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La scienza della vita come fonte di nuovi rapporti giuridici.

Dalla biopolitica alla polisgenetica

Paragrafo 2.2. La scienza della vita come fonte di nuovi rapporti giuridici.

All’inizio del libro La vita e le regole, Tra diritto e non diritto Stefano Rodotà, richiamando i saggi di W. Benjamin raccolti in Angelus novus, s’interroga sulla funzione e sui limiti del diritto. Si domanda, infatti: “Può il diritto, la regola giuridica, invadere i mondi vitali, impadronirsi della nuda vita, pretendere anzi che il mondo debba evadere dalla vita? Gli usi sociali del diritto si sono sempre più moltiplicati e sfaccettati. […]. Viviamo ormai in una law-saturated society, in una società strapiena di diritto, di regole giuridiche dalle provenienze più diverse, imposte da poteri pubblici o da potenze private, con un’inarrestabile deriva. La consapevolezza sociale non è sempre adeguata alla complessità di questo fenomeno, che rivela anche asimmetrie e scompensi fortissimi, vuoti e pieni, con un diritto invadente in troppi settori e tuttavia assente là dove più se ne avvertirebbe il bisogno. Sostenuto da azioni diverse, e persino contraddittorie, il diritto si costruisce un mondo proprio. Ma in questa autonomia del giuridico, come per altri versi nell’autonomia del politico, della scienza e della tecnica, si cela l’insidia di una volontà di potenza incontrollata. […]cliii.

Rodotà richiama quindi il pensiero di Rudolf von Jheringcliv che definisce “la legge come l’unione di chi comprende e vede lontano contro chi vede solo ciò che ha vicino”clv. E’ evidente dunque che “nella riflessione sui limiti dell’intervento del diritto la questione decisiva rimane quella di chi stabilisce il confine tra il diritto e il non diritto, e dei criteri secondo i quali questa operazione viene compiuta. Questione che dipende assai dalle scelte della politica; dal rapporto che si istituisce tra il sistema giuridico e gli altri sistemi di regolazione sociale. […]. L’imperialismo giuridico, che traspare dalle pagine di Jhering, era pur sempre un’attitudine storicamente temperata dal fatto che, nel momento in cui venivano scritte, vigeva una convenzione sociale che escludeva dall’impero del diritto molte significative province, affidate invece al governo della religione, dell’etica, del costume, della natura. […]. Ma, al riparo dalla costrizione giuridica, non si era perciò più liberi. Al contrario. La religione signoreggiava l’anima, l’etica s’impadroniva dei comportamenti, il costume sociale obbligava, la natura segnava invalicabili confini. Quelle regole erano poste al di là di ogni influenza individuale, non era possibile modificarle e la loro trasgressione aveva effetti più

pesanti della sanzione giuridica. Si cadeva nel peccato, si diventava vittime di pesanti forme di esclusione sociale, si veniva condannati per comportamenti (quand’era fattualmente possibile) contro natura”clvi. Per Rodotà, quindi, la conquista di territori riservati alla religione o all’imperativo etico rappresenta una forma di liberazione da regole costrittive non modificabili dalla volontà dell’uomo, in quanto espressione di divinità.

Ma ora è proprio il diritto ad essere messo a sua volta in discussione poiché per Rodotà “non ci si può fermare al confronto tra un modello di diritto fondato sulla religione, o integralmente risolto in essa, e un modello interamente laicizzato, espressione di un potere terreno. Anche al diritto modernamente inteso, infatti, si rivolgono sempre più intensamente richieste di disciplinare momenti della vita che dovrebbero essere lasciati alle decisioni autonome degli interessati, al loro personalissimo modo d’intendere la vita, le relazioni sociali, il rapporto con il sé”clvii.

La ragione profonda ed obiettiva che determina una nuova riflessione sulla ragione d’essere e sulla funzione del diritto sembra comunque determinata non solo e non tanto da nuove sensibilità sociali, quanto dalla sottoposizione del diritto stesso a “nuovi dati di realtà costruiti dalla scienza e dalla tecnologia, che mutano il senso dell’appello al diritto e le forme della regolazione giuridica”clviii.

