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C IL DE ROME SONT SAJE ET DE SAN APRENANT

C APITOLO SECONDO

2. C IL DE ROME SONT SAJE ET DE SAN APRENANT

Il mondo antico è dunque una fonte di conoscenza, da riportare in luce e da diffondere.

«Ne sont que .III. matieres a nul home antandant / De France, et de Bretagne er de Rome la grant». Così, alla fine del XII secolo, Jean Bodel nel prologo della sua Chanson des Saisnes definisce i tre argomenti principe della poesia del suo tempo.42

Questi tre generi vengono differenziati in base alla loro principale caratteristiche; così, mentre la materia «de France» delimita lo spazio della severa epica carolingia con le gesta dei paladini a difesa della Cristianità e « li conte de Bretaigne » così « vain et plaisant » seducono con l’atmosfera magica che avvolge gli amori dei protagonisti delle ambages pulcherrimae alla corte arturiana, la materia antica racchiusa nell’immagine di Roma è definita come « saje et de san aprenant ».

È dunque il sapere e la conoscenza che si ricava dall’antichità greco-romana che spinge gli autori del XII secolo a rievocare il mondo antico e la sua altissima civiltà. Rievocazione con cui clercs si confrontano cimentandosi in una precocissima prova di mise en roman.

Di questo si mostrano fortemente consapevoli gli autori dei nostri romanzi che esplicitamente dichiarano la loro adesione a tale progetto di translatio studii. Come sottolinea Francine Mora « une des spécifités des romans d’antiquité […] est la fierté du savoir détenu et la volonté de le transmettre ».43 Con queste parole si apre infatti il prologo del Roman de Thèbes:

Qui sage est nel deit celer, mais pur ceo deit son sen monstrer que, quant serra del siecle alez, en seit puis toz jours remenbrez. Si danz Homers et danz Platons et Virgiles et Citherons

42 J

EAN BODEL, Chanson des Saisnes, publiée par F. Michel, Paris, Techener, 1839, vv. 1-11 « Qui d’oïr et d’entendre a loisir et talent / face pais, si escout bone chançon vaillant / don le livre d’estoire sont tesmoing et garant. / Jà nuls vilains jugleres de ceste ne se vant, / qar il n’en sauroit dire ne les vers ne le chant. / Ne sont que .III. matieres a nul home antandant : / de France et de Bretaigne et de Rome la grant ; / et de ces .III. matieres n’i a nule samblant. / Li conte de Bretaigne sont si vain et plaisant ; / cil de Rome sont saje et de san aprenant ; / cil de France de voir chascun jor apparent » [ Chi di ascoltare e di intendere ha piacere e desiderio / faccia silenzio, così da ascoltare un buon racconto / di cui i libri di storia sono testimoni e garanti. / Nessun volgare giullare si vanti di questa storia / poiché non sarebbe in grado di raccontarla. / Non ci sono che tre argomenti che ci si pongono innanzi: / la materia di Francia, di Bretagna e della grande Roma; / e queste tre materie sono tra loro diversissime. / I racconti di Bretagna sono assai leggeri e piacevoli; / quelli di Roma sono ricchi di sapere; / quelli di Francia appaiono sempre improntati alla verità ].

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lor sapience celasant, ja n’en fust d’els parlé avant. Pour ce ne voil mon sen taisir, ma sapience retenir,

ainz me delite a conter chose digne de remenbrer.44

[ Chi è sapiente non lo deve tenere nascosto / anzi deve mostrare la sua saggezza affinché / quando se ne sarà andato dal mondo / sempre sia ricordato. / Se Omero e Platone, / Virgilio e Cicerone / avessero tenuto nascosto il loro sapere, / non se ne sarebbe più parlato. / Per questo non voglio tacere la mia saggezza / e tenere per me la mia sapienza, / al contrario mi fa piacere raccontare / qualcosa che è degno di essere ricordato ]

L’anonimo autore del romanzo è consapevole della «sapience» che ha infuso nel suo scritto e che accumuna la sua opera a quella degli autori antichi da cui trae linfa. Significativo è questo parallelismo: il roman in volgare può essere accostato ai testi fondanti della classicità e l’autore non esita ad accostarsi ai saggi antichi condividendo con questi ultimi un « senz » che è doveroso diffondere. Traducendo e adattando il livre: il testo latino fonte del sapere, i clercs ne trasferiscono così l’auctoritas alla propria opera di cui sottolineano pertanto il valore. Gli autori di questi primi romanzi si impegnano dunque nell’operazione ‘di frontiera’ volta a trasmettere il patrimonio di conoscenze esclusivo appannaggio della cultura che si esprimeva in latino al nuovo pubblico laico costituito dai lettori dei testi cortesi ( « clerc ou chevalier » ).

