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Sorprende la tesi proposta da più parti secondo

Nel documento Retribuzione e occupazione (pagine 40-42)

cui il nostro ordinamento avrebbe necessità di una regolazione positiva della retribuzione mini­ ma. Non è chiaro perché non sarebbe sufficiente l’attuale modello, basato sul nesso fra l’art. 36, comma 1, Cost. e i minimi dei contratti collettivi di categoria. Oltre tutto, questi risentono dell’anda­ mento del mercato, poiché esso condiziona lo svi­ lupparsi e gli esiti del negoziato, reattivo rispetto ai risultati delle imprese, seppure nell’ambito di categorie articolate sull’intero territorio (e, se mai, da ridurre e da rendere più limitate e omogenee). Non si capisce come potrebbe il legislatore fissare una credibile retribuzione minima coerente per qualunque contesto merceologico, modificata in modo rapido e più realistica di quella desumibile dagli accordi sindacali. Se mai, il problema del meccanismo attuale è dato dalla sua scarsa effetti­ vità, non dall’irrazionalità dei compensi minimi. Una turbativa all’attuazione dell’art. 36, comma 1, Cost. è provocata dai cosiddetti «contratti pira­ ta», una delle prassi deteriori del nostro sistema, accettata senza una adeguata sensibilità e senza proporzionate reazioni degli uffici ispettivi degli enti pubblici. Se questi non cadono sempre in una colpevole connivenza, non manifestano comun­ que consapevolezza sulla gravità del fenomeno. Esso non può essere stroncato (se mai ciò fosse possibile in assoluto, e vi è da dubitarne) solo nell’ambito delle controversie individuali in ordi­ ne alle differenze retributive, poiché, da un lato,

non sempre i prestatori di opere hanno interesse (percependo in modo irregolare compensi aggiun­ tivi) e, dall’altro lato, l’effettività dell’art. 36, com­ ma 1, Cost. non può essere garantita in via esclusi­ va dal giudizio, in specie in settori economici a forte intensità di manodopera, come nei mercati delle prestazioni di facchinaggio e di pulizia. In tali contesti, è un fattore di disordine preoccupan­ te la presenza di accordi nazionali (o che preten­ dono di esserlo) con l’indicazione di minimi retri­ butivi del tutto distonici da quelli delle ordinarie intese, concluse dalle maggiori associazioni sinda­ cali. Non si vede perché la situazione dovrebbe migliorare con l’intervento del legislatore, chiama­ to a determinare la retribuzione minima.

Le previsioni sui minimi dei cosiddetti «contratti pirata» sono così lontane da quelle realistiche da lasciare intendere che i lavoratori siano reclutati in forme illegittime in via programmata, con la promessa e con il pagamento di compensi integra­ tivi rispetto a quelli indicati. In difetto, i prestatori di opere cercherebbero di lasciare collocazioni professionali non in linea con le opportunità di mercato e di migrare verso imprese che applichi­ no i veri contratti. Tuttavia, quelli «pirata» identifi­ cano retribuzioni inferiori a quelle corrisposte e in questo sta la predefinita slealtà del comportamen­ to, poiché esso vuole creare l’apparenza dell’attua­ zione di un simulacro di accordo nazionale, quan­ do i datori di lavoro sanno che le retribuzioni saranno versate in larga parte in modo illegittimo. Solo se si è molto ingenui, si può pensare che la predisposizione di pretesi contratti «pirata» possa diminuire le retribuzioni effettive. Per quanto sia degradata la condizione del mercato italiano, non lo è a tale punto che, persino qualora siano molto sprovveduti e in uno stato di particolare debolez­ za sociale e culturale (per esempio, persone sprov­ viste del permesso di soggiorno e appena giunte dall’estero, con scarsa conoscenza della nostra lin­ gua), i dipendenti non capiscano intorno a quali effettivi importi si orientino le loro ragionevoli aspettative di remunerazione. Se non sono ricono­ sciute somme coerenti con quelle risultanti dalle dinamiche economiche, si sviluppa una rapida mi­ grazione verso le aziende con comportamenti me­ di. L’idea dei negozi «pirata» non è di ridurre la retribuzione di fatto, poiché, per quanto sia inten­ sa la povertà, una simile strategia contrasta con la diffusione delle informazioni e con il naturale rie­ quilibrio della domanda e dell’offerta.

Poiché molti benefici pubblici, di varia natura, sono riconosciuti solo ai datori di lavoro che pratichino retribuzioni non inferiori a quelle indicate dai con­ tratti di categoria (e tale principio, alquanto diffuso,

fatica a raggiungere i suoi obiettivi), i negozi «pirata» sono pensati perché il datore di lavoro possa soste­ nere di applicare un accordo nazionale e di corri­ spondere alle rispettive clausole, quando fa riferi­ mento a un mero simulacro e le somme risultanti dai prospetti di paga sono di gran lunga inferiori a quelle effettive. Non occorre una fantasia sbrigliata per comprendere come abbia luogo il versamento delle differenze. Quelli «pirata» non sono riconducibili agli accordi collettivi e, se mai, si discute solo sulla motivazione della loro illiceità.