E’ proprio lo sviluppo della scienza, ed in particolare della bioscienza, che modifica la grammatica giuridica e rende gravosa la scrittura dell’ordine sociale da parte del diritto. Anzi: “E’ l’antropologia profonda del genere umano che di colpo, nel giro di pochi anni, viene messa in discussione. […]. Perdute le regole della natura, la società si rispecchia nel diritto e ad esso chiede rassicurazione, prima ancora che protezione. […]. La vicenda della clonazioneclix, proprio perché estrema, diventa esemplare: segna l’abbandono della riproduzione sessuale, mette in discussione l’unicità della persona, dà corpo alle fantasie sulla serializzazione degli esseri umani, annuncia la superfluità del maschio. Difficile porre ordine in questo groviglio di annunci, emozioni, problemi. Così, in un’ansia di semplificazione, al diritto si chiede una reazione, la ricostituzione di un ordine turbato, non soltanto una regola”clx. I confini del diritto sono dunque sempre più mobili, non vi è certezza “tra diritto e non diritto, tra la richiesta d’una regola e il suo rifiuto, tra il bisogno di rassicurazione sociale e l’istintiva rivendicazione dell’identità culturale e individuale”clxi.

Rodotà, al proposito, richiama un rapporto del Consiglio di Stato francese, intitolato significativamente Dall’etica al dirittoclxii, che sembra non avere dubbi circa la prevalenza del diritto nei confronti di scelte regolamentabili solo nell’ambito della sfera della libertà dell’individuo. Nel rapporto si indica, piuttosto, il percorso che necessariamente conduce alla regola giuridica dopo la riflessione etica.

Il diritto, quindi, pur sospeso entro un atto riflessivo, conserverebbe tutta la propria potenzialità di forza attrattiva, inscrivendo i processi sociali (e scientifici) nell’ordine giuridico. Il problema, tuttavia, può anche porsi diversamente.

La forma del diritto, intesa come comando che esprime una forza governamentale, come tensione a comprendere nella sua stessa struttura giuridica tutto ciò che è richiesta esistenziale, viene problematizzata fin nei suoi fondamenti dal linguaggio delle bioscienze che spostano i confini del diritto verso istanze che agiscono e sono efficaci su un piano diverso, un piano che si qualifica propriamente come non giuridico. In questo sforzo di andare oltre sé stesso, il diritto risulta in qualche modo imprigionato, trasformato dall’interno oppure eccessivamente dilatato, allorché è costretto ad inseguire gli sviluppi di linguaggi e grammatiche affatto nuovi e dettati dai progressi delle bioscienze.

E’ una trasformazione che il diritto non appare in grado di orientare ma che segue, piuttosto, altre trasformazioni le quali incidono, in primis, sul piano delle identità personali e dei comportamenti. Il diritto sembra cedere le sue prerogative ad altri ordini di senso, diversi plurimi e confliggenti.

Ed, infatti, “proprio perché la premessa delle scelte individuali e collettive affonda in valori che possono profondamente divergere, e la decisione spesso è affare di coscienza, lo strumento del diritto non sempre è quello più adatto a risolvere i problemi che, anzi, possono essere resi più acuti dalla imposizione legislativa di una sola delle posizioni in campo”clxiii. D’altra parte, deve essere considerata la funzione storicamente assicurata dal diritto che si esprime “quando la legge morale viene inglobata direttamente o indirettamente nella dimensione giuridica […] la norma giuridica ne diventa lo scudo, nel senso che si offre come lo strumento per sanzionarne la violazione […] e si pone così tra la morale e la politica”clxiv; anche se sempre più si assiste “alla sostituzione della fonte pubblica con una privata, che tuttavia può essere assistita da un intervento pubblico nel caso di violazione delle regole che essa stessa ha prodotto”clxv.

Lo sviluppo delle bioscienze, per non pochi aspetti, pone in discussione proprio questa funzione mediatrice e assorbente del diritto, e cioè quella di dirimere da sé ed in sé, con gli strumenti offerti dall’ordinamento, le questioni che concernono la trasformazione della natura umana.

In senso generale, il primo problema riguarda il potere del diritto di dirimere efficacemente i conflitti fra richieste sociali diverse e, dunque, il tema della legittimazione della norma in conformità a considerazioni vincolanti per tutti gli associati ad una determinata comunità.

