1.4. Il reclutamento politico
1.4.2. Le ricerche
Un importante contributo alla ricerca comparata sul reclutamento politico è il testo “Candidate Selection in Comparative Perspective” curato da Gallagher e Marsh [1988]. Esso segue un approccio case-oriented, ma i capitoli sugli otto stati europei (Belgio, Gran Bretagna, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Olanda e Norvegia) e il
capitolo sul Giappone sono articolati attorno alle stesse ipotesi e categorie16: il grado di centralizzazione del processo di selezione; il grado di partecipazione/inclusività al processo; le qualità di coloro che i selezionatori cercano.
Gallagher traccia poi nelle conclusioni un quadro delle somiglianze e delle differenze nei processi di selezione dei diversi paesi presi in esame e presenta la sua analisi entro un framework teorico che guarda alla influenza di cinque fattori principali: le disposizioni di legge (che raramente giocano un ruolo significativo); la struttura dell’organizzazione statale (federale vs. unitaria; i cui effetti sul processo non sono chiari); il sistema elettorale (Gallagher sottolinea che le ipotesi più deterministiche sono sbagliate, ma il sistema elettorale è certamente rilevante); la natura del partito che seleziona; e la cultura politica quale categoria per le spiegazioni residuali. Gallagher [1988] arriva alla conclusione che nessuno di questi fattori può essere ignorato; che l’analisi quantitativa potrà fornire ulteriori indicazioni, ma che continuerà ad esserci della “varianza non spiegata” fra i diversi paesi. Non solo. Secondo Gallagher, “in una certa misura, ciascun partito va visto come un unicum. I partiti hanno un certo grado di autonomia, e il loro comportamento non è mai determinato interamente dal loro ambiente” [ibidem, 265].
Riguardo al caso italiano, i contributi più rilevanti risalgono, in realtà, alla Prima Repubblica: tra gli altri, Sartori [1963]; Farneti [1972]; Cotta [1979]; Mastropaolo [1984 e 1993]; Wertman [1988].
Quest’ultimo [Wertman 1988, 165] sottolinea che la selezione dei candidati è sempre stata importante in Italia sotto diversi punti di vista: in primo luogo, i partiti stessi l’hanno sempre considerata come una parte importante della loro strategia politica ed elettorale, sebbene gli studi suggerivano che gli elettori italiani guardavano principalmente all’immagine del partito piuttosto che ai singoli candidati; in secondo luogo, la selezione dei candidati ha giocato un ruolo cruciale non solo nel determinare i membri del parlamento, ma anche nella scelta del pool da cui sono venuti i leader di governo (e di partito); in terzo luogo, il processo di selezione dei candidati ha finito per rafforzare il ruolo dominante dei partiti facendone i principali selezionatori e promotori delle élites politiche (Cotta parla, a tal proposito, di “partitizzazione del processo di
16 Il focus dell’analisi è generalmente il selettorato intrapartitico e il periodo preso in esame solitamente il
secondo dopoguerra. I dati sui diversi paesi sono raccolti da fonti secondarie, in gran parte ricerche pubblicate nella lingua del paese oggetto dello studio.
reclutamento”) ed evitando che membri di partito ed elettori avessero un ruolo significativo nel processo.
In generale, la selezione era pertanto svolta secondo modalità che prevedevano (nel caso dei partiti maggiori) un controllo da parte degli organi dirigenti centrali sulle iniziative periferiche, dalle quali partivano solitamente le proposte per le candidature; Wertman parlava di “coinvolgimento locale con controllo centrale” [Wertman 1988], anche se le modalità variavano notevolmente da partito a partito.
Cotta [1979, 186ss.], analizzando il periodo che dal secondo dopoguerra arrivava alla metà degli anni ’70 ed adattando al caso italiano i modelli che Herzog [1971] considerava tipici dei sistemi competitivi, aveva individuato, in particolare, tre diversi modelli di reclutamento:
• il modello d’apparato puro, che prevedeva il controllo partitico di tutte le fasi del reclutamento e della formazione del personale parlamentare “sia l’iniziazione e la socializzazione politica sia l’accumulazione delle risorse hanno come luogo esclusivo di svolgimento le strutture partitiche o le istituzioni filiate dal partito e fortemente controllate da esso” [ibidem, 198] (a questo modello si sarebbe avvicinato il Pci);
• il modello partitico-clientelare, o di semi-apparato, in cui si evidenziava un peso importante ma non esclusivo dell’apparato di partito ed in cui un ruolo fondamentale era giocato da un sistema di gruppi di interesse affiliati simbioticamente a settori di partito, un vero e proprio sistema di clientele (a questo modello si sarebbe avvicinata la Dc);
• infine, il modello partitico-notabilare, che prevedeva il prevalere delle carriere esterne al partito (in particolare nel settore delle professioni private) e che premiava coloro che detenevano posizioni di rilevante prestigio sociale convertibili in risorse elettorali (quest’ultimo modello, prevalente nel periodo prefascista, sarebbe andato scomparendo con le prime legislature repubblicane).