Questo intento per così dire ‘pedagogico’ che anima il prologo si condensa addirittura in un vero e proprio imperativo morale nel verso di apertura: « Qui sage est nel doit celer »; un topos che diventerà « la marque distintive des prologues des romans d’antiquité ».45 Questo motivo è mutuato dalla tradizione antica dove, come dimostrato da Curtius, appare già nella con una certa frequenza. L’idea che « posséder le savoir oblige à le transmettre » si trova già in Orazio, in Seneca e nei Disticha Catonis: opera di carattere gnomico largamente diffusa nel Medio Evo, e si trova allo stesso modo in numerosi passi della Bibbia come l’Ecclesiaste, i Proverbi, e il Libro della Sapienza. Ma la sentenza si rivela particolarmente adatta al progetto dei nostri clercs impegnati nell’adattamento delle opere antiche e ne diviene quasi la ‘bandiera’. Appaiono numerosi gli elementi in comune che il prologo del Roman de Thèbes intrattiene con quello del Roman de Troie: primo tra tutti, l’elemento della ‘doverosità’ della

44 Roman de Thèbes (ed. Francine Mora-Lebrun) vv. 1-12.. 45

diffusione dell’opera letteraria; il dovere e l’esigenza della divulgazione che viene qui notevolmente ampliato:

Salemons nos enseigne e dit,46 e sil list om en son escrit, que nus ne deit son sen celer; ainz le deit om si demonstrer que l’om i ait pro e honor, qu’ensi firent li ancessor. Se cil qui troverent les parz e les granz livres des set arz, des philosophes les traitiez, don toz li monz est enseigniez, se fussent teü, veirement vesquist li siegles folement: come bestes eüssons vie; que fust saveirs ne que folie ne seüssons sol esgarder, ne l’un de l’autre desevrer. Remembré seront a toz tens e coneü par lor granz sens, quar scïence que est teüe est tost obliëe e perdue. Qui set e n’enseigne o ne dit, ne puet muër ne s’entroblit; e scïence qu’est bien oïe, germe, florist e frutefie. Qui veut saveir e qui entent, sachez, de mieuz l’en est sovent. De bien ne puet nus trop oïr ne trop saveir ne retenir; ne nus ne se deit atargier de bien faire ne d’enseigner; e qui plus set, e plus deit faire; de ce ne se deit nus retraire. E por ço me vueil travaillier en un estoire comencier, que de latin, ou jo la truis,

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se j’ai le sen e se je puis, la voudrai en romanz metre que cil qui n’entendent la letre se puissent deduire el romanz47

[ Salomone ci insegna e dice, /e si può leggere nella sua opera, / che nessuno deve tener nascosto il suo sapere; / al contrario lo deve diffondere / così che ne riceva profitto e onore: / così fecero gli Antichi. / Se coloro che crearono le divisioni del sapere / e i grandi libri delle sette arti, / i testi di filosofia e i trattati / da cui ognuno trae insegnamento, / avessero taciuto, veramente / il mondo vivrebbe nell’ignoranza: / vivremmo come bestie; / non si saprebbe riconoscere / il sapere o l’ignoranza / e distinguere l’uno dall’altra. / Questi uomini saranno ricordati per sempre / e conosciuti per la loro grande sapienza. / Il sapere che è tenuto nascosto / ben presto è dimenticato e perduto: / chi sa e non insegna o non trasmette la sua conoscenza / non può evitare di dimenticarla; / mentre un sapere che è stato ben recepito / germoglia, fiorisce e dà frutti. / Chi vuol sapere e chi intende, / sappiatelo, diviene spesso migliore. / Le cose buone che si apprendono non sono mai troppe, / non è mai troppo il sapere che si acquisisce e si trattiene, / nessuno deve essere mostrare indugio / nel fare il bene o a nell’insegnarlo; / e chi più sa più deve fare: /nessuno si deve sottrarre a ciò. / E per questo mi voglio dar da fare, / e iniziare a scrivere una storia: / dal latino, lingua in cui la trovo scritta, / se ne ho le capacità e le possibilità, / la vorrei tradurre in volgare, / così che coloro che non comprendono il latino / possano trarre diletto dalla lettura del romanzo ( si può tradurre anche: possano trarre diletto anche per mezzo di un’opera in volgare ) ]

