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Una definizione abbastanza restrittiva ma che risponde all’approccio adottato dalle autorità di vigilanza identifica questa categoria di rischio come l‘eventualità “che le

perdite associate ad una singola posizione annullino, nell’arco di un breve intervallo temporale, i profitti realizzati nel corso di mesi.” 17

Più in generale il rischio di mercato si riferisce a variazioni del valore di mercato di uno strumento o di un portafoglio finanziario connesse a variazioni inattese dei prezzi azionari, dei tassi d’interesse e di cambio, e alla volatilità di queste variabili. Per questa ragione il rischio di mercato può essere suddiviso in sottocategorie in base al tipo di prezzo preso in considerazione:

- Rischio di cambio: l’incertezza relativa alla sensibilità delle posizioni assunte alle variazioni dei tassi di cambio (ad esempio nei casi di acquisti e vendite a pronti e a termine, di opzioni, future e swap su valute, di titoli azionari, obbligazionari e altre attività/passività denominati in valuta estera);

- Rischio di interesse: il valore di mercato delle posizioni assunte è sensibile all’andamento dei tassi di interesse (ad esempio nel caso di investimento in titoli obbligazionari);

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- Rischio azionario: il valore di mercato delle posizioni assunte è collegato all’andamento dei mercati azionari (tipicamente nel caso di titoli azionari);

- Rischio merci: il valore di mercato delle posizioni assunte è sensibile a variazioni del prezzo delle commodity (acquisti o vendite a pronti e a termine di merci, opzioni, future e swap su merci);

- Rischio di volatilità: quando la variazione della volatilità di una delle variabili sopra considerate influisce sul valore di mercato delle posizioni assunte

Nel corso degli ultimi venti anni il rischio di mercato ha assunto una rilevanza crescente con la diffusione del processo di cartolarizzazione che ha portato alla nascita di un mercato secondario anche per attività tipicamente illiquide (mutui, prestiti) e con la progressiva crescita del mercato degli strumenti finanziari derivati, il cui principale profilo di rischio consiste appunto nella variazione del loro valore di mercato.

La gestione del rischio di mercato avveniva inizialmente tramite un approccio di misurazione basato sui valori nominali delle singole esposizioni: un metodo semplice e dai costi ridotti e senza grosse esigenze di tipo informativo. La valutazione dell’esposizione al rischio e l’imposizione di limiti alle singole unità operative si basavano sul valore nominale delle posizioni. Tuttavia con la crescente diffusione dell’attività di trading tra le istituzioni finanziarie questo sistema di misurazione si è rivelato però inadeguato per via di tre problemi che lo caratterizzano. Primo, non è in grado di cogliere il diverso valore di mercato delle posizioni: due azioni con identico valore nominale ma diverso valore di mercato sono considerate equivalenti secondo l’approccio in questione. Secondo, con il metodo basato sui valori nominali è impossibile individuare il diverso grado di sensibilità del valore di mercato di posizioni differenti rispetto ad analoghe variazioni dei fattori di mercato. Terzo, questo approccio non prende in considerazione le condizioni di volatilità e di correlazione di prezzi e tassi.

Per i motivi sopra descritti la gestione del rischio di mercato ha virato verso misure di sensibilità delle singole posizioni quali la duration e basis point value per le obbligazioni, il beta per le azioni e i coefficienti delta, gamma, vega e rho per le opzioni. Sono stati così risolti i primi due problemi dell’approccio basato sul valore nominale ma il terzo è rimasto ancora irrisolto. Infatti le misure elencate sopra presentano ancora alcuni limiti:

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- Posizioni di natura diversa sono quantificate con coefficienti diversi e quindi è impossibile confrontare i rischi assunti in diverse aree dell’attività di negoziazione; - All’interno della stessa categoria di posizioni le misure di sensibilità non sono sempre

fra loro additive e quindi aggregabili;

- Come per l’approccio dei valori nominali, queste misure non considerano il diverso grado di volatilità e correlazione dei diversi fattori di mercato.

Per superare tutti questi limiti alcune istituzioni finanziarie hanno sviluppato dei modelli che consentissero di quantificare, confrontare e aggregare il rischio connesso a posizioni e portafogli differenti: sono i modelli del “valore a rischio” (VaR), del “capitale a rischio” (CaR) o degli “utili a rischio” (EaR.)

Per ciò che concerne i modelli VaR, essi forniscono una misura della massima perdita che una posizione o un portafoglio possono subire, dato un certo livello di confidenza, nel corso di un predeterminato orizzonte temporale. La misura del VaR si limita tuttavia a stabilire la probabilità che la perdita risulti effettivamente superiore allo stesso VaR: se l’evento si verifica, non ci dà alcuna informazione circa la dimensione di questo superamento. Nonostante questo, i modelli VaR sono tuttora utilizzati in quanto rispondono a tre esigenze fondamentali: permettono di confrontare le diverse alternative di impiego del capitale di rischio di una banca, di valutare la redditività del capitale allocato e consentono di prezzare in modo corretto le singole operazioni sulla base del relativo rischio. A fronte di una definizione comune del valore al rischio, esistono diversi metodi per effettuarne la misurazione. In questa sede ci soffermeremo brevemente sulle due principali categorie di modelli: quella dell’approccio varianze- covarianze e quella fondata su tecniche di simulazione.

I modelli che seguono l’approccio varianze- covarianze sono i più diffusi tra i sistemi di risk management: questo è in parte dovuto al successo di RiskMetrics, la banca dati di riferimento per numerose istituzioni finanziarie. Questo approccio è caratterizzato da due elementi principali: il primo, è la misurazione del rischio sulla base della sensibilità della posizione a variazioni dei fattori di mercato e della volatilità dei rendimenti dei fattori di mercato, nonché sulla base della correlazione fra gli stessi; il secondo, riguarda la determinazione del livello di confidenza desiderato: l’ipotesi di partenza è che i rendimenti dei fattori di mercato, del portafoglio o delle attività di riferimento seguano tutti una distribuzione di tipo normale.

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Alla seconda tipologia di approccio sono riconducibili tre principali metodi di misurazione: le simulazioni storiche, le simulazioni Monte Carlo e le prove di stress. Fondati anch’essi sulla definizione di rischio vista sopra, i modelli basati sull’approccio di simulazione si differenziano da quelli varianze-covarianze per due motivi.

Innanzitutto questi modelli sono basati su una logica detta di Full-valuation: la stima della variazione potenziale del valore di mercato di una singola posizione o di un portafoglio dovuta a variazioni dei fattori di mercato è ottenuta rivalutando, tramite appositi modelli di pricing, le stessa posizione o portafoglio alle nuove condizioni di mercato simulate. Questa logica, seppur più onerosa da attuare, fornisce una misura della perdita potenziale sicuramente più precisa dell’approccio visto in precedenza. La seconda differenza riguarda le modalità di determinazione dell’intervallo di confidenza desiderato: se nell’approccio varianze-covarianze il calcolo del VaR corrispondente all’intervallo era basato interamente sull’ipotesi di normalità della distribuzione dei rendimenti dei fattori di mercato, nel caso dell’approccio con tecniche di simulazione tale risultato è ottenuto invece “tagliando” la distribuzione effettiva dei profitti e delle perdite, generata dalla simulazione, in modo da isolare il percentile desiderato.