Ci si deve a questo punto chiedere se i tradizionali modelli di reclutamento che avevano nei partiti politici i principali strumenti di selezione e formazione del personale politico sono entrati in crisi, così come i partiti che li avevano incarnati.
E, per quanto più in particolare riguarda la nostra ricerca, ci si chiede quale modello di reclutamento si è proposto e si propone attualmente nelle regioni italiane. Tale interrogativo era già stato avanzato dalla letteratura politologica al momento della
“prima regionalizzazione”, quando l’Isap (Istituto per la Scienza dell’Amministrazione) prima e, l’Isr (l’Istituto di Studi sulle Regioni del Cnr) poi, hanno affrontato il tema degli effetti della istituzione delle regioni a statuto ordinario sulla società e sulle sue strutture politiche e sociali (partiti, sindacati, gruppi di pressione).
La risposta, sgombrato il campo dall’illusione, per usare le parole di Putnam [1985, 106] che “dalle rispettive basi elettorali, sarebbe sorta una nuova e più fresca classe di cittadini politici” [si veda in proposito Riccamboni 1976] si ridusse grosso modo alla presa d’atto del ruolo determinante dei partiti nella selezione della “nuova” classe politica regionale. Fedele [1988, 2, 13] sottolineava che “le regioni non sono mai state altro da ciò che il sistema dei partiti ha permesso loro di essere, e cioè qualcosa di più che non semplici organi di alta amministrazione e qualcosa di meno dei desiderati enti di legislazione e programmazione. …Anche perché le regioni non hanno mai avuto una gestione dei poteri autonoma da ciò che le segreterie dei partiti hanno di volta in volta concesso loro. Secondo Pasquino, poi, “quando, nel 1970 si pervenne finalmente all’elezione degli altri quindici Consigli regionali, tutti i partiti italiani erano, nelle misure loro proprie, attrezzati per la competizione politico-elettorale orientata al centro, alle arene parlamentari, governative e burocratiche centrali. I partiti italiani furono pertanto in grado di minimizzare la sfida, opporvisi con le loro strutture preesistenti, assorbirla con il minimo di adattamento. Anzi, in una certa misura, più che una sfida il decentramento regionale costituì una vera e propria opportunità per i partiti, un elemento aggiuntivo che, forse, ne rallentò la crisi” [1983, 791], l’opportunità di accrescere la circolazione della classe politica grazie alla moltiplicazione delle posizioni politiche elettive.
Ne derivò una classe politica regionale costituita “nè di stelle calanti nè di astri nascenti. Non è il vecchio personale partitico che magari ha difficoltà di rielezione a livello nazionale a presentarsi candidato alle regionali.... Non è, almeno nella prima fase, il nuovo personale politico, poichè le Regioni servono da valvola di sfogo di funzionari e uomini di partito che in qualche modo debbono essere premiati per i servizi resi e per la loro fedeltà. È in sintesi un personale intermedio, tipico di partiti alquanto burocratizzati quali quelli italiani..., al quale ‘spetta’ quel tipo di posizioni nel cursus
honorum dei politici” (ibidem, 793-794). In realtà il carattere “burocratizzato” dei partiti
non sembra una spiegazione sufficiente del fenomeno, sia che con questo termine si volesse evocare il modello del partito burocratico di massa, sia che ci si volesse riferire
ad altre proprietà non specificate. Lo ritroviamo, infatti, in partiti tra loro abbastanza diversi per struttura organizzativa ed estensione della membership. Quei tratti della classe politica regionale, nella sua componente consiliare, possono essere spiegati più sobriamente considerando le caratteristiche del ruolo. Un ruolo che garantiva già allora benefici troppo apprezzabili per il ceto politico perché potessero essere allocati fuori dal perimetro degli insider. È chiaro, quindi, che a livello regionale finivano per essere riproposti quei modelli di reclutamento che Cotta aveva individuato come caratterizzanti i processi di selezione del personale politico parlamentare.
L’indagine che abbiamo condotto, e che illustreremo nei capitoli successivi, ha proprio lo scopo di verificare il modello della rappresentanza del personale politico di livello regionale calabrese, soprattutto in relazione ai suoi processi di reclutamento e selezione.
