di raggiungere determinati scopi. Ancor prima degli scavi che riportarono alla luce la Porta del Morbio aveva proposto la demolizione della campata orientale della galleria in modo da trovare una sistemazione per la nuova entrata e per la statua di Cangrande. Questa proposta di staccare le due ali della caserma fu probabilmente motivata dall’idea di ristabilire i confini teorici del cortile: Scarpa intenzionalmente disegnò su un fotomontaggio il profilo della merlatura del muro lungo il fiume. La divisione delle due ali della caserma poteva essere giustificata da ragioni programmatiche: l’ala settentrionale avrebbe chiaramente costituito il corpo vero e proprio del museo, mentre l’ala orientale avrebbe ospitato la biblioteca, gli uffici, ecc.

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Figura 39 - Prospetto per il supporto a colonne della statua di Cangrande.

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Tuttavia con tutte le demolizioni operate nel castello Scarpa si prefiggeva non soltanto di rivelarne la storia ma anche di spiegarla. La caserma napoleonica era essenzialmente un corpo unico e la sua divisione in de edifici distinti (sebbene collegati a livello del tetto) non avrebbe avuto alcuna giustificazione storica, avrebbe anzi potuto essere interpretata come un segnale volutamente ambiguo, suggerendo che le due ali, in qualche periodo, fossero state due costruzioni separate. Quest’idea, che nella sua prima elaborazione non mancava di difetti, una volta trasferita all’altra estremità dell’ala avrebbe invece soddisfatto perfettamente i diversi scopi storici. La scoperta della Porta del Morbio nel 1958 aveva determinato delle demolizioni interne e il confine tra l’interno e l’esterno aveva già assunto la posizione odierna, pur restando nell’involucro di un edificio completo. Una serie di studi sviluppa l’idea per esporre la statua di Cangrande all’interno dell’edificio. Ma fu la scoperta e lo scavo del vallo nel 1962 che determinò la demolizione più radicale, quella totale dell’ultima campata e quella dello scalone napoleonico ad essa attiguo. L’architetto realizzò il suo scopo di rivelare il muro lungo il fiume, liberando al tempo stesso la curvatura del muro comunale di epoca prescaligera. L’incontro tra il vallo scaligero e la caserma napoleonica è progettato in maniera particolarmente brillante. Scarpa ha realizzato l’apparentemente impossibile sovrapposizione di vuoto e pieno: il vallo non è stato soggetto ad uno scavo completo, così come la caserma non è stata completamente demolita. L’altra sostanziale demolizione operata da Scarpa si trova lungo il fiume sull’altro lato del muro napoleonico. Il muro, visto dalla riva opposta del fiume, sembra essere tutt’uno con il complesso scaligero. L’architetto aveva, in un primo tempo, proposto la demolizione delle merlature ma alla fine optò per un “taglio” asimmetrico a entrambe le estremità. Come per la separazione della caserma napoleonica dal muro comunale, qui il “taglio” ottiene ben di più che il semplice stacco di due costruzioni appartenenti a distinti periodi storici. Lo sviluppo delle idee, visto attraverso la sequenza dei progetti per la biblioteca, mostra come Scarpa cercasse in un primo luogo una fonte di luce per la biblioteca e solo in un secondo tempo arrivasse alla soluzione del problema con la separazione della torre dal muro. Entrambe le soluzioni, qui e nell’area del Cangrande, hanno delle giustificazioni programmatiche molto forti: in un certo senso il genio di Scarpa consiste nel trovare per questi punti nodali delle soluzioni che combinano interessi programmatici, storici e formali in un atto di demolizione creativa. In questo senso trova una fonte di luce dal nord per la sala Avena e la biblioteca, stacca due sezioni del castello separate da cinquecento anni di storia, ristabilisce la torre come elemento isolato e rivela il muro nel suo spessore come elemento indipendente della caserma retrostante. La torre sembra più una torre, il muro è più un muro e al tempo stesso il

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“taglio” lascia intravedere il nuovo mondo del museo che sta oltre: un mondo di piani sottili e di nuovi materiali.

