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Nel documento Retribuzione e occupazione (pagine 89-91)

nei quali è ammessa la deroga anche in peius da parte degli accordi di prossimità, la materia della retribuzione, sorgono alcune perplessità, sia sul pia­ no tecnico­giuridico sia su quello dell’opportunità. Occorre anzitutto ricordare come la retribuzione sia espressamente menzionata dall’art. 8, legge n. 148/2011, allorquando la norma vincola le «spe­ cifiche intese» contenute negli accordi di prossimi­ tà al perseguimento di determinate finalità, fra le quali rientra l’incremento della «competitività e dei salari»: segno che le specifiche intese erano immaginate dal legislatore come rivolte al miglio­ ramento, e non già all’abbassamento, dei livelli salariali (A. Perulli, V. Speziale, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la «rivoluzione di agosto» del diritto del lavoro, WP C.S.D.L.E. «Mas­ simo D’Antona».it ­ 132/2011). Sotto questo aspetto, comporterebbe una contraddizione inter­ na alla norma stessa un’eventuale disposizione che autorizzasse ad introdurre deroghe in punto di retribuzione. Piuttosto, si potrebbe discutere circa la possibilità di redistribuire quota fissa e quota variabile della retribuzione, incentivando maggiormente la contrattazione di secondo livel­ lo, peraltro nel solco degli accordi interconfederali dell’ultimo triennio e sul modello di quello del novembre 2012 (su cui cfr. per tutti P. Tosi, Gli assetti contrattuali fra tradizione e innovazione, in Arg. Dir. Lav., 2013, 506 ss.).

La flessibilità organizzativa di cui necessitano le imprese in periodi di crisi può attuarsi mantenen­ do inalterato il costo del lavoro. Ne sono esempi la facoltà di adottare un regime di orario multiperio­ dale, la possibilità di ricompensare le prestazioni

di lavoro straordinario con riposi compensativi invece che con maggiorazioni retributive, la ne­ cessità di prevedere specifiche compensazioni in caso di clausole di variabilità del lavoro part time (cfr. M.C. Cataudella, La retribuzione nel tempo della crisi. Tra principi costituzionali ed esigenze del mercato, Torino, 2013, 40­41).

Del resto, l’art. 8, al comma 2­bis, sembra espri­ mere una precisa opzione legislativa di autolimita­ zione, là dove sottopone la contrattazione colletti­ va di prossimità ai vincoli derivanti dalla Costitu­ zione, dalle norme internazionali e da quelle eu­ ropee. Ebbene, il più importante limite costituzio­ nale è proprio quello relativo alla retribuzione proporzionata e sufficiente, che si pone quale gui­ da e al contempo ostacolo ad operazioni legislati­ ve o contrattuali di riduzione dei livelli retributivi sotto il parametro della sufficienza (in generale sul punto cfr. A. Lassandari, Il limite del «rispetto della Costituzione», in Riv. Giur. Lav., 2012, I, 503 ss.). Piuttosto, si pone come di consueto la questione della possibilità che il giudice si discosti, in senso peggiora­ tivo, rispetto a quanto fissato nelle tabelle retributive contenute nel contratto collettivo nazionale, strumen­ to principale (quando non anche esclusivo) di deter­ minazione della retribuzione (G. Giugni, Prefazione a M.L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, Bologna, 1971, 11). Le risposte emerse in giurisprudenza ­ sebbene talvolta approssimative e fra di loro contrad­ dittorie, specie in relazione al rispetto dei criteri di proporzionalità e sufficienza (per una ricca rassegna cfr. C. Galizia, La giusta retribuzione tra punti fermi e questioni aperte, in Dir. Lav. Merc., 2009, 620) ­, si attestano per lo più nel senso della legittimità della determinazione giudiziale della retribuzione in misu­ ra inferiore rispetto allo standard collettivo di settore, ove ad esempio si tratti di un lavoratore «residente in zona depressa, con potere di acquisto della moneta accertato come superiore alla media nazionale» (Cass. 26 luglio 2001, n. 10260, Foro It., 2001, I, 3088). Il giudice, inoltre, può legittimamente ridurre i minimi tabellari «tenuto conto di una pluralità di elementi, quali la quantità e qualità del lavoro presta­ to, le condizioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattere arti­ gianale e le dimensioni dell’azienda» (Cass. 28 ago­ sto 2004, n. 17250, Dir. Lav., 2004, 961).

Nel rapporto fra i diversi livelli della contrattazione, non esistendo un criterio legale di scelta in ipotesi di plurime fonti collettive, «il giudice di merito può fare riferimento al contratto collettivo aziendale anziché a quello nazionale, in quanto rispondente al princi­ pio di prossimità all’interesse oggetto di tutela, pur se peggiorativo rispetto al secondo, e pur se intervenu­ to in periodo successivo alla conclusione del rappor­

to di lavoro» (Cass. 31 gennaio 2012, n. 1415, Giust. Civ. ­ Mass., 2012, 102). Diversamente opinando si introdurrebbe, in modo surrettizio, una sorta di inde­ rogabilità del contratto collettivo nazionale da parte di quello aziendale, «sussistente invece solo rispetto al contratto individuale, e a maggior ragione da escludere quando non è possibile riferirsi diretta­ mente alla fonte collettiva nazionale per mancanza di bilateralità d'iscrizione e di spontanea ricezione ad opera delle parti del rapporto individuale» (Cass. 20 settembre 2007, n. 19467, Giust. Civ. ­ Mass., 2007, 9). D’altro canto il giudice non è neppure obbligato a riferirsi ai minimi stabiliti dal contratto collettivo, ben potendo utilizzare in via esclusiva no­ zioni di comune esperienza e altri criteri equitativi (Cass. 6 aprile 1992, n. 4200, Giust. Civ. ­ Mass., 1992, 4).

