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La ripartizione delle competenze comunitarie tra Corte di Giustizia, giudici comun

CAPITOLO II Il dialogo tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia dell’Unione

3. La ripartizione delle competenze comunitarie tra Corte di Giustizia, giudici comun

La costruzione giuridica della Corte costituzionale, incentrata su di una (asseritamente)

precisa e ben delineata ripartizione di competenze tra ordinamenti giuridici, alimentò di

riflesso anche una rigida divisione del lavoro comunitario tra i vari attori giurisdizionali,

sulla base del criterio di riparto costituito dalla nozione di diritto comunitario ad effetto

diretto o, comunque direttamente applicabile.

Solo successivamente a questa giurisprudenza sui “limiti” (o “controlimiti”) alle ragioni del

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diritto comunitario troviamo l’affermazione dell’esistenza di “principi supremi” che non possono essere sovvertiti o modificati neanche da leggi di rango costituzionale o di revisione costituzionale. Oggi è noto che la Corte costituzionale ritiene che, oltre al limite esplicito alla revisione costituzionale di cui all’art. 139 Cost. (“la forma repubblicana”) vi siano degli altri limiti, impliciti nel testo costituzionale, ed espressivi di “principi che appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (così il diritto giurisprudenziale nella sentenza n. 1146 del 1988). Questa “valenza interna” di tali “principi supremi” viene ad affiancarsi alla loro “valenza esterna”: essi costituiscono limite al mutamento e alla revisione costituzionale che promana dall’ “interno” dell’ordinamento costituzionale e, altresì, dall’ “esterno”, dall’ordinamento comunitario. Sulla duplice valenza dei “principi supremi”, vedi: P. Faraguna, Ai confini della Costituzione. Principi supremi e identità costituzionale, Milano, Franco Angeli, 2015; R. Calvano, “Giurisprudenza costituzionale e principi fondamentali. Alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni”,in S. Staiano (a cura di), Atti del convegno annuale

Conformemente alle dottrine elaborate dalla giurisprudenza costituente della Corte di

Giustizia e adattate all’ordinamento interno dalla Corte costituzionale, il giudice

comune nazionale, nell’esercizio delle proprie funzioni, dà immediata applicazione alla

norma comunitaria che sia direttamente applicabile nell’ordinamento degli Stati

Membri, anche ove sussista una norma nazionale contrastante, di rango legislativo

ovvero (in alcuni casi) costituzionale. In queste ipotesi, dunque, trova pieno sfogo la

dottrina della preminenza comunitaria: nel caso di un eventuale conflitto (in caso di

incompatibilità) tra norma europea ad effetto diretto e norma interna, il giudice darà

piena ed immediata attuazione alla norma comunitaria, non applicando, in tutto o in

parte, la norma interna contrastante, che esorbita dalla propria competenza.

Precondizione essenziale per la tenuta di questo sistema è, evidentemente,

l’individuazione di quali norme comunitarie possano dirsi dotate di effetto diretto

nell’ordinamento . In queste ipotesi, irrinunciabile è il contributo della Corte di

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Giustizia, fornito in occasione dei rinvii pregiudiziali d’interpretazione: è in tale sede

che viene individuato il significato delle disposizioni comunitarie, “determinando

ampiezza e contenuto delle possibilità applicative” e, dunque, anche la decisione circa

l’attribuzione dell’effetto diretto .

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È bene evidenziare che, per la Corte costituzionale, una questione di “compatibilità

comunitaria” della norma interna assume “priorità logica e giuridica” rispetto ad

eventuali incidenti di costituzionalità: la soluzione di detta questione, infatti, potendo

avere come esito la non-applicazione del diritto interno, incide sulla stessa operatività

della norma e, dunque, si riflette sul requisito della (necessaria) rilevanza di un

eventuale quesito di legittimità costituzionale . Pertanto, il giudice a quo, prima di

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Sentenze della Corte costituzionale n. 170 del 1984 (disapplicazione della normativa interna

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in contrasto coi Regolamenti); n. 113 del 1985 e n. 389 del 1989 (diretta applicabilità delle sentenze della Corte di Giustizia); sentenze n. 64 del 1990 e n. 168 del 1991 (diretta applicabilità delle direttive dettagliate).

Sentenza della Corte di Giustizia del 6 ottobre 1982, Srl CILFIT, C-283/81. EU:C:1982:335.

