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LA SCRITTURA E LA MEMORIA

C APITOLO SECONDO

4. LA SCRITTURA E LA MEMORIA

Come abbiamo visto, è tra l’attività ludica e disimpegnata dei conteurs e l’alta dignitas riconosciuta alla letteratura d’espressione latina che si deve situare la produzione del clerc lisant. Esprimendosi in lingua volgare e facendo ricorso all’uso del verso, egli cumulava infatti le forme d’espressione del pubblico lettore, categoria generale a cui anche giullare si apparenta, unendovi al contempo l’uso del testo scritto con la gravitas che gli deriva dai soggetti che egli trattava, o per meglio dire, che egli riprendeva. Il clerc lisant assume « une mission politique et morale. Si le recours à la langue vulgaire, l’acte de récitation et l’usage du vers peuvent assimiler son activité à celle du jongleur, ce n’est qu’une apparence : il ne s’agit pas d’une activité ludique, mais d’une fonction socialement utile, voire indispensable.

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ANIEL POIRION, «Merveille architecturale et fiction narrative en France au Moyen Ȃge », Venezia Arti, Bollettino del Dipartimento di storia e critica delle arti dell’Università di Venezia, 1987, p. 14. Lo studioso afferma come nello sforzo di traduzione dei testi latini i principi appresi nel corso della formazione scolastica non venissero in soccorso degli autori dei volgarizzamenti che dovevano necessariamente adottare altre strategie. Le arti del trivium che avevano presieduto alla formazione linguistica del clerc, gli avevano insegnato a pensare, a formulare e a ornare in latino; la grammatica, la retorica e la dialettica offrivano dei modelli inutilizzabili per la giovane lingua volgare: « La transposition des valeurs littéraires du latin au français ( langue d’oîl ) au XIIe siècle, n’allait pas sans créer d’intéressants problèmes aux écrivains. Les deux ‘arts’ qui présidaient alors à la théorie et à la pratique de la beauté littéraire, la grammaire et la rhétorique, ne pouvaient s’appliquer également à la langue vernaculaire. Si les principes généraux de la rhétorique étaient valables dans les deux systèmes linguistiques, il fallait abandonner tout ce qu’enseignait la grammaire, pourtant chargée de l’étude des textes anciens».

S’inspirant des grands principes qui régissent la composition des histoires et des chroniques de langue latine telles qu’elles ont été écrites dans les monastères ou dans l’entourage des ducs de Normandie, puis des ducs de Normandie rois d’Angleterre, le clerc lisant vise à transposer cette vision même dans le domaine féodal laïc et guerrier, plus inculte, pour en informer des hommes qui, par la barrière de la langue, en sont séparés. En fait, bien qu’il s’exprime en langue vernaculaire et qu’il recoure à l’expression versifiée, il s’inscrit dans une tradition littéraire hiératique, sérieuse, fondatrice d’une société et d’un pouvoir ».117

I chierici che coltivavano le lettere volgari rivendicavano dunque lo stesso diritto di coloro che erano dediti alla letteratura latina di tramandare il passato; anzi. mentre i chierici versati nel latino, utilizzando la medesima lingua in cui la storia antica trovava espressione negli scritti degli autori cui si faceva riferimento, si potevano inserire con agio in una tradizione ininterrotta che andava dalla classicità ai tempi recenti, per i primi l’uso del volgare è indice di un’operazione non scontata: assistiamo a uno sforzo di ‘appropriazione’ del passato che viene quasi scoperto ed esplorato con occhi vergini, deve essere diffuso, reso vivo e attuale; l’operazione di traduzione in cui si impegna il clerc lisant è dunque lingustica e contenutistica assieme: dal latino al volgare e dall’antico alla contemporaneità.

Questa nuova dignità di cui l’autore in volgare si sente investito è percepibile nell’orgoglio con cui Benoît de Sainte-Maure mette in risalto il proprio nome, facendogli occupare lo spazio di un intero verso,118 o ancora dai numerosi passi del Roman de Brut o del Rou in cui Wace, sempre definendosi con l’appellativo di Mestre o Maistre, ci tramanda il proprio nome accompagnadolo da minute informazioni sulla propria origine, sulla propria formazione culturale e sugli incarichi ricevuti dal sovrano.119

Ma si noti come significativamente il nuovo status di cui i chierici si fanno forti appaia legato proprio alla possibilità di conservare il ricordo dei fatti e dei personaggi affidato alla forza imperitura della scrittura. Il motivo dell’immortalità di cui l’opera scritta si farebbe garante per coloro che ottengano il privilegio di esservi nominati, è un topos che accompagna da sempre la storia delle lettere: celeberrimo il « monumentum aere perennius » eretto da

117 J

EAN-GUY GOUTTEBROZE, « Entre les historiographes d’expression latine et les jongleurs, le clerc lisant », Le clerc au Moyen age, « Senefiance, 37 », Aix en Provence, Presses universitaire de Provence, 1995, p. 224.

