1. «Chi non lavora, non fa l’amore» cantava
Adriano Celentano, anche se Celso, badando solo alla periodicità degli incontri e non al nesso di casualità col lavoro, così consigliava gli uomini: «In die, perniciosum; in hebdomanda, utile; in mense, necessarium».
In ogni caso il lavoro è necessario per vivere e della vita fa parte anche l’amore.
La crisi epocale che attanaglia l’Europa, soprattutto Meridionale, si spiega con una sola parola: man canza dei dazi per le merci importate dagli inferni lavoristici e ambientali.
Le imprese manifatturiere si sono necessariamente delocalizzate nei Paesi in cui la manodopera costa molto di meno e le regole antinquinamento non esistono o quasi. È un principio economico sorretto da un principio giuridico: se la norma inderogabile lavoristica o ambientale non copre l’intero mercato, la norma non serve.
I Paesi sviluppati si potevano difendere solo con i dazi o con trattati internazionali che avessero vieta to l’importazione delle merci prodotte nei Paesi non rispettosi delle regole minime lavoristiche e ambien tali. Ma questo non è avvenuto e, viceversa, ha trion fato nell’economia globalizzata il libero commercio mondiale sostenuto dal WTO. E così, ad esempio, la Cina, con tre decenni di sviluppo a spron battuto senza regole (come l’Europa del 1800), è divenuta la maggiore potenza economica mondiale, seguendo lo slogan che imperava sin dagli anni ’80 «arricchirsi è glorioso».
La causa della disoccupazione e della mancata cre scita del Pil in Italia è stata questa. Mentre gli altri fattori ostacolanti gli investimenti, la crescita e l’occu pazione hanno solo accompagnato questa barbara invasione (eccessiva pressione fiscale e contributiva per creare uno Stato sociale che non ci potevamo permettere; rigidità delle regole del mercato del lavo ro; ipertrofia normativa; burocrazia inefficiente; tem pi lunghi della giustizia civile; mafia; corruzione ecc.).
2. I due quesiti, come hanno ben detto tutti i contri
buti, erano collegati ed attenevano ad una questione cruciale: se il lavoro manca, si può accrescere me diante la riduzione della retribuzione?
Su questa domanda essenziale i contributi, com’era prevedibile, si sono divisi.
Da una parte ci sono le risposte negative, secondo cui la riduzione della retribuzione non fa aumentare i posti di lavoro ma riduce i consumi, sicché la battaglia contro i Paesi emergenti è persa in parten za, mentre si deve ridurre la pressione fiscale e contributiva (Bianchi d’Urso Armentano, Dondi, FranzaPozzaglia, Imberti, Marimpietri, Menghini, Minervini, Miscione, Nappi, PessiFabozzi, Romeo, Sandulli, Tampieri, Veltri, ZoliRatti, Zoppoli). Dall’altra parte ci sono le risposte positive, che in nanzitutto citano il dictum della Commissione euro pea del 2012 («fissare i salari minimi a livello adeguato [alla produttività] può contribuire ad evi tare l’aumento della povertà lavorativa e a creare nuovi posti di lavoro») e dell’Ocse 2012 («un forte contenimento dei salari migliorerebbe la produttività ed indirettamente il problema occupazionale»), la famosa lettera del 5 agosto 2011 della Bce al Go verno italiano (riforma del sistema di contrattazione collettiva salariale «permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare salari e condizioni di lavoro conformi alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo così questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione»), l’analisi dell’Oil del 2014 su salari e crescita («Wages and equitable growth»), la recente sentenza della Corte di giustizia 18 settembre 2014, C549/13 secondo cui il subap paltatore, stabilito in uno Stato membro, può pagare legittimamente i suoi lavoratori con le regole vigenti in questo stato anche se l’appalto è eseguito in altro Stato membro. Pertanto queste risposte esigono, per accrescere l’occupazione, la riduzione delle retribu zioni in proporzione alla minore produttività del lavoro, onde fronteggiare il dumping sociale dei Paesi emergenti (AngielloMoglia, BattistiBavasso, CassarCaponetti, Fraioli, Ichino, Martire, Pisani, Pizzuti, Sigillò, Tomassetti).
Insomma se gli inferni lavoristici e ambientali non sono stati espulsi dal mercato mondiale mediante i divieti di importazione delle merci prodotte in questi Paesi, adesso occorrono misure di regolazione tran snazionali dei mercati per espandere urgentemente i principi fondamentali del diritto del lavoro e del
LA SINTESI
l’ambiente (de Mozzi; Martire). Occorre, cioè, una Autorità indipendente, come sapientemente aveva detto, all’inizio (2009) di questa crisi epocale, Bene detto XVI nell’enciclica «Caritas in veritate» («una vera Autorità politica mondiale» di tipo sussidiario con poteri coercitivi, 67). Ed, invece, in questi giorni è stato stipulato un trattato bilaterale (sic!) tra USA e Cina per la riduzione dei gas serra, in cui si dice che entro il 2030 la Cina non aumenterà più l’emis sione di questi gas. Sembra una barzelletta, ma è la pura verità! In questo contesto l’Italia e l’Europa non contano nulla.