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Ordinanza della Corte costituzionale n. 454 del 2006 (redattore G. Tesauro), in cui la Corte

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ritiene che il denunciato contrasto tra norme ordinarie e gli articoli 3 e 41 Costituzione nasconda in realtà una contrasto con norme comunitarie provviste di effetto diretto, quali gli artt. 43 e 49 del Trattato. Poiché le censure si risolvono nel dubbio di compatibilità comunitaria delle norme impugnate, la questione viene dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, dato che non è adeguatamente motivata (e certa) l’applicabilità delle disposizioni di diritto interno nei giudizi a quibus.

poter adire la Corte costituzionale, deve preliminarmente esaminare eventuali profili di

contrasto con il diritto comunitario, richiedendo, se del caso, l’ausilio interpretativo

della Corte di Giustizia, pena l’inammissibilità delle questioni di costituzionalità per

difetto di rilevanza.

Questa posizione è stata fatta propria dalla Corte italiana in riferimento ai casi di

questioni cosiddette “doppiamente pregiudiziali”, cioè quelle ipotesi in cui una norma

legislativa interna appaia prima facie contrastare sia con una norma comunitaria sia con

una norma costituzionale. Nel caso di “doppia pregiudiziale”, deve essere previamente

effettuato un rinvio alla Corte di Giustizia, sulla cui base il giudice comune deciderà la

questione di compatibilità comunitaria; una volta escluso un simile contrasto, data la

perdurante applicabilità del diritto interno, sarà possibile provocare il giudizio di

costituzionalità.

Per inciso, questo assetto ha dato impulso, nell’ordinamento nazionale, ad una forma di

sindacato di comunitarietà delle leggi, per il tramite dei giudici comuni e della Corte di

Giustizia .

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In ogni caso, il giudice nazionale, oltre a provocare l’intervento della Corte di Giustizia

qualora gli si prospetti una questione di interpretazione del diritto comunitario, dovrà

anche fare riferimento a tutte quelle sentenze, rese su domanda pregiudiziale dei giudici

di altri Stati Membri, particolarmente quelle in cui vengono individuate le norme ad

effetto diretto . Del pari, è necessario che il giudice tenga conto anche di tutte le

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P. Passaglia (a cura di), Corti costituzionali e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia,

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reperibile in www.cortecostituzionale.it, 2010, in cui: “Tuttavia, il modo in cui le giurisdizioni nazionali hanno, in concreto, utilizzato (e continuano ad utilizzare) lo strumento del rinvio e le risposte che il giudice comunitario ha effettivamente scelto di dare a tali quesiti, in una parola l’uso reale del meccanismo pregiudiziale da parte dei due soggetti coinvolti nel dialogo, svelano una ulteriore finalità dell’istituto. È, infatti, evidente ed ormai pacifico che […] spesso il supremo giudice comunitario opera, di fatto, quello che in dottrina è stato definito come una ‘forma di sindacato occulto sulle legislazioni nazionali’, pronunciandosi più o meno direttamente sulla compatibilità tra una certa disciplina nazionale - in particolare, quella vigente nel Paese membro cui appartiene il giudice che ha sollevato la questione- e quella comunitaria di cui ha contestualmente chiarito il senso e la portata”.

Sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 1985, par. 4-5 : “… discende dalla

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sistemazione che la sentenza n. 170 del 1984 ha dato ai rapporti tra diritto comunitario e legge nazionale [che] la normativa comunitaria entra e permane in vigore, nel nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato; e ciò tutte le volte che essa soddisfa il requisito dell'immediata applicabilità. Questo principio, […] vale non soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. mediante regolamento, ma anche per le statuizioni risultanti, come nella specie, dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia”.

“precisazioni o integrazioni del contenuto normativo” individuate dalla Corte di

Giustizia relativamente alle norme ad effetto diretto . La Corte costituzionale, dunque,

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riconosce espressamente la rilevanza del diritto giurisprudenziale prodotto dalla Corte

di Giustizia e nell’ordinamento interno a prevalere è l’interpretazione-prodotto del

giudice europeo: trattati, regolamenti, direttive e decisioni così come interpretati dalla

Corte di Giustizia, interprete di ultima istanza del diritto comunitario.

Evidentemente, i soggetti che hanno il ruolo principale nella soluzione delle questioni di

interpretazione ed applicazione del diritto comunitario sono la Corte di Giustizia e i

giudici comuni; mentre i compiti che, in tale ambito, la Corte Costituzionale ha

riservato a se stessa sembrano prima facie piuttosto circoscritti.

Sentenza della Corte Costituzionale n. 389 del 1989, par. 3: “Poiché ai sensi dell'art. 164 del

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Trattato spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica

e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo

diritto, ne precisa autoritariamente (sic) il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative. Quando questo

principio viene riferito a una norma comunitaria avente "effetti diretti" […] non v'è dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate”. Vedi anche sentenza della Corte n. 284 del 2007 (“Le statuizioni della Corte di

Giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni”).

