CAPITOLO 3: i Musei Civici di Padova
3.9 Il secondo trasferimento di sede del Museo nella “cittadella della cultura”
La conclusione della seconda guerra mondiale portò con sé un periodo di forti ristrettezze finanziarie, che investì tutta l’Italia e che si fece sentire molto anche nel settore museale (Banzato, 2010). Ciononostante, fu un’epoca molto felice per quanto riguarda il settore museografico italiano, in cui la ricostruzione dei musei venne eseguita da importanti architetti che diedero prova delle loro competenze. Non solo si cercò di riportare la situazione a quella che definiva i musei nel periodo prebellico, ma si investirono molte attenzioni anche nella ricerca di nuove soluzioni che apportassero degli avanzamenti e dei progressi in quelle che erano i contesti che caratterizzavano i musei precedentemente (Fiorio, 2011).
Fu in questo periodo che nel Civico Museo patavino il suo allestimento risentì di una pensante diminuzione spaziale riguardante l’esibizione dei materiali artistici. Ciò lo si intuisce, per esempio, nella mancanza di un’apposita sala che avrebbe dovuto ospitare i 543 dipinti della quadreria Emo Capodilista. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, fino agli anni Settanta, l’aspetto con cui si presentava il Museo venne fortemente influenzato dal Comitato in cui faceva parte l’illustre Giuseppe Fiocco che ne orientò i criteri allestitivi. Si noti, quindi come ormai risultassero obsolete le scelte intraprese in precedenza dal direttore Andrea Moschini (Banzato, 2010).
Similmente a come accadde ai tempi in cui il Museo era conservato nelle stanze del palazzo comunale, quando lo stesso primo direttore lamentava il bisogno di trovare una nuova soluzione per ospitarne le collezioni civiche, anche Andrea Moschetti ne desiderava un’altra sede che fosse più grande (Banzato 2000). Nel tempo si diffuse un motto “Tra Giotto e Mantegna” per indicare dove le raccolte civiche avrebbero potuto trovare una degna collocazione, ossia nella zona in cui era inserito l’ex-convento degli Eremitani, situato tra la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto e quella Ovetari decorata, invece, da Andrea Mantegna (Gay, 2010). Nonostante questa zona, compreso l’edificio sconsacrato, dal 1803
107
divenne di pertinenza militare, c’era chi, come Pietro Selvatico, ne proponeva come utilizzo quello a sede del Civico Museo già dalla fine dell’Ottocento (Progetto di riqualificazione dei Musei Civici di Padova agli Eremitani, 2011; Banzato, 2000).
Durante la seconda guerra mondiale, nel 1944, a causa del lancio di alcune bombe che avevano come obiettivo la zona militare patavina, vennero colpiti e parzialmente danneggiati sia la chiesa che conservava gli affreschi di Mantegna, che il convento stesso. Una volta concluso il conflitto presero l’avvio dei lavori di risistemazione voluti da quello che all’epoca era chiamato Genio Militare, nello stesso luogo soggetto ai danni bellici. Vennero, così riscoperti dei lacerti di pitture, questo fu un avvenimento estremamente rilevante perché se inizialmente l’idea principale della municipalità fu quella di realizzare ex novo un edificio in quella zona, che potesse essere identificato come una “cittadella della cultura”, tale ritrovamento convinse nella metà degli anni Sessanta il Comune a mantenere l’ex edificio religioso, composto da due chiostri, e renderlo la nuova sede in cui ubicare le collezioni civiche (Gay, 2010). Fu, però, nel decennio precedente, grazie al Sindaco Cesare Crescente, che l’intera area, comprendente il convento trecentesco, venne appositamente rilevata dalla municipalità per trasformarla in museo (Progetto di riqualificazione dei Musei Civici di Padova agli Eremitani, 2011).
Avvennero così dal 1961 circa al 1966 delle modifiche pensate per far spazio a quello che sarebbe diventato il nuovo edificio museale, che causarono delle demolizioni abbastanza pesanti, come quelle relative a delle strutture che sarebbero servite, secondo il Genio militare, come supporto di sostegno alla chiesa, tra cui c’era anche un edificio progettato probabilmente da Camillo Boito.