118

BENOÎT DE SAINTE-MAURE, Roman de Troie ( ed. Constans ) v. 132-133 « mais Benoît de Sainte-Maure / l’a contrové e fait e dit »; al verso 2065 « … Beneeiz pas ne l’alonge »; o ancora ai versi 5093-5094 « Beneeiz dit, qui rien n’I lait / de qunt que Daires li retrait ».

119 W

ACE, Roman de Brut ( ed. Arnold ) v. 7 « Maistre Wace l’ad translaté »; vv. 3822-3823« ço testemoine e ço recorde / ki cest romanz fist, maistre Wace»; v, 13282 « Maistre Wace, ki fist cest livre »; v. 14.866 « fist mestre Wace cest romanz ». IDEM, Roman de Rou ( ed. Holden ) I, vv. 3-4 ( Chronique Ascendante ) « Un clerc de Caen, qui out non Mestre Vace »; ( Troisième Partie ) vv. 158-160 « … Mult dit bien Maistre Wace … », vv. 171-180 « … niés fui al premerain Henri … clerc lisant en lur tens fui »; II, vv. 5297-5318 « Wace de l’isle de Gersui …», vv. 11425-11440 « … ci fault le livre Maistre Wace … ».

Orazio con la sua opera di poeta. Ma è significativo che proprio questo tema appaia sfruttato dai nostri clercs per rivendicare la propria dignitas, segno della volontà di differenziarsi, come si è visto, proprio facendo affidamento sulla pratica della scrittura, di cui mostrano di essere pienamente in grado di padroneggiarne le tecniche, dalle altre manifestazioni, possiamo dire pre-letteratarie, che trovavano espressione nella pratica del chanter, nella disprezzata tradizione orale delle joculatorum cantilenis le ingenue cantilene giullaresche in lasse monorime cui si tramandavano contes e fables. Per usare le parole di Roberto Antonelli, possiamo dire che si avverte anche sul versante romanzo l’esigenza di « definire status, ideologia e strumenti dei chierici, ovvero di un nuovo ceto, i nuovi intellettuali volgari, nati all’interno della tradizione ecclesiastica e volti a fissare, una volta passati a lavorare nelle Corti, le condizioni ideali e le particolarità “materiali” del loro mestiere, anche per distinguerlo ed elevarlo rispetto ad altri mestieri, rispetto ai quali erano evidenti, almeno allora, analogie di problemi, di strumentazione ( su un piano non solo metaforico ) a di ruolo ».120 Per un altro verso si riteneva necessario collegare lo sviluppo della nuova letteratura volgare proprio al genere della storiografia e del racconto del passato. L’àmbito della scrittura della storia, l’impegno nell’ escrivre les gestes e treiter les estoires, nel tesmoigner e nel recorder, era il più funzionale a svincolare l’ancora giovane incerto testo en romanz dalla sua posizione subordinata vincendo il consolidato sospetto con cui gli intellettuali guardavano alle nuove forme letterarie; non a caso abbiamo visto come i primi romanzi, i nostri Romanzi antichi, e in misura minore lo stesso Brut, aspirino ad inserirsi nella tradizione letteraria peculiare della corte, poggiante sulla storia e sull’erudizione.

Come abbiamo detto, per i chierici di alta formazione latina, che sappiamo godevano di un prestigio consolidato e ricoprivano alti incarici cancellereschi e diplomatici a corte, poteva essere un’operazione più naturale e immediata quella di sottolineare il proprio valore di uomini di cultura, esaltando la pratica della letteratura ricorrendo agli esempi che si trovano in abbondanza nelle lettere latine, – soprattutto nei versi finali delle opere in cui gli autori augurano lunga vita ai loro scritti – si vedrà che il libro quindicesimo delle metamorfosi in cui Ovidio medita sul trascorrere del tempo e sulla sopravvivenza della scrittura sarà un riferimento imprescindibile, spesso citato direttamente. Costoro infatti erano naturalmente portati a rispecchiarsi negli autori antichi cui si sentivano accumunati dall’uso della medesima lingua, il latino, la lingua per antonomasia, la lettre, illuminadosi del riflesso del loro prestigio. Per esempio, Giovanni di Salisbury nell’Entheticus esalta la pratica delle lettere

120 R

OBERTO ANTONELLI, « Antiqui - Ancessor », Ensi firent li ancessor, Mélanges de philologie médiévale offerts à Marc-René Jung, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997, p. 188.

affermando che solo queste sono in grado di procurare la fama agli eroi e ai sovrani che senza di loro resterebbero sconosciuti.