Solo per dovere verso gli illustri e affezionati Autori continuo a scrivere la mia sintesi.
3. Per quanto riguarda il primo quesito, attinente
alle «materie» dei contratti di prossimità ex art. 8, D.L. n. 138/2011, molti contributi, partendo dalla tassatività di queste materie (Corte cost. n. 121/ 2012), affermano che la «retribuzione» non è nomi nata, ma indirettamente rileva poiché è connessa ai temi dell’orario di lavoro e delle mansioni (Catau della, Cerreta, Filì, Fraioli, Menghini, Mezzacapo, Nappi, Papaleoni, Prosperetti, Sandulli, Sigillò, Va lente, Veltri).
Mentre per alcuni contributi la retribuzione fa parte della materia «disciplina del lavoro» (Miscione, Pes siFabozzi, Valecchi).
C’è, però, anche il problema delle «finalità», che sono anch’esse tassative, in cui non è compresa espressa mente la riduzione dei salari (Miscione, Sandulli), an che se i fini della norma sono molto estesi e la misura della retribuzione è coinvolta nei fini principali. In ogni caso alla domanda se una norma aggiuntiva potrebbe prevedere la retribuzione come «materia» dell’art. 8, i contributi si sono distinti tra si (Angiel loMoglia, CassarCaponetti, Martire, Minervini, Sigillò, Tomassetti) e no (Filì, Lambertucci, Men ghini, PessiFabozzi, Sandulli, Tampieri, ZoliRatti). Il limite, comunque, è l’art. 36 della Costituzione, richiamata espressamente nell’art. 8, però integrato, come afferma la giurisprudenza della Cassazione, dal principio secondo cui la retribuzione sufficiente deve essere valutata in base al settore economico, alle condizioni dell’impresa e al costo della vita del luogo di svolgimento della prestazione, mentre non fanno parte della retribuzione sufficiente gli istituti indiretti sia fissi che variabili (AngielloMoglia, Bat tistiBavasso, Bianchi d’UrsoArmentano, Brun, CanavesiOlivelli, CassarCaponetti, Cataudella, Cerreta, de Mozzi, Dondi, Filì, Fraioli, FranzaPoz zaglia, Imberti, Marimpietri, Miscione, Perone, Pi sani, Pizzuti, Testa, ZoliRatti).
Invece l’art. 39 Cost. non c’entra nulla, poiché non prevede che l’autonomia collettiva abbia una riserva
di competenza normativa (CassarCaponetti, Fraio li, Ichino, Marimpietri, Martire, Perone, Pizzuti. Contra Lambertucci).
Del resto, anche a prescindere dall’art. 8 in esame, il contratto aziendale può derogare anche in peius il contratto nazionale, poiché prevale il criterio crono logico e di specialità in assenza di una disciplina legale (Brun, Cataudella, FranzaPozzaglia, Gra gnoli, Ichino, Lambertucci, Mezzacapo, Miscione, Passalacqua, PessiFabozzi, Pizzuti, Sandulli, Va lecchi, ZoliRatti).
E la disciplina degli accordi interconfederali non può ingabbiare l’autonomia collettiva trattandosi di una normativa contrattuale e non legale, sicché il problema in esame non può risolversi così (Valente. Contra Cerreta, D’Andrea, de Mozzi, Lambertucci, Mezzacapo, Passalacqua). Ed, anzi, ora ci sono tan ti esempi di contratti aziendali che differenziano o differiscono gli aumenti previsti dal contratto nazio nale oppure che derogano in peius il contratto aziendale precedente (Tomassetti).
Mentre i cd. contratti pirata stipulati da un sindaca to di comodo sono nulli (Gragnoli), ma la valutazio ne delle caratteristiche del sindacato non si può fare, ovviamente solo esaminando la minore retribuzione prevista dal contratto collettivo stipulato da quel sindacato. In ogni caso l’art. 8 in esame prevede la legittimazione a stipulare contratti di prossimità per qualsiasi sindacato comparativamente più rappre sentativo sul piano nazionale o territoriale, sicché questo problema, nel caso di specie, non si pone.
4. Per quanto riguarda il secondo quesito, attinente
alla previsione di un salario minimo legale, la que stione essenziale è se la legge deve ridurre la retribu zione prevista dall’autonomia collettiva o, invece, deve garantirla nei settori e nei rapporti in cui non si applica il contratto collettivo nazionale.
