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SEGRETO INVESTIGATIVO E DIVIETO DI PUBBLICAZIONE DI ATTI DI UN PROCEDIMENTO PENALE

3.a Considerazioni preliminari

Il giudizio penale presenta diverse particolarità rispetto al processo civile e a quello amministrativo, da un lato dovute al forte impatto che il reato ha sull’opinione pubblica, e dall’altro a questioni che, seppur tecniche, assumono una grande rilevanza sulla diffusione nella collettività delle notizie ad esso riferite.

Bisogna considerare, tra queste, che nel solo processo penale l’udienza è pubblica, ad eccezione dei casi in cui esso viene svolto a porte chiuse per particolari ragioni di segretezza dovute alla tipologia di reato o a qualità proprie dell’accusato. In questo senso, il procedimento penale può essere considerato la massima espressione della

pubblicità del giudizio agli occhi della collettività, senza però dimenticare che esso si compone di diverse fasi distinte e concatenate che culminano nel processo e, in caso di esito sfavorevole all’accusato, nella punizione del reo.

Il processo penale trova quindi ragione di essere “pubblico” proprio nella possibilità per la collettività di venire a conoscenza della notizia che si sta procedendo contro un determinato imputato, in questo modo i membri della società, vengono messi a conoscenza dei fatti accaduti e della pronta azione delle istituzioni. Questa forma di garanzia nei confronti della collettività si trasforma però in una sorta di condanna preventiva del reo, che si trova ad essere giudicato socialmente ancora prima dell’emissione delle sentenze di tutti i gradi di giudizio a cui egli ha diritto.

Per garantire il corretto corso della giustizia e, al contempo, rispettare il principio di non colpevolezza sancito dall’art. 27 Cost., la legge ha stabilito alcuni limiti alla conoscenza pubblica di atti del procedimento e contenuti di essi, coprendoli con il segreto istruttorio, abolito con l’introduzione del codice di procedura penale Vassalli del 1989 e sostituito dal segreto investigativo, di cui all’art. 329 c.p.p..

L’articolazione del segreto investigativo è molto delicata e non si limita al solo citato articolo del codice di procedura penale. L’impianto normativo nel suo complesso prevede infatti sanzioni per la sua violazione e la giurisprudenza ha spesso toccato questo argomento: i limiti del segreto coincidono molte volte con quelli del diritto di cronaca e della garanzia per il cittadino di informare, ad esempio attraverso le nuove potenzialità fornite da Internet, ed essere informato, creando numerosi conflitti tra

norme solo apparentemente contrastanti, ma che in realtà sono diritti diversi in capo agli stessi individui.

3.b Procedimento e processo: le linee generali del procedimento penale

Confusi spesso nel linguaggio comune, i termini “procedimento” e “processo” non sono in realtà sinonimi. E’ importante distinguere i due concetti, in quanto il codice utilizza questi termini nella loro accezione tecnica e considerarli sinonimi provocherebbe degli errori concettuali sotto molti aspetti e in molti ambiti.

Con procedimento si indica "una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale"34 ed esso è diviso in tre fasi distinte: le indagini preliminari, l’udienza preliminare e la fase del giudizio.

Le indagini vengono svolte dal Pubblico Ministero coadiuvato dalle forze di Polizia giudiziaria, siano esse rivolte all’accertamento dei fatti in oggetto o indirizzate più specificamente a raccogliere elementi di prova a carico di un determinato soggetto. Lo svolgimento di indagini nei confronti un individuo accusato di un reato non comporta necessariamente che si arrivi alla fase dibattimentale: il procedimento, infatti, può arrestarsi prima ancora che venga formulato un capo di imputazione e si passi al giudizio, concludendosi in tal modo con una richiesta di archiviazione. Proprio l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, con l’addebito

di un fatto di reato ad un soggetto accusato e la conseguente richiesta di rinvio a giudizio, è il punto di snodo nel procedimento: le due fasi successive dell’udienza preliminare e del giudizio costituiscono infatti i momenti che vanno sotto la denominazione unica di “processo”.

Il primo passaggio processuale, quello dell’udienza preliminare, assolve a tre compiti principali:

a) funge da filtro a imputazioni azzardate concludendo il procedimento con l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere;

b) ha il ruolo di garanzia dovuta alla facoltà eccezionale di assumere in determinati e rari casi prove, valide però solamente per questa fase e non riutilizzabili per quella dibattimentale;

c) è il momento in cui può essere operata l’eventuale scelta tra le ipotesi di riti alternativi al normale procedimento, ricordando che solo in questa fase si può approdare al rito abbreviato o al patteggiamento.

d) Nella fase dibattimentale avviene la vera e propria formazione della prova: secondo i principi del processo accusatorio si ascoltano, nel contraddittorio tra le parti, testimoni, periti e parti fino ad acquisire elementi sufficienti per la formulazione di un giudizio, redatto in forma di sentenza motivata. Quest’ultima non si considera definitiva fino a quando non venga confermata o riformata dall’ultimo grado di giudizio possibile per il procedimento in questione e solo in quel momento la macchina giudiziaria si arresta.

e) Così come formulato nella normativa in esame, il segreto investigativo è riferito strettamente alla fase delle indagini preliminari, in modo tale da garantire il corretto svolgimento delle stesse. La tutela del procedimento non si ferma alle sole azioni investigative, ma in casi eccezionali, molto spesso parziali, essa può essere estesa alla fase dibattimentale, a garanzia stavolta sia del suo pacifico svolgimento, sia del corretto convincimento del giudice, il quale deve poter non essere influenzato da interpretazioni e rielaborazioni esterne al procedimento.