Weberclxvi aveva definito il diritto come una tecnica di governo (un potere

governamentale lo qualificherebbe Foucault) che tende ad istituzionalizzarsi, e cioè a permanere nel tempo oltre i soggetti che hanno esercitato il potere di affermarlo.

La norma giuridica è quindi una norma formale, in quanto consente di rendere razionali e comporre tendenze e valori diversi attribuendo loro il significato di legittimità. Il diritto, per Weber, costituisce un sistema formale dove le istituzioni che danno vita alle norme sono innanzi tutto autonome da altre istituzioni (ad esempio, quelle economiche), mentre le norme stesse per essere tali devono costituirsi come impersonali (dunque devono andare oltre le volontà dei soggetti individuali) e devono essere riconosciute dai consociati di una determinata organizzazione societaria. La natura delle norme è pertanto quella della generalità e dell’astrattezza, nonché della loro coerenza con il sistema giuridico complessivo. La razionalità della norma si fonda su uno scopo razionale al di là di ogni considerazione di ordine etico - valorialeclxvii.

Il diritto, secondo la concezione di Weber, non sembra così riconoscere che la sua stessa razionalità, escludendo altre forme di razionalità, come ad esempio quelle che derivano dalla forza del mercato, le cui conseguenze la norma giuridica non è in grado né di stabilire né di prevedere.

Nei confronti del mercato oppure di istanze valoriali (etiche, religiose od orientate ad assicurare la libertà di ricerca da parte delle bioscienze e di applicazione di nuovi prodotti biotecnologici) la norma deve essere autonoma e capace di integrare i significati sociali in vista del superamento dei conflitti fra sensibilità etiche spesso affatto diverse.

Il carattere astratto che qualifica il diritto sembra proprio rispondere a questa esigenza di superamento dei conflitti, in quanto consente alla norma di ritirarsi o di allontanarsi dal

luogo materiale del conflitto fra aspettative non immediatamente componibili. Tale carattere astratto si fonda comunque su un sistema sociale relativamente stabile, dove le tensioni determinate dai valori in conflitto, pur consentendo l’evoluzione delle istituzioni giuridiche, non sono in grado di modificare la forma della norma, cioè la sua capacità di razionalizzare istanze diverse in vista di un certo scopo, e dei modi della produzione giuridica. Ciò, invece, si verifica nel momento in cui la norma giuridica è costretta non tanto a selezionare fra istanze ed aspettative sociali, ma piuttosto a regolamentare diritti fondamentali sulla base delle aspettative che sorgono dalla modificazione in senso globale del mercato (con superamento di fatto degli ordini giuridici riferiti a specifiche comunità di associati) oppure dai progressi delle bioscienze che possono determinare nuove forme di identità esistenziali, anche legate alla possibilità di mutare la natura biologica dell’uomo e conseguentemente i suoi comportamenti e le sue aspettative.

La forma astratta della norma può essere concettualmente assunta come forma comprendente la vita nella norma, come regolazione dall’alto sui comportamenti e sulle relazioni. La norma è qui intrinsecamente stabile, in quanto si limita a regolamentare la vita dall’esterno, ovvero i movimenti e le interazioni fra soggetti riconosciuti dal diritto. La norma è cioè pratica governamentale che definisce e regola dall’esterno i movimenti delle relazioni e degli oggetti sociali.

Il rapporto fra norme giuridiche e forme dell’interazione diviene, viceversa, instabile se sottoposto a sollecitazioni che per natura, intensità e velocità con cui si manifestano, modificano la forma stessa dell’interazione giuridica la quale, per non pochi aspetti, si ritrova incapace di regolamentare con efficacia il progresso scientifico.

Scrive al proposito Alberto Pizzoferrato: “ Il controllo sullo sviluppo delle biotecnologie avanzate e delle loro applicazioni costituisce un rilevante problema riguardante la sicurezza per la sanità pubblica, l’ambiente e la dignità della persona. Le biotecnologie innovative atte ad inserire geni umani in batteri e in animali, geni umani e di animali nelle piante allo scopo di produrre organismi geneticamente modificati (batteri, animali e piante transgenici) stanno determinando uno sviluppo molto rapido della cultura scientifica che coinvolge l’interesse industriale per applicazioni in vari campi produttiviclxviii. Ed ancora: “La rapidità di adattamento delle regole non è proporzionata alla rapidità di sviluppo della scienza dell’ingegneria genetica e per

questo non riesce a risolvere il conflitto significativo fra la protezione dei mercati liberi e la tutela della sanità pubblica e dell’ambiente”clxix.