Anche qui le risposte si dividono.
Per alcuni la legge deve intervenire, come sta facendo il cd. Jobs act, per assicurare una rete ultima di protezione (cd. last safety net) a favore dei lavoratori non coperti da un contratto collettivo nazionale di categoria, compresi anche i lavoratori autonomi pa rasubordinati (Brun, Cataudella, Corti, D’Andrea, de Mozzi, Dondi, Filì, FranzaPozzaglia, Imberti, Occhino, Marimpietri, Mezzacapo, Miscione, Papa leoni, Passalacqua, Perone, PessiFabozzi, Pizzuti, ProiaGambacciani, Sandulli, Valente, ZoliRatti, Zoppoli). Peraltro questo salario minimo legale così inteso contrasta con l’art. 36 Cost., poiché imita la legge Vigorelli (legge n. 741/1959), la cui proroga è stata dichiarata incostituzionale (Corte cost. n. 106/ 1962), trattandosi di norme eccezionali e transitorie nell’attesa dell’attuazione dei commi 2 e ss. dell’art.
39 Cost., anche perché l’autonomia collettiva sarebbe bloccata per le deroghe in peius (Prosperetti). Per altri, invece, il salario minimo legale deve essere inferiore alla retribuzione prevista dai contratti col lettivi nazionali di settore, altrimenti produrrebbe disoccupazione, deve essere differenziato anche per territorio in base al costo della vita (una specie di gabbie salariali) e deve essere sperimentale, sicché farà emergere le imprese sottomarginali e salverà le imprese in crisi, anche mediante la riduzione del cuneo fiscale e contributivo (AngielloMoglia, Batti stiBavasso, CassarCaponetti, Fraioli, Ichino, Piz zuti, Martire, Pisani, Sigillò, Tomassetti). Questo tipo di salario minimo legale è costituzionalmente legittimo, poiché, al contrario di quello del Jobs act, non vessa l’autonomia collettiva che può sempre derogare in melius il salario legale, non essendoci, come si è già detto, una riserva di competenza a favore dei sindacati (CassarCaponetti, Fraioli, Ichi no, Marimpietri, Martire, Pizzuti). Mentre per quanto riguarda la conformità all’art. 36 Cost. si rimanda al paragrafo 3 che precede, aggiungendosi solo che questa auspicata norma (opposta a quella prevista dal Jobs act) deve essere valutata legittima sul piano costituzionale anche contemplando la gra ve crisi economica in corso, che ha fatto dichiarare costituzionali i tagli alle spese per i dipendenti pub blici (Corte cost. n. 310/2013. Contra Sandulli, per cui la legge economica prevale su quella giuridica). Il salario minimo legale che non garantisce, ma riduce la retribuzione prevista dai contratti collettivi nazionali deve essere controllato anche a livello di impresa in rapporto ai risultati conseguiti (Angiello Moglia, BattistiBavasso, Imberti, Pisani, Testa). Molti contributi hanno trattato del salario minimo
legale in chiave comparatistica, affermando che qua si tutti i Paesi europei prevedono questo salario, compresa ora anche la Germania, che però ha salva to l’occupazione mediante i mini e medi job di 450 euro al mese defiscalizzati e decontribuiti (Battisti Bavasso, Brun, D’Andrea, Fraioli, Imberti, Martire, Passalacqua, Pisani, Tampieri, Valente, ZoliRatti). Ma il dato statistico europeo su cui meditare è que sto: 7% popolazione mondiale; 25% Pil mondiale; 50% delle spese mondiali di Welfare (Pisani). Così non si può andare avanti!
5. Per finire sintetizzo una «nonrisposta»: no alla
norma sulla riduzione dei salari, perché ci sono i gruppi di pressione che si oppongono, mentre l’Italia ha dimenticato il «merito» ed è diventata «un brodo di cultura della corruzione» (Verde).
Il «merito» è stato soppresso in virtù della politica egualitaristica voluta dall’art. 3, secondo comma, Cost. Mentre l’art. 34 Cost. prevede che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubbli ca rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Altro che liberalizza zione dell’accesso agli studi universitari decisa sul finire degli anni ’60, quando imperavano il maggio francese (1968) e l’autunno caldo italiano (1969). Senza il merito, valutato «per concorso», i giovani delle classi povere «capaci e meritevoli» non potran no quasi mai emergere. Aldo Moro, incalzato da me studente di Scienze politiche nel 1972 che dicevo «Così Professore lei distrugge tre generazioni di ita liani», affermò, pressato come sempre dai comunisti, «Come devo fare, lo capiranno soli». Adesso l’hanno capito, dopo oltre 40 anni di trastulli!