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La ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale dei poteri regionali in relazione alla c.d fase “ascendente”

Il processo di integrazione europea nella riforma costituzionale (La latitanza di una “clausola europea”)

4.2. Il dialogo a distanza tra Legislatore e Giudice costituzionale nella prospettiva dell’espansione dei poteri regionali nelle fasi discendente e ascendente del diritto

4.2.2. La ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale dei poteri regionali in relazione alla c.d fase “ascendente”

Anche in relazione ai poteri comunitari delle Regioni in relazione alla fase c.d. “ascendente” (consistente nella partecipazione diretta ed indiretta alla definizione dei contenuti delle decisioni comunitarie e alla formazione della posizione italiana) si assiste ad una parabola analoga: da una iniziale posizione di chiusura da parte degli organi statali si passa ad una sia pur lenta apertura per un coinvolgimento più rispettoso ed equilibrato di tali enti.

Occorre ripercorrere brevemente le tappe attraverso le quali si è presentata ed ha trovato una risposta l’esigenza regionale di partecipare alla formazione degli atti comunitari.

Tale esigenza emerge e nasce principalmente in corrispondenza dell’affermarsi del regionalismo, da una parte, e della pervasività del diritto comunitario, dall’altra.

richiama sul punto R. Bin, Stato e Regioni nell’attuazione delle direttive CEE ( e qualche altra nota sul disegno di legge “La Pergola”), in Foro italiano, 1988 p. 502, il quale afferma in proposito che “non

appare molto coerente con la pulizia concettuale perseguita consentire solo ad alcune Regioni (purchè dotate di competenza esclusiva) di dare attuazione immediata agli obblighi comunitari, mentre le altre devono attendere che sia entrata in vigore la legge comunitaria, anche se poi si possono attivare pur in assenza delle norme statali necessarie all’esecuzione degli obblighi comunitari”

Nella misura in cui le Regioni, acquisita la piena coscienza delle proprie esigenze, iniziano a percepire e a rapportarsi all’ordinamento comunitario – che interviene sempre più spesso ed in misura sempre più pregnante a disciplinare settori di interesse regionale- come ad un interlocutore potenzialmente capace di soddisfare tali necessità, le medesime contestualmente ambiscono a conquistare e vedersi assegnati spazi e strumenti per poter intervenire direttamente o indirettamente nei processi decisionali comunitari.

Muovendo dal versante nazionale e dall’analisi del posto assegnato alle regioni, occorre sottolineare come l’attribuzione, già nel pregresso quadro costituzionale, alle stesse della più pregnante natura di enti politici, come tali dotati di competenze normative in materie proprie con riflessi inevitabili anche nelle proiezioni sopranazionali, doveva necessariamente giustificare, a monte, un intervento delle regioni stesse al processo decisionale comunitario78.

Del resto, dal punto di vista pratico, posto che la fase ascendente costituisce una premessa pregiudiziale rispetto alla fase discendente, sarebbe stato del tutto illogico assegnare a tale livello istituzionale una precisa competenza in tema di attuazione degli obblighi comunitari, per poi escludere lo stesso dal processo di formazione del diritto comunitario.

La risposta a tale esigenza sembra, tuttavia, non essere stata una preoccupazione pressante per il Legislatore che, anzi, se ne è occupato solo in tempi relativamente recenti, rispetto all’attuazione dell’ordinamento regionale e che ha apprestato strumenti atti a consentire una partecipazione piuttosto marginale delle regioni ai processi decisionali comunitari.

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Se così non fosse, infatti, si verificherebbe dall’esterno una modifica del modello costituzionale interno, consentendo in ultima analisi l’adozione delle decisioni ad una autorità (quella statale) priva di competenza.

Infatti lo Stato potrebbe riappropriarsi in sede comunitaria (specialmente nell’ambito del Consiglio) di quelle stesse competenze devolute alle regioni.

Tali interventi si sono articolati fin dall’inizio su un duplice livello, prevedendo forme di partecipazione diretta ed indiretta.

La prima consiste – giova ribadirlo- in una presenza regionale in sede comunitaria che non viene filtrata dalla partecipazione dello Stato. La seconda, invece, consente alle regioni di intervenire, in sede nazionale, nella elaborazione delle decisioni (rectius: nella formazione della c.d. posizione unitaria) di cui lo Stato si farà poi portatore a livello comunitario ( essenzialmente in seno al Consiglio dell’Unione europea).

Si assiste, peraltro, nonostante i limiti che verranno posti in rilievo, anche in relazione al versante della formazione (fase ascendente) della normativa europea ad una evoluzione legislativa che tende progressivamente a valorizzare, almeno sulla carta, il ruolo delle regioni sia in relazione alle procedure attraverso le quali si definisce la posizione italiana in merito alle decisioni comunitarie, sia in riferimento ai rapporti diretti tra regioni e istituzioni comunitarie.