Osserva Pizzoferrato che “si creano così dei vuoti nomativi che vanno colmati attraverso il ricorso a regole bioeticheclxx generalmente accettate, al sentimento sociale ed alla moralità collettiva. In tal senso le norme giuridiche devono essere costruite intorno a clausole generali che rinviano alla percezione sociale di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato in un dato contesto storico ed ambientale di riferimento. La verifica di liceità di certe pratiche o dell’uso di certi prodotti rimane dunque ancorata ad un giudizio storico di valore, che si rinnova ed aggiorna in relazione all’evoluzione scientifica ed alla impressione che di essa si forma l’opinione pubblica. La linea di demarcazione fra ricerca scientifica eticamente corretta e ricerca scientifica che produce risultati illeciti in quanto contrastanti con i valori prioritari assunti a base della convivenza civile di una data società, si presenta del tutto mobile e fluida, ed anche imprevedibile nell’andamento progressivo. Dunque, se in tale settore non ci si può sottrarre alla formulazione di linee di indirizzo e di convergenza verso obiettivi condivisi, tali linee nel concreto vanno progressivamente ricavate dai punti fermi e dai compromessi raggiunti dalla bioetica, secondo un processo di incorporazione e filtraggio delle regole bioetiche nel tessuto giuridico vigente. In tal modo può essere garantito sia il continuo ammodernamento dei precetti giuridici alle sensibilità sociali, sia la sanzionabilità e conseguente possibilità di repressione di quei comportamenti giudicati di rottura rispetto al comune sentire e in spregio a valori ritenuti fondanti delle relazioni sociali”clxxi. Per il giurista, infatti, “non si può affrontare il tema dell’ammissibilità e della liceità della brevettazione del viventeclxxii, se prima non siano state tracciate le coordinate dei consenso sociale ed accettabilità morale delle diverse forme ed ambienti di manipolazione genetica. Tali coordinate vanno individuate partitamente, in relazione ad ogni specifica tecnica e settore di impiego, risultando del tutto evidente come il ricorso a materiale animato abbia gradi molto variabili di pericolosità che debbono essere evidenziati e valutati caso per caso”clxxiii. Infatti, l’Autore osserva che le biotecnologie che intervengono sul corpo umano pongono “direttamente a confronto i diritti che nascono da un’invenzione industrialmente utilizzabile e la più intima struttura del corpo umano; e poiché la dimensione corporale di ogni persona si trova profondamente intrecciata alla dimensione intellettuale e

spirituale della medesima, ecco che il diritto di brevetto è entrato inevitabilmente in rapporto diretto con la dignità della persona umana, cioè con quella caratteristica generalissimo della medesima nella quale suole ricapitolasi il complesso delle qualità particolari (fisiche, intellettuali, morali e spirituali, intessute queste ultime di tensioni verso la libertà e l’uguaglianza) che ad essa appartengono in modo essenziale”clxxiv Ora, quindi, le bioscienze e la tecnica sono in grado di costruire nuovi rapporti. Da qui sorgono le riflessioni di Natalino Irti secondo cui: "La tecnica moderna, riducendo la natura a oggetto sfruttabile e manipolabile, e conferendole di caso in caso il proprio volto (che è poi il volto dell’uomo), la cancella come mondo contrapposto alla storia. Il diritto, nello sporgersi dalla storia, non la trova più di fronte o di contro a sé. L’uomo, che pone le norme, è il medesimo che foggia e determina il volto della natura, il medesimo che sperimenta la tecnica sulle cose esterne, sicché egli - come notò Werner Heisenberg - incontra sempre e soltanto sé stesso. […]. Potremmo dire che l’unità originaria, la compattezza del cosmo, si è ristabilita, attraendo la natura dentro la nostra stessa storia, e perciò abolendola come physis contrapposta al nomos. La crisi del diritto naturale coincide con la crisi dell’immagine oggettiva ed extra - storica della natura. Altri e gravi annunci darebbe l’uomo folle dell’aforisma nietzscheano. Non soltanto la morte della divinità, e la manipolazione tecnica della natura, ma anche la dissolvenza o il declino di quei simboli e istituti terreni, con cui l’uomo aveva cercato di colmare l’assenza di principi meta - storici o di reintrodurli sotto altre forme”clxxv. La crisi del diritto naturale inizia con il regicidio di Luigi Capeto nel 1793 che, ricorda Irti, Albert Camus indica come “una delle fonti del moderno nichilismo”clxxvi, regicidio che ha segnato, infatti, la fine del diritto divino, in quanto il rappresentante di Dio in terra fondava in sé la propria legittimità, oltre la quale non vi è appello. “Il giurista può altresì notare che, venuto meno il principio teologico di legittimità, quest’ultima finisce per coincidere con la positiva legalità. Ciò che è legale - ossia definito mediante norme - è insieme legittimo, poiché non disponiamo di alcun criterio o misura, capace di sovrastare il diritto storico e di farsene giudice. Contro il diritto positivo non c’è più istanza di appello, ma solo volontà di abrogare o modificare le norme, e dunque d’introdurre altro e diverso diritto positivo. Degli altri istituti terreni, che un tempo sostenevano e proteggevano il diritto, e che ora o sono tramontati o appaiono