121

« Eadem est asini et cuiusvis imperatoris post modicum tempus gloria, nisi quatenus memoria alterutrius scriptorum beneficio prorogatur. Quis enim Alexandros sciret aut Cesares, quis Stoicos au Peripateticos miraretur, nisi eos insignerent monimenta scriptorum? […] Quot et quantos arbitraris fuisse reges, de quibus nusquam sermo est aut cogitatio? Nichil ergo consiliosius est captatoribus gloriae, quam litteratorum et scribentium maxime gratiam promereri. Inutiliter enim eis geruntur egregia , perpetuis tenebris obducenda nisi litterarum luce clarescant… »

[ Dopo un breve lasso di tempo la gloria dell’asino e quella di qualunque imperatore è la medesima, se la memoria di entrambi non è prorogata grazie al beneficio degli scrittori. Chi infatti conoscerbbe Alessandro o Cesare, chi ammirerebbe gli Stoici o i Peripatetitci, se non li avessero resi noti le opere degli scrittori? […] Quanti e quanto grandi re vedi che sono esistiti, dei quali non permane alcuna menzione o ricordo? Niente dunque è più saggio per coloro che hanno sete di gloria del guadagnarsi soprattutto il favore dei letterati e degli scrittori. Inutilmente infatti, egregie imprese sono compiute da loro, destinate ad essere avvolte dalle tenebre perpetue dell’oblio se non rifulgono della luce delle lettere…]

Mentre gli imperatores e i più grandi reges senza l’ausilio delle lettere si vedrebbero abbassati al livello ben poco lusinghiero degli asini con cui sono paragonati, sono i litterati e gli scriptores che, come vediamo nel passo citato, vengono incaricati di una funzione fondamentale. I principi non possono fare a meno degli scrittori, senza questi ultimi infatti le loro stesse imprese finiscono per risultare del tutto vane. Si giunge quindi a un singolare rovesciamento dei ruoli abituali secondo cui sono proprio i mecenati a doversi accattivare il favore dei loro protetti ( « litteratorum et scribentium maxime gratiam promereri »). Lo stesso mutamento di prospettiva si ritrova nell’epistola inviata da Pierre de Blois al suo omonimo ‘Petrus Blesensis’ arcidiacono di Bath. In questa l’autore annuncia la composizione di un libro sulle imprese di Enrico II ponendo grande enfasi nel ruolo che la letterartura è chiamata a ricoprire.

122« Nostra etiam scripta, quae se diffundunt et publicant circumquaque, nec inundatio, nec incendium,

nec ruina, nec multiplex saeculorum excursus poterit abolere. Sola scripta sunt, quae mortales quadam famae immortalitate perpetuant, et actibus veterum, quos traducunt ad posteros, nullam permittunt obrepere vetustatem.

“Ore legar populi, perque omnia saecula fama

Si quid habent veri vatum praesagia, vivam” ( OV. Met., XV. 878-879 )

121 G

IOVANNI DI SALISBURY, Entheticus de dogmate philosophorum ( ed. Webb ) I, p. 13.

122

Dicit Ovidius. Cum Antonius linguam Ciceronis abscinderet, quae in ipsum dictaverat invectivas, dicitur ei Cicero respondisse:

“Nil agis, Antoni, scripta diserta manent.” ( EUPHORB., In epitaph. Cicer. )