CAPITOLO SECONDO
L’identikit della
Premessa
La prima parte di questo capitolo è dedicata alla ricostruzione del contesto nel quale si inquadra il nostro caso studio. Ci dedichiamo quindi, anzitutto alla ricognizione di quelle costanti che gli studi hanno individuato rispetto alle caratteristiche e al funzionamento del sistema politico meridionale in genere e calabrese in particolare, facendo anche riferimento alle peculiarità del percorso di modernizzazione economica, sociale e politica di queste realtà. Ci soffermiamo poi in particolare sull’impatto che ha avuto l’istituzione dell’Ente Regione sulla struttura della competizione politica in Calabria e sulle strategie dei diversi attori politici, e offriamo quindi una panoramica rispetto ai risultati delle elezioni regionali calabresi.
La seconda parte del capitolo è invece dedicata all’analisi delle caratteristiche socio-anagrafiche e professionali dei consiglieri regionali eletti in Calabria dal 1970 a oggi. Per ciascuno dei 394 consiglieri17 che si sono avvicendati nell’istituzione rappresentativa calabrese nei 37 anni di vita dell’ente Regione, abbiamo preso in considerazione variabili socio-anagrafiche e professionali (genere, età, titolo di studio e professione) e la variabile politica dell’appartenenza partitica. È opportuno a quest’ultimo riguardo precisare che come partito di provenienza si è preso in considerazione quello di appartenenza al momento dell’investitura a consigliere, senza considerare i frequenti cambi di partito avvenuti nel corso delle diverse legislature, soprattutto da quando la crisi degli anni ’90 ha trasformato, complicandolo e frammentandolo, il quadro partitico. L’analisi dei dati raccolti ci permetterà di tratteggiare le qualità degli eletti in consiglio regionale ma anche, per converso, di evidenziare le barriere all’entrata nel sistema politico regionale calabrese. Lo sguardo diacronico sulle caratteristiche del personale politico ci permetterà, infine, di verificare se e come è cambiato nel corso degli anni il tipo di professionismo politico espresso dalla classe politica regionale calabrese. In sostanza, il nostro interesse sta anzitutto nel mettere in risalto le due facce della rappresentanza politica (il versante del rapporto rappresentati/rappresentanti e quello del rapporto partiti/singoli rappresentanti) e quindi
17 E’ opportuno precisare che il numero effettivo di coloro che si sono avvicendati nel ruolo di consigliere
è inferiore a quello di 394 unità, che si ottiene prendendo in considerazione tutte le presenze dei rieletti in Consiglio regionale. Precisiamo inoltre che sono stati presi in considerazione anche coloro che hanno fatto ingresso in Consiglio in momenti successivi rispetto alla tornata elettorale subentrando a consiglieri che, per diversi motivi, avevano abbandonato il loro ruolo.
il grado di apertura e di istituzionalizzazione dei canali di reclutamento della classe politica regionale, evidenziandone i diversi passaggi e, di volta in volta, i diversi vincoli che condizionano le strategie dei candidati/eletti [Rush 1998]. Allo stesso tempo, però, il discorso sull’accesso/permanenza della classe politica regionale verrà completato dal ragionamento sul grado di rappresentatività (sociologica) dei consiglieri ed amministratori regionali [su questi temi si veda Fisichella 1996, Cotta, della Porta, Morlino 2001 e Pasquino 1997] .
Nella seconda parte finale del capitolo, poi, ci soffermeremo in particolare sulle caratteristiche dei 146 consiglieri-assessori18 che hanno trovato spazio nelle 27 giunte che si sono avvicendate nei 37 anni di vita dell’ente Regione calabrese, evidenziando le qualità di coloro che sono passati da rappresentanti eletti ad amministratori.
Prima di dedicarci all’analisi dei dati ci pare però opportuno fornire a chi legge alcune indicazione su come è stata costruita la base di dati che utilizziamo in questo capitolo. La principale fonte di informazioni è costituita dal materiale raccolto presso gli uffici della sede del Consiglio Regionale a Reggio Calabria. Nei casi in cui questo materiale si è rivelato lacunoso o inesatto abbiamo corretto o integrato le informazioni facendo ricorso alle schede biografiche che, per i consiglieri eletti dal 1995 in poi, sono consultabili sul sito internet della Regione Calabria, oppure alle dichiarazioni che i consiglieri stessi ci hanno rilasciato nel corso della somministrazione del questionario o dell’intervista.
18 Anche in questo caso sono state considerate tutte le presenze di coloro che hanno ricoperto il ruolo di
assessore più volte nel corso delle diverse legislature. Precisiamo però che non si è tenuto conto della nomina ad assessore in diverse giunte alternatesi all’interno della stessa legislatura, ma solo della plurima presenza in giunte di diverse legislature. Non sono invece stati presi in considerazione gli assessori “esterni” al consiglio regionale.