Il Comune patavino nell’ottobre del 1966 aprì un bando per presentare dei progetti che interessassero la Pinacoteca, dando al celebre architetto Franco Albini il compito di assistere l’amministrazione in questo impegno. Nello specifico il programma che si voleva attuare per la sistemazione del museo era articolato in due sezioni: una interessava la parte preesistente del convento, dove sarebbero stati depositati i materiali archeologici, che avrebbe riguardato direttamente il Comune; l’altro, aperto ai privati, invece, era inerente alla creazione dell’edificio che sarebbe diventato la Pinacoteca, ma in cui oltre ai quadri si sarebbero esposte anche le sculture. A quest’ultimo venne fatta una precisazione, che originerà una serie di problematiche, ossia venne concesso di prendere in considerazione la realizzazione della Pinacoteca non esclusivamente nelle zone descritte dal bando pur però rispettando quelle
108
verdi, relative ai parchi comunali. Tra le 12 proposte presentate fu quella, estremamente futuristica, di Maurizio Sacripanti a vincere, ma fece sorgere soprattutto nel direttore museale dei dubbi, tant’è che nel 1968 venne ripresentato il disegno con delle modifiche per sopperire a tali rimostranze, ma il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti ugualmente lo bocciò. Vennero così riviste le varie norme che regolamentavano la realizzazione del progetto, da cui emersero delle irregolarità, in quanto la zona in cui era inserito il complesso degli Eremitani, era legata anch’essa, secondo il piano regolatore, alle aree verdi di Padova, per ciò non si poteva costruire su di essa. Il bando comunale quindi si concluse con un nulla di fatto.
Nel 1969 i lavori vennero ripresi dagli architetti Albini, Helg e Piva, questi vennero pianificati come nell’66 in due parti, una per il recupero delle parti esistenti e l’altra per l’edificazione di una nuova costruzione. Ugualmente, però, con il progredire delle attività sorsero delle complicazioni e degli impedimenti, in quanto gli architetti iniziarono a metter mano su cantieri che erano già stati aperti dall’Ufficio Civico Lavori Pubblici della città. L’intenzione del gruppo Albini, a differenza di come si erano condotti i restauri comunali, era quella di mantenere distinte le parti originali dalle integrazioni moderne che avrebbero realizzato e di creare continuità tra le architetture antiche da quelle create ex novo. Le scelte intraprese vennero nel tempo più volte riviste dagli architetti, assecondando le decisioni della Soprintendenza e del Consiglio Superiore, fino a quando la guida all’Settore Edilizia Pubblica e Beni Culturali di Padova venne assunta da Gianfranco Martinoni e i lavori finora intrapresi da Albini, Helg e Piva si fermarono. Le maggior riserve dell’amministrazione riguardavano l’idea degli architetti di realizzare una nuova struttura, tant’è che negli anni Ottanta, divenuta Soprintendente Gabrielli Pross, volle addirittura eliminare i lavori compiuti in uno dei due cortili del convento. Prese così l’avvio un contenzioso tra la Soprintendenza e il Consiglio Superiore, che si concluse il 28 dicembre 1987, il giudice si espresse sulla vicenda valutando la presenza della struttura non regolare, decretandone lo smantellamento. L’intenzione, invece, di vedere demolito il resto del cantiere non ottenne l’approvazione una volta ricorsi all’appello (Gay, 2010). Tutta la vicenda che interessò i lavori per la nuova sede museale da parte del gruppo di architetti chiamati dal Comune negli anni Sessanta non venne portata a termine perché la tanto attesa Pinacoteca non venne edificata e nel 1996 venne eliminata la costruzione situata all’ingresso del convento (atlantearchitetture, 2020).
Prima di spostare le raccolte nel complesso degli Eremitani, vennero organizzate delle esposizioni, appositamente per studiarne le possibili combinazioni di allestimento; fu nel 1985
109
che iniziò ufficialmente la movimentazione dei beni artistici da una parte all’altra della città. Le prime collezioni che vennero portate tra Giotto e Mantegna, furono quelle che costituivano il Lapidario, cercando di disporre i vari pezzi seguendo un ordinamento che fosse storicamente lineare e distinguendo i materiali che l’abate Furlanetto catalogò, da quelli donati alla municipalità. Nello stesso anno trovarono una loro collocazione nella nuova sede anche i lasciti di Nicola Bottacin, il cui allestimento rispetto a quello che aveva assunto precedentemente, cambiò molto. Il trasferimento, invece, dei restanti materiali, che avrebbero successivamente composto il Museo d’Arte Medievale e Moderna, avvennero tre anni dopo, ossia nel 1988, dove, come si è analizzato, anche la quadreria Emo Capodilista ottenne la giusta sistemazione (Banzato, 2008).