Delle due forme di partecipazione quella indiretta ha destato per prima l’interesse del legislatore che ha inaugurato già a far data dalla Legge Fabbri ( n. 183 del 1987 all’art. 9 ) il modello della comunicazione governativa alle regioni e alle province autonome dei progetti relativi agli atti comunitari, seguito dalle eventuali osservazioni regionali. 79

Sul piano delle procedure interne, la partecipazione indiretta regionale si realizza dunque, essenzialmente attraverso l’obbligo di trasmissione ai Consigli regionali dei progetti degli atti normativi comunitari al fine di acquisirne le eventuali osservazioni.

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Ad avviso di parte della dottrina solo gli strumenti di partecipazione indiretta per la formazione della volontà statale da far valere in sede comunitaria sarebbero efficaci , considerato che le altre forme di partecipazione consentirebbero solo “un labile collegamento con il circuito decisionale fondamentale

costituito dal rapporto tra organi decisionali dell’U.E. e organi del circuito rappresentativo dei singoli stati” . cfr. R. BIFULCO, Forme di Stato composto e partecipazione dei livelli regionali alla formazione della volontà statale sulle questioni comunitarie, in Diritto dell’Unione europea 1997, nn. 1-2 pag. 101-

In una prospettiva similmente istruttoria si colloca il sistema della Conferenza Stato- regioni . Introdotta dall’art. 12 della L. 400/88, essa aveva inizialmente compiti di informazione consultazione e raccordo , tra l’altro, sugli indirizzi generali relativi alla elaborazione ed attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali. A livello di legislazione ordinaria, peraltro, la via del coinvolgimento delle regioni italiane nei processi decisionali comunitari viene collegata inscindibilmente alla Conferenza Stato- Regioni e precisamente ad una apposita sessione comunitaria.

Già la Legge n. 86 del 1989 all’art. 10 rubricato “ Sessione comunitaria della

Conferenza Stato-regioni”, prevedeva la convocazione da parte del Presidente del

Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie, con cadenza semestrale, della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome dedicata alla trattazione degli aspetti delle politiche comunitarie di interesse regionale o provinciale. 80

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Ai sensi del citato art. 10, la Conferenza era chiamata ad esprimere il proprio parere sugli indirizzi generali relativi all’elaborazione ed attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali nonché sui criteri e modalità per conformare l’esercizio delle funzioni regionali all’osservanza e all’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza alle istituzioni comunitarie. Accanto al diritto di discussione “interna” delle politiche e della elaborazione degli atti comunitari, le Regioni hanno acquisito una qualche presenza nella Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione europea all’interno della quale è previsto che sia inserito un contingente di esperti regionali. Per quel che concerne la questione dei rapporti istituzionali tra gli ordinamenti regionali e le autorità comunitarie si rileva che il D.P.R. 31 marzo 1994 (recante Atto di indirizzo in materia di attività all’estero delle Regioni e delle Province autonome ) ha disposto che: “Le Regioni e le Province autonome possono tenere

rapporti con gli uffici, organismi e istituzioni comunitarie…in relazione a questioni che direttamente le riguardino”. Nello stesso atto è inoltre prevista la possibilità per le regioni di compiere “attività istruttorie, di informazione e di documentazione dei provvedimenti legislativi sottoposti all’esame della Commissione CE ai fini dell’art. 93 del Trattato”. Infine, l’art. 58 della legge 6 febbraio 1996 n. 52,

dispone che “le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano hanno facoltà di istituire presso le

sedi delle istituzioni dell’Unione europea uffici di collegamento propri e o comuni” e che “gli uffici regionali e provinciali intrattengono rapporti con le istituzioni comunitarie nelle materie di rispettiva competenza”.

Fin dal primo nucleo normativo viene valorizzato il ruolo della Conferenza permanente Stato – Regioni che si delinea come primo punto nodale e sede deputata all’elaborazione di osservazioni, pareri nonché come interlocutore privilegiato dello Stato.

Il Legislatore, del resto, non ha cessato di individuare in tale organo la via principale della partecipazione delle regioni alle questioni comunitarie. Con l’art. 13 della Legge n. 128/1998 che ha modificato l’art. 10 della L. n. 86/1989 la partecipazione delle Regioni alla fase ascendente è stata rafforzata e potenziata, da un lato, attribuendo stabilità alla sessione comunitaria, la cui convocazione da parte del Governo diviene una tappa dovuta, non più subordinata alla richiesta del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie e attivabile anche su richiesta delle regioni stesse, dall’altro, estendendo l’attività di consulenza della Conferenza permanente allo schema del disegno di legge comunitaria.81.

L’art. 13, decimo comma, della L. 128/98 ha disciplinato, poi, un altro potere della Conferenza prevedendo la possibilità per i presidenti delle Giunte regionali e delle Province autonome in occasione della sessione comunitaria di indicare al Governo gli argomenti e le questioni di particolare interesse per le proprie amministrazioni giudicate meritevoli di essere prese in considerazione e segnalate nella formulazione delle direttive.