A ciò si aggiunga che la Corte costituzionale, rifiutando di considerarsi “giurisdizione”

ai limitati fini del procedimento pregiudiziale delineato dall’ (ex) art. 177 TCEE , ha

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ricusato in radice la possibilità di avvalersi del meccanismo di rinvio pregiudiziale: tesi

che non costituiva, del resto, un’eccentricità dell’ordinamento italiano, bensì elemento

che, con alcune eccezioni, accomunava quegli Stati membri caratterizzati da un organo

accentrato di giustizia costituzionale .

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In ogni caso, occorre evidenziare che tale posizione della Corte costituzionale,

qualunque ne fossero le ragioni alla base , produceva come fisiologica conseguenza

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sia l’(auto)esclusione dalle ‘questioni comunitarie’ dell’organo di giustizia

costituzionale, sia la progressiva emancipazione dei giudici comuni, chiamati in prima

Ordinanza della Corte costituzionale n. 536 del 1995, in cui: “il giudice comunitario non può

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essere adito - come pur ipotizzato in una precedente pronuncia [sentenza n. 168 del 1991]-, dalla Corte costituzionale, la quale ‘esercita essenzialmente una funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni’ […] pertanto nella Corte costituzionale non è ravvisabile quella ‘giurisdizione nazionale’ alla quale fa riferimento l'art. 177 del trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, poiché la Corte non può ‘essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano, tante sono, e profonde, le differenze tra il compito affidato alla prima, senza precedenti nell'ordinamento italiano, e quelli ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali’”. Alcuni autori hanno giudicato incoerente questa posizione, ricordando come la Corte costituzionale ammetta la possibilità di sollevare questioni di costituzionalità davanti a se stessa, nel corso di giudizi costituzionali in corso di svolgimento, dunque considerandosi “giudice a quo” (sentenze nn. 22/1960; 297 e 225 del 1995). Sul punto: O. Pollicino, “The Italian Constitutional Court and the European Court of Justice: a Progressive Overlapping between Supranational and the Domestic Dimensions” in M. Claes, M. de Visser, P. Popelier, C. Van de Heyning (eds), Constitutional Conversation in

Europe. Actors, Topics and Procedures, Cambridge, Intersentia, 2012; O. Pollicino, “From

Partial to Full Dialogue with Luxembourg: The Last Cooperative Step of the Italian Constitutional Court”, European Constitutional Law Review, vol. 10, 2014 pagg. 143 e ss.; T. Groppi, “La Corte costituzionale come giudice del rinvio ai sensi dell’art. 177 del trattato CE”, in P. Ciarlo, G. Pitruzzella, R. Tarchi (a cura di), Giudici e giurisdizioni nella giurisprudenza

della Corte costituzionale, Torino Giappichelli 1997.

La Corte costituzionale austriaca (Verfassungsgerichtshof) non ha mai escluso, in linea di

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principio, la possibilità di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e, a partire dalla fine del secondo millennio, ha concretamente fruito di tale possibilità (ordinanza di rinvio del 10 marzo 1999, B 2251/97, B 2594/97). La Corte costituzionale del Belgio (attuale Cour

constitutionnelle, in precedenza Cour d’arbitrage) ha effettuato un primo rinvio alla Corte di

giustizia delle Comunità europee nel 1997 (sentenza n. 6/97 del 19 febbraio 1997). La Corte costituzionale della Repubblica di Lituania (Lietuvos Respublikos Konstitucinis Teismas) ha effettuato un rinvio pregiudiziale già nel 2007, appena dopo 3 anni dall’ingresso nell’Unione europea (sentenza 8 maggio 2007).

Normalmente indicate nella necessità di conservare la propria autorità: superiorem non

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persona a gestire tali questioni raccordandosi alla Corte delle ex Comunità europee .

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Questo rifiuto della Corte costituzionale italiana (e delle altre Corti costituzionali o

supreme) ha condotto parte della dottrina a distinguere un dialogo diretto, tramite

l’utilizzo del rinvio pregiudiziale, tra giudice comune e Corte di Giustizia ed un dialogo

indiretto o, secondo una più raffinata variante, nascosto tra Corte di Giustizia e Corte

costituzionale .

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Come che sia, specularmente a quanto sopra indicato, la competenza in materia

comunitaria della Corte Costituzionale presuppone l’assenza nell’ordinamento interno

di una norma comunitaria ad effetto diretto.