Come in Thèbes si ritrova l’imperativo etico che ‘obbliga’ chi detiene il sapere a condividerlo (« … nus ne deit son sens celer; / ainz le deit hon […] demonstrer » ; « ne nus ne se deit atargier / de bien faire ne d’enseigner: / e qui plus set, e plus deit faire / de ce ne se deit nus retraire »). È il medesimo precetto ‘pedagogico’ sulla diffusione della conoscenza che viene qui posto addirittura sotto l’egida di Salomone che se ne fa garante attraverso la sua autorità di saggio per eccellenza cui si attribuivano nel Medio Evo i Proverbi e l’Ecclesiaste.48 Costituisce, infatti, dovere inderogabile dell’intellettuale il non-tacere ciò che è degno di essere ricordato ( si evoca quasi un ruolo di ‘traghettatore di conoscenza’ ), Questo principio, d’altro canto, è contraddistinto anche da una componente essenzialmente ‘sacrale’: è il già citato Salomone a ‘insegnare’ che non bisogna celare ciò che non è opportuno che venga celato. Ma a quale scopo? Quali sarebbero i fini di questo non-tacere? L’autore si dimostra chiaro nel fornire la risposta: « preu e honor »; letteralmente vantaggio ( o profitto ) e onore. Il

47 Si noti come la volutà ambiguità usata nell’uso del termine « romanz », che potrebbe indicare tanto la forma

lettaria del romanzo, quanto, più genericamente una qualsiasi opera scritta in volgare e la lingua volgare stessa, suggerisca l’idea che anche la lingua estranea alle litterae propriamente dette, possa produrre opere in grado di fornire insegnamenti e conoscenze al pari di quelle scritte in latino, in una rivendicazione della dignità della neonata letteratura oitanica.

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supremo ‘vantaggio’ risiede, dunque, nell’essere ricordato; e nell’ottenere onore dal ricordo stesso. Dunque l’altro richiamo al prologo di Thèbes, l’esortazione a demostrer le sens viene qui collegata al motivo, per così dire, “umanistico” della gloria terrena: « preu e honor » come ricompensa per il saggio, al tema della fama e dell’aspirazione a sopravvivere nella memoria dei posteri grazie ai meriti acquisiti, della possibilità per l’autore di vivere nella sua opera letteraria attraverso i secoli a venire ( « remembré seront a toz tens e coneü par lor granz sens» ).

Ma questo motivo viene ulteriormente sviluppato da Benoît, che pone significativamente l’accento anche sugli effetti apportati dalla conoscenza. Infatti, se il sapere che non viene diffuso cade inesorabilmente in oblio, ( « E scïence qui est tenue / est tost obliee e perdue » ), al contrario la conoscenza adeguatamente trasmessa e insegnata « germe, flurist e fructifie » e apporta un « bien » con cui si intende « non la simple détention de connoissances théoriques mais la mise en œuvre d’une sagesse morale à implications pratiques » )49 che ha come effetto il miglioramento di colui che « …veut saveir e […] entent ». All’interno del testo, i topoi del ricordo e del non-tacere vengono superbamente resi da binomi ossimorici quali udire/non- udire, vedere/non-vedere, ricordare/dimenticare. E il loro utilizzo dona al testo, tra le altre qualità, una bellezza stilistica di prim’ordine. Tuttavia, a voler essere più attenti, i punti in comune con ilRoman de Thèbes tendono a sparire verso il termine della composizione; per la precisione dal v. 33 in avanti. In questo punto, infatti, Benoît porta alla luce un elemento ulteriore della consapevolezza di sé; una componente non sconosciuta, ma sicuramente non rimarcata con la dovuta attenzione dall’autore del Roman de Thèbes: il significato della mise en roman dell’Antichità. L’attenzione alla trasposizione linguistica è direttamente proporzionale alla componente sociale insita nella morfologia dell’intellettuale. Benoit lo scrive esplicitamente: « La voudrai si en romanz metre / que cil qui n’entendent la letre / se puissent deduire el romanz ».