In aggiunta a tutte questa attività, “sottrattive” (di ripulitura, di demolizione, di cavo) oltre che creative, le modifiche di Scarpa furono sempre realizzate usando materiali, tecniche e criteri del nostro tempo. A proposito di Castelvecchio Scarpa scrisse: “Se vi sono delle parti originali, vanno

conservate; qualunque altro intervento deve essere disegnato e pensato in maniera nuova. Non si può affermare: “Io faccio il moderno, metto acciaio e cristalli”; può andare meglio il legno, oppure potrebbe essere più adatta una cosa modesta”. Ma è il modo in cui il nuovo e il vecchio sono

giustapposti che è particolarmente espressivo. Le nuove costruzioni di Scarpa sono inserite nelle vecchie strutture lasciando però, ogni volta che questo è possibile, uno spazio vuoto tra le due. Questi spazi vuoti, si tratti di margini di pavimento della galleria delle sculture o di una striscia di cielo tra la copertura del tetto sopra la statua di Cangrande e il muro comunale, sono il mezzo che congiunge due epoche e che, al tempo stesso, sottolinea ed evidenzia le loro intrinseche differenze. La dolce curva del muro settentrionale del castello, la curva del muro comunale, il profilo irregolare del frammento degli affreschi della reggia, tutti questi elementi sono resi più espliciti ed evidenti quando vengono giustapposti a un nuovo elemento ortogonale. In un certo senso si può dire che questo uso dello spazio non è che una continuazione, nelle sue nuove costruzioni, del metodo che Scarpa utilizzava per separare strutture appartenenti a periodi storici diversi. È una conferma che il nuovo non è che un altro strato discontinuo depositato o inserito in quelli già esistenti.

Il modo di Scarpa di concepire la storia è inseparabile da quello di Morris, vale a dire conservare anziché restaurare. Scarpa preferiva riparare un frammento come tale anziché ricostruirlo nella sua interezza. E credeva appassionatamente nella possibilità di una coesistenza tra il suo metodo di esprimersi e quello dei periodi storici precedenti: la giustapposizione non è mai arbitraria ma è sempre reciprocamente vantaggiosa. Il suo non era lì atteggiamento di un modernista che volta le spalle alla storia, ma quello di chi vuole costruire su e all’interno di questa. Come Morris, voleva essere un continuatore della storia e in un raro momento di introspezione parlò della sua “ …

enorme volontà di essere dentro la tradizione, ma senza fare i capitelli o le colonne, perché non si possono più fare … come si possono affermare certe cose, se non si è educati?” educati come dice

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Figura 41 - Pianta e itinerario di visita del museo di Scarpa del 1958: 1- Corso Castelvecchio; 2- Vallo esterno; 3- Piazzetta Arco dei Gavi; 4- fiume adige; 5- ponte scaligero; 6- Reggia, pianoterra; 7- strada di accesso al ponte scaligero; 8- Torre dell’orologio; 9- nuova passerella sul vallo ed entrata sud-ovest; 10- vallo interno; 11- entrata principale; 12- area S. Martino in Aquaro; 13- parcheggio; 14- siepi parallele; 15- prato del cortile maggiore; 16- entrata per la sala Boggian (non in uso); 17- entrata per la sala Boggian; 18- uffici del museo; 19- ufficio del direttore; 20- centrale termica; 21- entrata; 22- biblioteca; 23- torre di nord-est; 24- galleria delle sculture; 25- sacello; 26- terrazza esterna; 27- spazio di Cangrande; 28- porta del Morbio; 29- cortile della Reggia; 30- scala nel cortile della Reggia; 31- torre del Mastio; 32- passerella; 33- primo piano della Reggia; 34- secondo piano della Reggia; 35- passerella coperta; 36- scale; 37- camminamenti merlati; 38- Galleria superiore; 39- sala Avena; 40- scala d’uscita; 41- Sala Boggian.

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4.3 I lavori a ovest della Porta del Morbio