A fronte di una norma comunitaria non direttamente applicabile, infatti, si arresta il

potere del giudice comune di darle applicazione in giudizio, anche a preferenza di una

Tale posizione di ‘isolamento’ era stata a più riprese denunciata dalla dottrina più sensibile

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all’istanze europeiste: M. Cartabia, “La Carta di Nizza, i suoi giudici e l’isolamento della Corte costituzionale italiana”, in A. Pizzorusso, R. Romboli, A. Ruggeri, A. Saitta, G. Silvestri (a cura di), Riflessi della Carta europea dei diritti sulla giustizia e la giurisprudenza costituzionale:

Italia e Spagna a confronto, Milano, 2003, pagg. 201 e ss; R. Calvano, “La Corte costituzionale

e il nuovo orizzonte della tutela multilivello dei diritti fondamentali alla luce della riflessione di S. Panunzio” in Archivio AIC 2006 (“anche nella riflessione di Panunzio si evidenzia l’atteggiamento di emarginazione, quasi di autoesclusione della Corte rispetto ad alcune problematiche legate al processo di integrazione, in particolare con il suo rifiuto di utilizzare lo strumento delle questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 234 Tce”; F. Sorrentino, “Il diritto europeo nella giurisprudenza della Corte costituzionale: problemi e prospettive”, relazione al Convegno per i 50 anni della Corte costituzionale “Giurisprudenza costituzionale ed evoluzione dell’ordinamento italiano”, Roma, Accademia dei Lincei, 24 maggio 2006;M. Cartabia, “‘Taking Dialogue Seriously’ – The Renewed Need for a Judicial Dialogue at the Time of Constitutional Activism in the European Union”, in Jean Monnet Working Paper 12/07, pagg. 22 e ss.

G. Martinico, F. Fontanelli, “Alla ricerca della coerenza: le tecniche del ‘dialogo nascosto’

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fra i giudici nell’ordinamento costituzionale multilivello”, in Rivista Trimestrale di Diritto

Pubblico, 2/2008 pagg. 351 e ss. In particolare: “Vale la pena, però, di accennare ad un altro

dato: non è nemmeno vero che le Corti costituzionali nazionali, eludendo il preliminary ruling, abbiano in toto rifiutato di dialogare con la Corte di Giustizia. Negli anni, infatti, sono state concepite delle forme di `compensazione' giudiziale, con cui le Corti costituzionali nazionali hanno cercato di rimediare al non perfetto allineamento delle proprie posizioni rispetto a quelle della Corte di Giustizia, creando un contesto di accomodante instabilità multilivello capace di accogliere e moderare i possibili contrasti”. Lo stesso ordine di idee è fatto proprio da: M. Gonzalez Pascual, “Mutual Recognition and Fundamental Constitutional Rights. The First Preliminary Reference of the Spanish Constitutional Court”, in M. Claes, M. de Visser, P. Popelier, C. Van de Heyning (eds), op. cit., pag. 161 (“Nevertheless, the Constitutional Court has shaped some informal means of communication with the CJEU other than by means of the preliminary reference procedures”); L. Arroyo-Jiménez, “Constitutional Empathy and Judicial Dialogue in the European Union” in European Public Law vol. 24, 2018, pagg. 57 e ss.; S. Civitarese Matteucci, “Breaking the Isolation? Italian Perspectives on the Dialogue Between the European Court of Justice and Constitutional Courts” in European Public Law vol. 22 2016 pagg. 689 e ss.; G. Tesauro, “Costituzione e norme esterne” in Il diritto dell’Unione europea 2/2009, pag.195 e ss. (“dialogo a distanza tra Corti costituzionali, in particolare italiana e tedesca, e Corte di Giustizia”).

norma interna contrastante. Ferma restando la possibilità, per tale giudice, di dare

un’interpretazione adeguatrice della disposizione interna al diritto comunitario non

direttamente applicabile , i conflitti reputati non sanabili tramite il canale

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interpretativo vengono affidati al vaglio del giudice delle leggi. La Corte è, quindi,

competente a giudicare il contrasto tra disposizioni di legge e diritto europeo non

direttamente applicabile, mercé il meccanismo della norma interposta e l’art. 11 e, a

seguito della riforma costituzionale del 2001, anche l’art. 117 Costituzione .

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In secondo luogo, la Corte costituzionale si è riservata una specifica competenza

comunitaria nell’ambito dei giudizi di costituzionalità della legge in via d’azione .