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Invero, l’elezione della Conferenza permanente a sede deputata a punto di incontro e confronto tra le esigenze dello Stato e quelle regionali in ordine alla fase di elaborazione delle politiche comunitarie, era già stata anticipata dal decreto legislativo n. 281 del 1997 il quale nella parte relativa ai rapporti tra le Regioni e l’Unione europea all’art. 5 prevedeva: “ La Conferenza Stato-Regioni , anche su richiesta delle

Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano , si riunisce in apposita sessione almeno due volte all’anno al fine di: a) raccordare le linee della politica nazionale relativa all’elaborazione degli atti comunitari con le esigenze rappresentate dalle Regioni e dalla Province autonome di Trento e Bolzano nelle materie di competenza di queste ultime ; b) esprimere parere sullo schema dell’annuale disegno di legge che reca “ Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. 2. La Conferenza Stato-Regioni designa i componenti regionali in seno alla rappresentanza permanente italiana presso l’Unione europea […]”

Parallelamente il ruolo della Conferenza permanente viene potenziato con il Decreto Legislativo n. 281/97 cha all’art. 5 istituisce le c.d. sessioni comunitarie della Conferenza Statto- regioni, prevedendo che questa si riunisca almeno due volte l’anno in “apposita sessione” al fine di raccordare le linee della politica nazionale relative all’elaborazione degli atti comunitari con le esigenze rappresentate dalle Regioni e dalle Province autonome nelle materie di loro competenze, oltre che al fine di esprimere il parere di queste sullo schema dell’annuale disegno di legge comunitaria.

Infine, tra le più importanti modificazioni relative alla fase ascendente anteriori alla Riforma del Titolo V, si segnalano quelle apportate dalla L. n. 422/2000 (legge comunitaria per il 2000). Tale disciplina, aggiungendo il comma 1-bis alla legge n. 86/1989, ha previsto che i progetti degli atti normativi e di indirizzo dell’Unione europea e gli atti preordinati alla loro formazione venissero trasmessi dal Governo alle Camere e alle Regioni per consentire a queste ultime di inviare le proprie osservazioni82.

Invero, dal complesso della disciplina sopra esaminata, emerge come il ruolo l’apporto decisionale delle Regioni alla fase relativa alla formazione della posizione italiana da far valere in sede comunitaria per l’elaborazione degli atti normativi dell’Unione, sia stato connotato da evidente marginalità.

Queste ultime, del resto, non hanno mai goduto di strumenti di dialogo in via diretta ed esclusiva rispetto all’istituzione statale, potendo esclusivamente vedere le proprie istanze filtrate dalla Conferenza permanente, organismo di natura collegiale.

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Il Governo, nel far ciò, doveva inoltre indicare la data della presunta discussione da parte degli organi comunitari . Al secondo comma si specificava inoltre che sui progetti degli atti normativi le Commissioni parlamentari potessero esprimere osservazioni ed adottare ogni opportuno atto di indirizzo da trasmettere al Governo, mentre alle Regioni era concesso di inviare le proprie osservazioni . Si prevedeva infine che, nel caso in cui le osservazioni e gli atti di indirizzo non fossero pervenute al Governo entro il termine da esso indicato per la discussione, quest’ultimo avrebbe potuto comunque procedere alle attività di propria competenza per la formazione dei relativi atti dell’Unione europea.

Inoltre alle Regioni non è stata riconosciuta, neppure per il tramite della Conferenza permanente, la possibilità di influire direttamente ed in maniera incisiva sull’elaborazione della formazione della posizione italiana, essendo l’intervento delle stesse circoscritto alla possibilità di esprimere osservazioni non vincolanti per lo Stato.

Al di là dei suddetti limiti alle labili aperture verso forme di coinvolgimento delle regioni nella fase ascendente, si evidenzia un dato che costituirà il principale ostacolo all’emersione delle istanze regionali nella fase “ascendente”, rappresentato dall’esigenza dello Stato di preservare il proprio compito di assicurare la rappresentanza unitaria il coordinamento e la garanzia del rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea.

Tale esigenza emerge a chiare lettere dall’art. 2 del d.lgs n. 112 del 1998 ove si afferma che “ lo Stato assicura la rappresentanza unitaria nelle sedi internazionali e il

coordinamento dei rapporti con l’Unione europea…spettano allo Stato i compiti preordinati ad assicurare l’esecuzione a livello nazionale degli obblighi derivanti dal Trattato sull’Unione europea e dagli accordi internazionali”.

Ancor più tenui e scarsamente significativi sono i simbolici strumenti di partecipazione alla fase ascendente “diretta”, a lungo radicalmente negati, che meritano solo un brevissimo accenno.

Sul tale piano si rammenta la L. n. 56/1996 che prevede innanzi tutto la possibilità per le regioni di istituire uffici propri nella sede delle istituzioni comunitarie; in secondo luogo l’apertura della Rappresentanza permanente italiana a funzionari regionali designati dalla Conferenza permanente Stato-Regioni; infine, la possibilità di indicare, nel corso della sessione comunitaria, le questioni di particolare interesse delle amministrazioni regionali che debbano essere prese in considerazione nella formazione che il Ministro degli affari esteri impartisce alla nostra Rappresentanza permanente.

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