In parte diverso è il quadro di regole che caratte­ rizza l’ordinamento intersindacale. Gli accordi in­ terconfederali più recenti, nel momento in cui au­ torizzano i contratti aziendali ad introdurre, anche in via temporanea, intese derogatorie rispetto al quadro di regole fissate nel contratto nazionale, fanno espressa riserva a favore di quest’ultimo per quanto attiene alla «certezza dei trattamenti eco­ nomici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore» (così ad esempio le clausole 2 e 7 dell’ac­ cordo interconfederale 28 giugno 2011). Sul pun­ to i tentativi di armonizzare i due regimi sono in effetti poco soddisfacenti (M. Barbieri, Il rapporto tra l’art. 8 e l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in Riv. Giur. Lav., 2012, I, 461 ss.).

Occorre rilevare poi come, sul piano sistematico, un eventuale allargamento delle facoltà concesse agli accordi di prossimità anche alla materia retributiva si porrebbe in contraddizione con le misure, da tem­ po adottate nel nostro Paese, dirette a far emergere situazioni di irregolarità mediante l’istituto dei con­ tratti collettivi di riallineamento (P. Ichino, La nozio­ ne di giusta retribuzione nell’articolo 36 della Costitu­ zione, Riv. It. Dir. Lav., 2010, I, 719 ss.). Essi, è vero, possono determinare livelli retributivi inferiori ri­ spetto a quelli fissati dal contratto collettivo, ma ciò a fronte di una serie di presupposti e parametri (cfr. in particolare la legge n. 608/1996 e le successive integrazioni e modifiche), tutti rivolti a favorire l’emersione dall’irregolarità ed il progressivo miglio­ ramento delle condizioni economiche e normative dei lavoratori. Intanto possono ritenersi legittimi tali contratti, in quanto essi siano provvisori e giustificati dall’interesse alla promozione dell’occupazione (C. Zoli, La retribuzione tra garantismo e flessibilità: re­ centi scenari contrattuali e giurisprudenziali, in Dir. Rel. Ind., 1997, 19 ss.). Attribuire al diverso strumen­ to dell’art. 8, per certo meno provvisto di garanzie, il

perseguimento di finalità analoghe rispetto ai con­ tratti di riallineamento, risulterebbe in netto contra­ sto con la ratio che ispirò il legislatore, sin dalla fine degli anni ’80, per consentire deroghe regolate alla fissazione della retribuzione minima mediante il contratto collettivo di settore, operando un delicato bilanciamento fra gli artt. 36 e 4 Cost. (I. Piccinini, Equità e diritto al lavoro, Padova, 1997, 156­157). La questione, dunque, non è se occorra ampliare il raggio d’azione dell’art. 8 estendendone l’ambi­ to oggettivo alla materia retributiva per favorire una contrattazione di secondo livello derogatoria rispetto a quella nazionale, ma se una tale finalità non possa già realizzarsi a legislazione invariata. La duttilità dimostrata dalla dinamica dei salari nel settore privato e dal loro adattamento al con­ testo entro cui si svolgono i rapporti di lavoro ­ in uno con la tendenza alla valorizzazione del con­ tratto individuale quale fonte primaria di determi­ nazione della retribuzione (E. Gragnoli, La retribu­ zione ed i criteri della sua determinazione, in E. Gragnoli, S. Palladini, La retribuzione, Torino, 2012, 10 ss.) ­ sembra al riguardo sufficiente a garantire al datore di lavoro la possibilità di nego­ ziare riduzioni retributive commisurate all’anda­ mento dell’impresa.

Un’interessante esperienza in tal senso viene forni­ ta dal settore delle cooperative, ove la legge da tempo consente all’autonomia negoziale di contem­ plare, nel regolamento interno di cui all’art. 6, legge n. 142/2001, la facoltà di deliberare un piano di crisi aziendale. Benché la norma si limiti ad autoriz­ zare, a fronte della salvaguardia «per quanto possi­ bile, dei livelli occupazionali», riduzioni tempora­ nee dei trattamenti economici «ulteriori» rispetto ai minimi stabiliti dalla contrattazione nazionale, la prassi fa registrare una certa sensibilità delle stesse organizzazioni sindacali rispetto all’esigenza di mantenere intatto l’organico aziendale sopportan­ do consistenti sacrifici sul piano retributivo (in ar­ gomento da ultimo L. Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa, Milano, 2012, 208 ss.).

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