175

Nel caso dell’(ormai abolito) ricorso preventivo dello Stato avverso le delibere

legislative regionali era, infatti, stato affermato che, qualora una questione di

compatibilità comunitaria fosse sollevata in via d’azione, mancando un giudice a quo,

sarebbe stato compito della Corte decidere in merito . Per inciso, tale orientamento è

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Sentenza della Corte di giustizia (Sesta Sezione), Marleasing del 13 novembre 1990,

173

C-106/89, EU:C:1990:395.

Sulle “norme interposte” nel giudizio di costituzionalità, vedi Capitolo III. Sentenza della

174

Corte costituzionale n. 28 del 2010: “La prevalente giurisprudenza di legittimità nega, infatti, il carattere “autoapplicativo” delle direttive de quibus, con la conseguenza che le disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con le stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice. […] L’impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell’art. 11 ed oggi anche dell’art. 117, primo comma, Costituzione”.

D. Paris, Il parametro negletto: Diritto dell'Unione europea e giudizio in via principale,

175

Torino Giappichelli, 2018.

Sentenza della Corte Costituzionale n. 384 del 1994, par. 2: “[…] si tratta di verificare, nel

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presente giudizio, se il perfezionamento del procedimento legislativo regionale non determini l'introduzione, nel nostro ordinamento, di normativa obiettivamente contraddittoria con la preesistente normativa comunitaria. […] Ora, una cosa è risolvere il problema del contrasto tra la norma comunitaria, direttamente applicabile, e quella interna vigente che risulti incompatibile, demandandone la soluzione ai giudici di merito; altra - e ben diversa - è la verifica di legittimità costituzionale delle deliberazioni legislative dei consigli regionali […]. […] trattandosi di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale, non vi è un giudice che, statuendo sul rapporto, dichiari la disapplicazione, e il destinatario delle prescrizioni della Corte (sulla necessaria applicazione del regolamento comunitario) sarebbe stata l'amministrazione regionale; nello stesso tempo, però, la normativa impugnata sarebbe stata promulgata, pur se ritenuta non applicabile, e dunque immessa nell'ordinamento giuridico dello Stato. Con evidente lesione del principio della certezza e della chiarezza normativa, ed elusione degli obblighi che incombono sullo Stato italiano, in particolare quello che attiene alla conformità dell'ordinamento interno a quello comunitario. È dunque da ammettere l'impugnativa promossa dal Governo avverso la legge regionale, non ancora entrata in vigore, che si sospetti in contrasto con la normativa comunitaria”.

stato tenuto fermo anche a seguito della riforma costituzionale del Titolo V della

Costituzione.

Venendo, infine, all’ultima competenza comunitaria, la Corte Costituzionale ha

rivendicato per sé il potere di dire l’ultima parola sulla partecipazione alla

organizzazione internazionale comunitaria, in un duplice senso: da una parte, essa

rivendica il potere di giudicare la costituzionalità della legge di esecuzione del Trattato

qualora “gli organi delle Comunità” violino i “principi fondamentali dell’ordinamento

costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana”; dall’altra, specularmente,

rivendica il potere di giudicare la costituzionalità delle cosiddette “leggi di rottura”, atti

legislativi interni che, vanificando le (auto)limitazioni di sovranità effettuate all’atto

della ratifica del Trattato CE, siano diretti ad impedire o pregiudicare la partecipazione

alla Comunità, determinando una lesione del nucleo essenziale dei principi del sistema

delle Comunità europee .

177

Per inciso, il sindacato sulle “leggi di rottura”, rispetto al quale scarseggiano già i

riferimenti nella giurisprudenza degli anni Ottanta, ha, perso di attualità anche a causa

del nuovo testo dell’art. 117 Costituzione, che espressamente introduce un vincolo di

conformità al diritto comunitario per la legislazione statale e regionale. Concretamente,

dunque, in relazione a quest’ultimo aspetto l’unico sindacato della Corte di una qualche

rilevanza è il giudizio sulla legge di esecuzione del Trattato in riferimento ai “principi

fondamentali dell’ordinamento costituzionale” e ai “diritti inalienabili della persona

umana”, secondo la già ricordata dottrina dei controlimiti.

La giurisprudenza costituzionale in tema di controlimiti è particolarmente scarna e, in

un certo senso, del tutto coerente con l’artificiosa costruzione giuridica dei rapporti tra

l’ordinamento comunitario e costituzionale.

Sentenza della Corte Costituzionale n. 170 del 1984, par. 7: “Questo Collegio ha […] già

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avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana, nell'ipotesi contemplata, sia pure come improbabile, […]. Nel presente giudizio cade opportuno un altro ordine di precisazioni. Vanno denunciate in questa sede quelle