La ‘romanizzazione’ del testo classico coincide con l’esigenza, da parte dei selezionati fruitori ( che, tra l’altro, sono in grado di intendere il latino, come si legge nel verso 38 ), di « deduire el romanz » , ovvero di godere, di fruire delle narrazione trattata. A questo punto, però, incombe una domanda. Se la lingua romanza è adatta a far sì che gli utenti godano dell’opera stessa, come spiegare la « vertè » del verso 44?

L’autore non avrebbe potuto impiegare vocaboli come ‘storia’, ‘narrazione’, ‘vicenda’? Perché la ‘verità’? E poi, occorre chiedersi, quale verità? La verità storica, poetica,

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metastorica, metapoetica? O, forse, non sarebbe azzardato ipotizzare che Benoit, tra le righe, inizi già ad assegnare alla lingua volgare quella rilevanza che ad essa, due secoli dopo, concessero gli umanisti e i rinascimentali? “la verità sarà udita in seguito”, è questa la traduzione del verso.

La lingua delegata a ‘svelare’ la verità potrebbe essere già riconosciuta nel volgare? Quale chiave di lettura impiegare? Il dubbio permane. Una cosa, tuttavia, è certa: l’intellettuale Benoît de Sainte-Maure si presenta al suo pubblico, al pari dell’autore del Roman de Thèbes, non solo come custode di un “sapere che germoglia” ( « e science che qu’est bien oie / germe e florist e frutefie » ), di una scienza che non deve essere taciuta. Lo contraddistingue anche, a differenza del predecessore, un’altra tipologia di consapevolezza, che non investe tanto se stesso, quanto le proprie scelte: in questo caso, la scelta linguistica. Dunque, la scelta di un particolare mezzo comunicativo. La scelta suprema della lingua, in conclusione, coniuga un intento comunicativo, è possibile affermare, altrettanto supremo. E, ci si potrebbe domandare, che cosa esiste mai di più eccelso ( o supremo ) della ‘verità’, in qualunque senso essa si voglia intendere? Sono molte dunque le tematiche chiave che vengono condensate nei pochi versi del prologo: dovere ed esigenza della diffusione ( « Salemon nos enseigne e dit, / e sil list om en son escrit, / que nus ne deit son sen celer, / ainz le deit om si demostrer / que 1’om i ait pro e honor, / qu’ensi firent li ancessor », « e qui plus set, e plus deit faire » ); ruolo di traghettatore di conoscenza nei confronti dei contemporanei ( Qui set e n’enseigne o ne dit / ne puet muër ne s’entroblit; / e sciënce qu’est bien oie / germe e florist e frutefie. /Qui vueut saveir e qui entent / sacheiz de mieuz l’en est sovent » ); la fama e il ricordo ( « que 1’om i ait pro e honor », « Remembré seront a toz tens / e coneü par lor granz sens, /Quar sciënce que est teüe / est tost obliëe e perdue » ), la consapevolezza della mise en roman dell’opera classica ( « Que de latin, ou jo la truis, / se j’ai le sen e se jo puis, / la voudrai si en romanz metre » ); la selezione del destinatario ( « … cil qui n’entendent la letre / Se puissent deduire el romanz » ).

Dunque la saggezza che gli antichi autori hanno infuso nei loro scritti non solo ha consentito loro di sopravvivere nel ricordo delle generazioni ma ha avuto enormi effetti sul presente in cui vive autore permettendo al suo tempo di raggiungere quel grado di civiltà di cui la lezione degli antichi è presupposto fondamentale. Senza l’apporto del patrimonio di conoscenza della Classicità i posteri si sarebbero ritovati a viver come bruti condividendo l’infima vita delle « bestes » incapaci di discernimento e consapevolezza.

Dunque per Benoît « il existe un progrès de la condition humaine grȃce aux spéculations des grands esprits »,50 e l’autore individua esplicitamente nell’Antichità la sorgente di quel sapere che rende il romanzo che la scelga come tema « sage et de san aprenant » per riprendere la definizione di Jean Bodel.

Questa translatio del sapere dall’Antichità è visualizzata da Benoît attraverso l’itinerario materiale dell’opera che egli si appresta a tradurre, il De excidio Troiae di Darete Frigio, che diviene il simbolo del ‘passaggio di testimone’ tra la civiltà classica e quella cortese.