Si è detto che, in carenza di una effettiva politica rivendicativa, le apparenti associazioni di rappre­ sentanza dei prestatori di opere non avrebbero natura di sindacato, poiché non rientrerebbero nel paradigma dell’art. 39, comma 1, Cost. Si po­ trebbe richiamare in modo più semplice l’art. 17, St. lav., con conclusioni in larga parte coincidenti. In fondo, i cosiddetti sindacati di comodo non godono della tutela dell’art. 39, comma 1, Cost., proprio perché non proteggono gli interessi collet­ tivi. Quindi, è equivalente il negare natura sinda­ cale ai soggetti che concludono gli accordi «pira­ ta» o invocare l’art. 17, St. lav., poiché i relativi principi non sono incompatibili e chi non espleta una riconoscibile iniziativa sindacale può essere annoverato fra le strutture di comodo, qualora goda di forme di preferenziale collaborazione con le imprese del livello medio di retribuzione. Non è possibile stipulare contratti con minimi retributivi distonici in modo evidente, poiché verrebbe meno quel criterio di coerenza del negoziato, indispen­ sabile anche in carenza di una concezione univer­ salistica della retribuzione sufficiente.

Sebbene di tale idea si diano oggi tante letture quanti sono i contratti nazionali, non si elimina lo spazio di valutazione del giudice, ed esso deve esse­ re invocato qualora improvvisate coalizioni, in so­ spetto di collusione con le imprese, raggiungano intese non concordanti con l’oggettivo assetto del mercato. Non occorrono molta fantasia, né partico­ lari competenze economiche per stabilire quali sia­ no i negozi «pirata». Gli accordi recano clausole sui minimi così lontane da quelli abituali che non si discute di un ridimensionamento o di una elusione dei precetti costituzionali, ma, appunto, di una di­ chiarata iniziativa di violenta contrapposizione. L’in­ conciliabilità delle previsioni dei contratti «pirata» con le indicazioni medie del mercato li qualifica e li distingue da forme più sottili (e meno illecite) di abbassamento temperato delle previsioni sulla retri­ buzione di base nelle differenti categorie.

I contratti «pirata» sono irrilevanti ai fini dell’art. 36, comma 1, Cost., poiché, per la loro struttura, non vogliono, né possono stabilire la retribuzione

sufficiente, così che il giudice non li può conside­ rare ed essi non sono accordi collettivi. Il proble­ ma si pone su un terreno differente. Sebbene non abbiano nessuna speranza di argomentare sulla loro rilevanza a paragone dell’art. 36, comma 1, Cost., molti datori di lavoro ne vogliono la stipula­ zione e li invocano confidando sulla scarsa incisi­ vità delle eventuali iniziative processuali dei pre­ statori di opere e sulla realistica possibilità di go­ dere di vari benefici di ordine previdenziale e, comunque, promessi dal sistema pubblico, nono­ stante la violazione dello stesso art. 36, comma 1, Cost. Il tema non rinvia all’esito dei giudizi sullo (scontato) diritto alle differenze retributive, ma sull’inesistenza o sull’inefficacia dei controlli pub­ blici, a cominciare da quelli delle Direzioni territo­ riali del lavoro, troppo timide per scoraggiare la prosecuzione in simili comportamenti.

Nonostante pensi il contrario, il nostro ordina­ mento non deve spiegare perché i contratti «pira­ ta» siano contrastanti con l’art. 36, comma 1, Cost., con l’art. 39, comma 1, Cost. e con l’art. 17, St. lav. Ciò è evidente ed è un po’ stucchevole insistere. Al contrario, ci si dovrebbe interrogare sulle ragioni per le quali simili iniziative continui­ no indisturbate e trovino alimento nell’inefficien­ za del complessivo sistema pubblico. Esso è privo della minima effettività nei confronti di imprese condotte in dichiarate e piene condizioni di illicei­ tà. In tale settore, estraneo a criteri di legittimità e in contrasto con essa, l’unica soluzione è la tutela penale, in particolare per reati di natura fallimen­ tare, mentre i presupposti per la dichiarazione di fallimento sono diventati molto selettivi e la rea­ zione di carattere criminale ha minima capacità intimidatoria. Non si vede quali miglioramenti po­ trebbe apportare la fissazione legale della retribu­ zione minima, se si considera che il problema è dato dall’ineffettività delle attuali forme di tutela e un intervento legale sull’indicazione della retribu­ zione non avrebbe alcun impatto.

Pietro Ichino

Nel documento Retribuzione e occupazione (pagine 40-42)