controversi, menzioneremo la tradizione romanistica, i codici, la sovranità territoriale degli Stati”clxxvii.

Il diritto è andato oltre i suoi confini, in qualche modo li ha persi oppure, si potrebbe anche sostenere, li ha dilatati, tanto da rendere difficile la stesura di una grammatica giuridica in grado di rappresentare la fluidità degli ordinamenti.

Questa dilatazione del diritto oltre i suoi confini tradizionali è presente nel pensiero della sociologa del diritto Maria Rosaria Ferrarese secondo la quale: ”Gli spazi in epoca moderna si sono fatti essi stessi cinetici, come notava Schmitt, ossia soggetti a un campo di forze dinamico capace di trasformarli. Gran parte di questa mutata percezione è dovuta a un progresso tecnologico che ha inciso profondamente sugli spazi in vari modi […]” e “vi sono essenzialmente due modalità di produrre sconfinamenti: una modalità hard e una modalità soft. La prima modalità trova la sua principale espressione nella guerra; la seconda trova espressione attraverso altri linguaggi, basati sulla convergenza e sullo scambio piuttosto che sul conflitto, come quello dell’economia e della tecnica, o del richiamo a un’etica universalistica. La prima modalità ha il carattere della pesantezza e produce la lesione materiale dei confini e un loro spostamento: dopo il suo intervento, i confini non sono più gli stessi e vanno ridisegnati sulla mappa geografica e politica. Il diritto internazionale europeo era strettamente interconnesso con questa modalità e con la riscrittura dei confini. La seconda modalità ha il carattere della leggerezza e della lesione virtuale dei confini: essa non determina un cambiamento di confini, ma dopo il suo intervento, i confini hanno mostrato una più o meno pratica irrilevanza […]. Se nel passato era soprattutto la guerra a produrre sconfinamenti, il nostro mondo registra invece un deciso arretramento della guerra come modalità per produrre sconfinamenti e vede la tecnica in posizione eminente nella capacità di attraversamento dei confini, sia pure in senso virtuale”clxxviii.

E’ proprio la tecnica che modifica, comprime e dilata, l’orizzonte dei rapporti sociali e, dunque, anche dei rapporti giuridici riformulandoli a livello globale e mettendo in crisi le definizioni che dei confini ha dato la concezione illuminista, fondata sulla nettezza delle distinzioni, così come è andata in crisi l’idea, di origine montesquieuiana, di divisione dei poteri. Si assiste infatti, come nota Ferrarese, a nuove strategie, pratiche e modalità di deterritorializzazione e denazionalizzazione dove mutano le antiche gerarchie sociali ed economiche e “le nuove tipologie di diritto sono dunque variamente

collegate con due aspetti tipici della globalizzazione, entrambi connessi con l’evoluzione tecnica. In primo luogo, il fatto che la globalizzazione è stata indotta da una capacità tecnica di compressione spaziale e temporale del mondo, che rimette in gioco le vecchie linee di divisione politica; in secondo luogo il fatto che la stessa tecnica ha potenziato enormemente i soggetti privati, in primis le grandi imprese multinazionali, attentando al protagonismo assoluto degli Stati, che era tipico del vecchio scenario”clxxix.