Secondo la ricostruzione di Benoît quest’opera, inizialmente scritta in greco da Darete « clerc merveillous e des set arz escïentos », è stata trovata Atene in una biblioteca e riportata alla luce, dopo secoli di oblio, da un certo Cornelio, presunto nipote dello storico Sallustio, che si è apprestato a tradurla in latino: « lonc tens fu sis livres perduz / qui ne fu trovez ne veüz / mes a Athenes le trova / Cornelïus quil translata ». L’attività di Cornelio, primo traduttore di Darete ( « de grec le torna en latin » ), attività da lui svolta con « sens e […] engin » fa di lui il precursore di Benoït che traduce il testo in volgare. L’itinerario della conoscenza si snoda dunque attraverso i secoli dalla Grecia a Roma, da Oriente a Occidente51 per giungere infine alla Inghilterra plantageneta. Questa insistenza posta sul trasferimento materiale di un libro, perduto e poi ritrovato e sull’esercizio della traduzione come mezzo di diffusione del sapere, reso attraverso il verbo translateur fa dell’opera stessa di Benoit l’emblema della translatio studii.52

L’autore si inserisce infatti orgogliosamente nella tradizione quale chiave di volta di tutto il processo di translatio:

… Beneeiz de Sainte More l’a controvée et fait e dit e o sa main les moz escrit,

50

M.ZINK, « Une mutation de la conscience littéraire: le langage romanesque à travers des exemples français du XIIe siècle », Cahiers de Civilisation Médiévale, 24, 1981, p. 9.

51 Ancora nel prologo del Cligès, Chrétien de Troyes vedrà in Grecia e in Roma l’origine di ogni chevalerie e

clergie che sopravvivono e fioriscono però, ed è una traslazione decisiva, nella Francia del suo tempo: « Par les livres que nos avons / les fez des ancïens savons / et del siegle qui fu jadis. / Ce nos ont nostre livre apris / qu’an Greece ot de chevalerie / le premier los et de clergie. / Puis vint chevalerie a Rome / et de clergie la some, / qui or est en France venue. / Dex doint qu’ele i soit maintenue / et que li leus li abelisse /tant que ja mes de France n’isse / l’enors qui s’i est arestee » [ Dai libri che possediamo / conosciamo le storie degli antichi / e dei secoli passati. / Sappiamo dai nostri libri / che in Grecia fu la prima / gloria della cavalleria e del sapere. / Poi la cavalleria venne a Roma / con la grande somma del sapere, / e ora sono venute in Francia. / Dio conceda che vi rimanga / e che il luogo le piaccia tanto / che non più esca dalla Francia / l’onore che vi ha preso dimora].

52

ensi taillez, ensi curez, ensi asis, ensi posez

que plus ne meins n’i a mestier53

Con la traduzione di Benoît il testo sembra raggiungere la sua forma perfetta e compiuta in un processo che non è semplice emulazione ma anche competizione col modello. In proposito Emmanuèle Baumgartner sottolinea l’importanza del verbo controver in cui si esplica questo rapporto fecondo di emulazione-rivalità: « le “roman” se construit ansi et se controuve du va- et-vien constant entre la lecture scrupoleuse et la “reception créatrice” qu’elle impulse. On notera de ce point de vue l’importance du verbe controver qui signifie à la fois la trouvaille neuve qu’est le récit de Benoît e son mode d’invention: le contact fécond et le rapport de rivalité (contre marque aussi bien en ancien français le mouvement d’hostilité que la coïncidence temporelle et la contiguïté spatiale) qu’elle entretient avec le texte source ».54 Dunque come afferma Francine Mora lo stesso verbo trover impiegato parecchie volte da Benoît nel prologo « aurair donc un double sens que soulignerait le verbe “controver” : la découverte du texte-source ( par Cornelius, puis par lui-même ) et les troubailles de l’écriture qui permettent au traducteur de s’approprier ce texte, qui est, on le sait, un sens courant de “trover” au Moyen Age, puisque ce verbe issu du latin *tropare signifie “composer à partir de tropes”, “composer poétiquement”».55 La prospettiva della traduzione non è dunque incompatibile con la libera creazione autonoma a partire dal modello latino:

le latin sivrai e la letre;

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