«I vecchi subiscon l’ingiuria degli anni, non sanno distinguere il vero dai sogni, i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero…»
(Il vecchio ed il bambino, Francesco Guccini, Radici, 1972).
I
vecchi non sanno… non sanno ma “sono”: sono persone,sono fragili, sono testardi, sono memoria e ricordo, sono parte viva di un tessuto familiare e sociale, sono…
«Andrà tutto bene», «Restate a casa», «Ce la faremo»: questi alcuni slogan, ripetuti come mantra, durante il mese di marzo 2020 per rassicurare una società alle prese con l’epidemia causata da un virus infinitamente piccolo, pericoloso, mortale e contro il quale niente possono le armi micidiali usate in tante guerre, invasioni, massacri.
Ebbene, queste due realtà apparentemente slegate sono diventate nello stesso storico periodo così unite e quasi indistinte, mostran-
do interamente i limiti delle possibilità di cura e reale assistenza agli anziani.
Negli ultimi decenni è diventato comune il passaggio in casa di riposo o struttura residen- ziale per anziani con fragilità e severa disauto-
Francesco Guidi
è direttore medico presso l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (INRCA) di Ancona. di Francesco Guidi
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nomia, in quanto non più possibile una assistenza domiciliare in case sempre più vuote con famiglie mononucleari e bisogni di cura sempre più impegnativi.
Questo sistema ha retto fino a poco tempo fa: il percorso era co- stituito dall’arrivo dell’anziano al pronto soccorso, dal ricovero in un reparto per acuti, dal successivo passaggio in un reparto di post-acuzie e, a causa di un peggioramento delle condizioni gene- rali dovuto non alla comparsa di nuove patologie ma alla riduzio- ne del grado di autonomia, al ricovero, spesso senza fine, in una struttura residenziale.
Le case di riposo cinquant’anni fa erano strutture ove l’anziano veniva accolto in ancor buone condizioni generali e relazionali, corredate di socialità ed integrazione con l’intera comunità, so- prattutto nei centri più piccoli.
Negli ultimi vent’anni sono nate residenze per anziani aventi ne- cessità di cure non solo mediche, meno capaci di relazione e spes- so allettati completamente: sono ultimamente nati in tali struttu- re nuovi e virtuosi esempi di attività relazionali, di presenza, di umanizzazione anche davanti alla fragilità estrema.
Dalla fine di febbraio 2020 tutto questo è stato spazzato via: l’e- mergenza dilagante dell’epidemia da coronavirus ha, come uno
tsunami, spezzato questo sistema.
Gli anziani ricoverati in reparti di post-acuzie o in strutture residen- ziali hanno subito un terremoto relazionale ed affettivo non previ- sto né prevedibile, dovuto al blocco totale degli accessi di esterni, hanno perso i contatti con ogni forma di socialità diventando, inol- tre, possibili veicoli di propagazione del virus, proprio per la loro estrema fragilità, con rischio elevato di contrarlo e trasmetterlo. Anche il personale sanitario ed assistenziale ha mutato atteggia- mento nei confronti di coloro che fino a poco tempo prima erano comunque “persone” da accudire, da ascoltare, ospiti quasi fami- liari, fonti di ricordi ed aneddoti.
Ci si è dovuti dotare di particolari protezioni, di mascherine, di cuffie, di divise più rigide perché il solo avvicinarsi ad ogni degen- te costituiva una manovra altamente pericolosa.
Tutto questo ha reso davvero separati due individui che fino a poco tempo prima erano in intimo contatto, hanno reso evane- scente una presenza amica.
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In alcuni casi si sono usati cartelli per comunicare con i degenti, per continuare a costruire una relazione umana tanto importante quanto le terapie, l’igiene personale, la somministrazione dei pa- sti, ma il suono delle parole non può essere sostituito da uno scrit- to, soprattutto in una condizione di alta fragilità, perché la voce dice di noi, di me.
Pertanto all’interno delle stanze di degenza è sceso il silenzio, è aumentata la distanza, si è creato il distacco.
Non solo i familiari sono stati invitati a non accedere alle degenze, ma anche le varie assistenti domiciliari o private, nonché l’assenza di visita da parte di assistenti religiosi che, spesso, costituivano il veicolo privilegiato di collegamento tra struttura e mondo ester- no, come, pure, il passaggio del giornalaio, con il suo carico di immagini e titoli a nove colonne.
Si è vicariato il tutto con l’utilizzo delle nuove tecnologie, con i
social, ma pochi anziani hanno potuto utilizzare tali strumenti: in
taluni casi è stata inviata ai familiari una loro immagine, scattata da uno smartphone, a rassicurarli, ma il dialogo, la presenza reale, il loro tocco prezioso sono stati cancellati.
Nessuno conoscerà l’intimo vissuto di moltissimi anziani deceduti in questo periodo nei vari reparti o nelle strutture residenziali: nel solo comune di Ancona, nel primo trimestre 2020, si sono registra- ti trentasette decessi in più rispetto al primo trimestre 2019.
Non siamo ancora in possesso della raccolta di loro scritti, di loro documenti, di testi, ma sappiamo, per conoscenza diretta dal per- sonale che li ha assistiti, del loro desiderio di ricevere attenzioni, di poter comunicare con i familiari, di parlare con loro, di poterli vedere.
Oltre i sacchi contenenti i loro corpi nudi, oltre le colonne di mezzi militari che trasferiscono i cadaveri in strutture adeguate per la cremazione, oltre l’immenso numero di decessi in aumento, resta un grande, infinito silenzio su tutto questo che dovrà diven- tare voce, lacrima, sorriso e, soprattutto, memoria. Un silenzio che in tempi di esposizione di morte in diretta, in televisione o sui
social, è diventato un grido muto e infinito di dolore e vita.
Questo il significato vero di questo immenso silenzio di cui ora siamo custodi.
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di Enzo Romeo
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Enzo Romeo
è giornalista vaticanista del Tg2.