Quis hodie Lucilium cognovisset, nisi eum Seneca suis epistulis illustrasset? Plus Caesaris laudibus addiderunt scripta Virgilii et Lucani, quam omnes divitiae, quae de diversis mundi provinciis adunavit. Prudentia Ithaci, et Pelidae virtus sub tenebris ignorantiae usque hodie latuissent, nisi eas divina Homeri mens carmine publicasset. Ideo in principibus terrae, et his qui res arduas mundi quaerunt vel gerunt nihil ad laudis acquisitionem posset commodius inveniri, quam eos familiares et amicos habere, qui scribendo scirent et possent res gestas ad posteros derivare. […] Ego in libro De praestigiis fortunae - quem vestro committo corrigendum examini - actus domini regis Angliae Henrici secundi pro mea parvitate magnifico, confidens in Domino, quod lector, si non fuerit invidus, gratanter hoc opusculum accettabit. Votum siquidem meum est, ut dominus rex moriendo non moriatur, sed per laudem mortuus vivat, cumque omnes adulantium linguae evanuerint, beneficio scripturae memorialis ejus gloria aeternetur ». [ Anche i nostri scritti che si diffondono e si divulgano per ogni dove, né un’inondazione, né un incendio, né la distruzione, né il volgere dei secoli potrà distruggere. Esistono solo gli scritti che possano rendere perpetui i mortali con quella certa forma di immortalità garantita dalla fama, e per mezzo delle azioni degli uomini antichi, che tramandano ai posteri, non permettono di ingannare alcuna antichità.

“ Mi leggeranno le labbra del popolo e, grazie alla fama, se c’è qualcosa di vero nelle profezie dei poeti, vivrò per tutti i secoli ”

Dice Ovidio. Quando Antonio fece tagliare la lingua di Cicerone che aveva scritto invettive contro di lui, si dice che Cicerone gli abbia risposto:

“ Non puoi farci niente, le parole degli scritti restano”.

Chi al giorno d’oggi conoscerebbe Lucilio se Senenca non lo avesse reso celebre con le sue epistole? Contribuirono in misura maggiore alle lodi di Cesare gli scritti di Virgilio e Lucano che tutte le ricchezze che raccolse da ogni parte del mondo. L’astuzia di Ulisse e il valore di Achille giacerebbero ancora oggi sotto le tenebre dell’ignoranza se il divino intelletto di Omero non le avesse divulgate attraverso il suo carme. Per questo motivo per i principi che regnano in terra e per coloro che desiderano o compiono imprese eccelse non si può trovare niente di più opportuno per acquisire la gloria, dell’avere come amici e confidenti coloro che scrivendo sono in grado di tramendare le imprese ai posteri […] Io nel libro che ho scritto De praestigiis fortunae – che affido alla vostra correzione – glorifico, per quanto è nelle mie umili possibilità, le imprese del re d’Inghilterra Enrico II, il quale libro, sarà accolto di buon grado dal lettore se non sarà invidioso. Infatti il mio proposito è che il re morendo in realtà non muoia ma grazie alle lodi sopravviva anche una volta morto,e quando si saranno dissolte le parole vane degli adulatori, con il beneficio della scrittura storiografica la sua gloria sia resa eterna.

Seppure l’autore, con una modesta forma topica di recusatio, parla della sua parvitas in riferimento alla presunta limitatezza delle sue possibilità, egli ha ben presente il suo alto ruolo, essenziale nel far sì che il ricordo del sovrano sopravviva ( si noti l’anafora variata dal poliptoto « moriendo non moriatur » e la successiva antitesi « per laudem mortuus vivat » legata

alla prima della figura etimologica, con cui si gioca proprio sulla capacità rivendicata da Pierre di vincere l’ora fatale del sovrano ). Lo scrittore fa proprio l’esempio degli autori antichi Cicerone e Ovidio a cui ama accostarsi, e rivendica anche per i suoi scritti, com’è stato per i loro, un’esistenza inalterabile attraverso i secoli. Per Pierre de Blois dunque, come già per Giovanni di Salisbury, i principes terrae devono preoccuparsi di farsi amici e di tenere in

grande considerazione coloro che si definiscono nell’àmbito dello scribere.

Se il ricorrere di questi motivi, come si vede dagli esempi che abbiamo scelto di riportare - ma se ne potrebbero trovare in abbondanza - testimoniano la diffusione delle tematiche relative al discorso sul prestigio delle lettere nell’àmbito della letteratura latina, con una ben più grande sorpresa notiamo il penetrare di tali tematiche anche nelle opere degli autori volgari. Anche la letteratura volgare dunque inizia ad elaborare una riflesione su se stessa, sulla sua ragion d’essere e sui propri fini, analoga a quella delle litterae. Wace, nella Troisième Partie del Rou, inserisce una celebrazione del suo ruolo di clerc. È un’ideologizzazione della propria funzione sociale: lo scrittore normanno adatta per se stesso e la sua categoria123 il motivo che abbiamo visto caratterizzare gli scritti latini, sottolineando il prestigio e l’onore in cui deve essere tenuto anche lo scrittore di storia che si esprima en romanz e insistendo sul il vincolo di affetto che si deve instaurare tra questo e il suo patronus sotteso a rivendicare un trattattamento e una considerazione pari a quelle che i litterati latini avevano reclamato per sé. Da questi ultimi vengono infatti ripresi i medesimi termini di

gratiam promereri e amicum habere a indicare il rapporto ideale basato sia sull’elargizione di

ricompense da parte del princeps come forma di captatio benevolentiae, sia su un sincero vincolo di amicizia e affetto che deve alimentare il fecondo vincolo tra intellettuale e signore:

Mult soleient estre onuré124 e mult preisé e mult amé cil ki les gestes ecriveient e ki les estoires treiteient;

[ Solevano essere molto onorati / e tenuti in grande stima e considerazione, / coloro che scrivevano le imprese / e coloro che trattavano le storie ]

Qui il clerc si configura, grazie al suo inserimento nella tradizione scritta, come un vero e proprio ‘ricettacolo della memoria’.125 La scrittura si vede indirizzata, dunque, a un esplicito

123 Cfr. R

OBERTO ANTONELLI, « Antiqui – Ancessor », cit., p. 185. Lo studioso sottolinea l’esitenza del clerc come figura sociale caratterizzata da orizzonti sociali, ideologici e interessi propri.

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fine memoriale, come troviamo rimarcato ancora da Wace in un altro passo, questa volta del Brut, ( « ço testemoine e ço recorde / ki cest romanz fist, maistre Wace » )126 in cui compaiono proprio i verbi recorder e testemoiner accanto alla pratica scrittoria del romanz faire, al fine di legare esplicitamente il termine designante il testo, il romanzo, all’azione del tramandare il ricordo. Azione che si carica certo anche di un preciso fine politico e celebrativo « al centro dell’interesse dell’autore c’è comunque il mestier, la sua definizione, la sua utilità e importanza sociale. […] meno che mai i clercs appaiono quali portatori di rivendicazioni ‘umanistiche’ generiche: la memoria prima di essere un emblema di humanitas, è la dimostrazione di un comune interesse della corte: sia i re che gli chevalier non possono infatti fare a meno dei clercs se sono interessati alla propria memoria, se vogliono esistere nel presente e nel futuro ».127 Del resto Wace, autore in volgare, è in grado sulla scorta del livre di ricostruire la memoria della nazione inglese divenendo il custode dell’identità del popolo. Nel prologo del Brut, egli mostra di conoscere l’origine del regno insulare risalendo a coloro che primes regnarono sull’isola.

Ki vult oïr et vult saveir128 de rei en rei e d’eir en eir ki cil furent e dunt il vindrent ki Engleterre primes tindrent, quels reis i ad en ordre eü, ki anceis e ki puis i fu, Maistre Wace l’ad translaté Ki en conte la verité. Si cum li livres le devise,

[ Chi vuole udire e vuol sapere, / di re in re, di secolo in secolo / chi furono e da dove vennero / coloro che regnarono per primi sull’Inghilterra, / quali re ci sono stati in ordine di successione, / chi è venuto prima e chi dopo, / il Maestro Wace l’ha tradotto, / egli racconta la verità / così come trova scritto nelle fonti ]

125 J

EAN-GUY GOUTTEBROZE,cit., P.224.

126 W

ACE, Roman de Brut ( ed. Arnold ) vv. 3822-3823 [ Ciò testimonia e ciò ricorda / chi fece questo romanzo, il Maestro Wace ].

127 Cfr. R

OBERTO ANTONELLI, « Antiqui – Ancessor », op. cit. p. 190.

128 W

Nei versi con cui si apre la Troisième Partie del Rou129 il motivo del ricordo viene esaltato con grande enfasi da Wace, che pone il verbo remenbrer all’inzio del primo verso, sottolineando come proprio il tramandare memoria sia la ragione che sta alla base della composizione di un’opera letteraria. Ma si badi, nell’ottica di questi autori, il clerc non si limita a tramandare, con la sua pratica di scrittura, il patrimonio di conoscenze di cui rivendica il possesso, ma è lui stesso, accanto ai i suoi equivalenti antichi, ad aver salvato notizie e imprese dal naufragio cui il tempo sottopone le cose terrene, dando origine alla tradizione con cui i fatti sono trasmessi. Il clerc è quindi colui che non solo racconta e tramanda la storia ma anche colui che la origina, che imprime un determinato senso e una specifica forma al racconto di questa, e si può notare come nel far ciò gli autori cotemporanei a Wace mostrino uno specifico intento di ricollegarsi all’attivà degli scrittori antichi in un filo

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