Con questi obiettivi, e non senza critiche, è stato costruito l’impianto normativo del segreto investigativo e dei divieti di rivelazione e pubblicazione così come li conosciamo oggi.

3.c Inquadramento normativo, nozione generale di segreto investigativo

Il segreto investigativo rappresenta un limite implicito di natura pubblicistica al diritto dell’informazione, di cui all’art. 21 Cost., e trova la sua espressione normativa principale all’art. 329 c.p.p.

Il primo comma recita:

1. Gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

L’estensione del segreto è un punto focale, soprattutto considerando l’abolizione del segreto istruttorio attuata nel 1989. La norma stabilisce, infatti, che il segreto decade nel momento in cui l’accusato viene a conoscenza della propria posizione, sia in via formale tramite invio di avviso di garanzia da parte del Pubblico Ministero sia in via informale tramite richiesta dello stesso o del suo difensore alla Procura della Repubblica di conoscere il proprio stato di fronte alla legge. Molto spesso però il soggetto viene a conoscenza della propria posizione di indagato solo nel momento in cui le indagini preliminari si chiudono e viene formulata dal Pubblico Ministero una richiesta di rinvio a giudizio: prima che questo avvenga, il cittadino non ha precisa conoscenza del reato per cui potrebbe essere perseguito, quale Procura proceda nei suoi confronti, degli elementi eventualmente raccolti a suo sfavore e addirittura da quanto tempo vadano avanti le indagini. Anche in questo caso, la norma stabilisce che il segreto investigativo non possa protrarsi comunque oltre la fine delle indagini preliminari.

Il segreto istruttorio stabiliva invece che la segretezza fosse garantita per l’intera durata dell’istruttoria, di conseguenza fino al termine delle indagini, con il risultato che l’indagato scopriva di essere tale solo se e quando veniva formulata l’imputazione.

A questo proposito, si può ricollegare un’altra annotazione: il testo cita espressamente gli atti di indagine del Pubblico Ministero e della polizia giudiziaria, escludendo volutamente le indagini della difesa, a riprova del fatto che queste godono di un

apparato normativo particolare e a sé stante, in svantaggio rispetto alla pubblica accusa: modalità, tempi e soprattutto mezzi in mano alla difesa sono decisamente ridotti e, molto spesso, anche il miglior uso degli strumenti a disposizione del difensore non basta ad eguagliare i risultati raggiunti dalla controparte, con una evidente compromissione del diritto alla difesa da parte dell’individuo.

I restanti tre commi dell’art. 329 c.p.p. trattano dei casi speciali di deroga al segreto da una parte e alla pubblicazione di singoli atti dall’altra. Nel caso si renda necessario per la prosecuzione delle indagini, il Pubblico Ministero può, previo decreto motivato, consentire la pubblicazione di singoli atti o parti di essi depositati presso la propria segreteria e, per la stessa necessità di indagine e con la stessa modalità, disporre, al contrario, l’obbligo alla segretezza su determinati atti o parti di essi su consenso dell’imputato o quando la conoscenza pubblica di tali elementi rischi di compromettere indagini su terze persone. Allo stesso modo, il pm può vietare la pubblicazione del contenuto di singoli atti o particolari notizie relative a determinate operazioni.

Al secondo comma si fa riferimento ad un altro articolo del codice di procedura penale, l’art. 114 c.p.p., nel quale si esplicitano i casi particolari in cui è possibile apporre il divieto di pubblicazione, suddividibili in quattro macroaree.

La prima area, composta dai primi due commi dell’articolo 114 c.p.p., riguarda ancora l’ambito delle indagini e dell’udienza preliminari. In questa fase è vietata la pubblicazione di atti coperti da segreto o del loro contenuto, anche parziale o in

forma di riassunto. Lo stesso divieto di pubblicazione anche parziale si deve intendere esteso agli atti non più coperti da segreto fino alla conclusione delle indagini o dell’udienza preliminari.

La seconda area, i commi dal terzo al quinto art. 114 c.p.p., interessa il raggiungimento o meno della fase di dibattimento. Per il primo caso le disposizioni sono molteplici: non è consentita la pubblicazione (anche qui intesa in senso sia in integrale che parziale) degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento fino alla sentenza di primo grado. La pubblicazione degli atti del fascicolo del Pubblico Ministero è invece vietata fino alla pronuncia della sentenza in appello. Ad essere libera è la sola pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni.

Disposizioni particolari sono previste per il processo celebrato a porte chiuse, per il quale la pubblicazione degli atti è vietata in ogni caso. Il giudice può inoltre autorizzare, sentite le parti, il divieto anche per gli atti utilizzati per le contestazioni. Tali divieti cessano comunque una volta trascorsi i termini di legge di segretezza sugli archivi dello Stato, o dopo dieci anni dalla sentenza irrevocabile, e nel momento in cui la pubblicazione viene autorizzata dal Ministro di Grazia e Giustizia.

Nel caso in cui il procedimento non arrivi alla fase dibattimentale il giudice può disporre, in accordo con le parti, il divieto di pubblicazione anche parziale di atti qualora questa si dimostri lesiva del buon costume, di altri interessi dello Stato o della riservatezza di testimoni o altre parti private. Per la cessazione del divieto e le

disposizioni successive si fa riferimento al comma precedente.

La terza area, composta dai commi 6 e 6bis art. 114 c.p.p., è dedicata alle garanzie di riservatezza di una categoria sensibile quale quella dei minorenni chiamati in giudizio e alla tutela dei soggetti privati della libertà personale tramite mezzi di coercizione fisica. Per entrambi è vietata la pubblicazione della propria immagine e di elementi che ne permettano, anche indirettamente, il riconoscimento dell’identità.

L’ultimo comma dell’articolo riporta una formulazione piuttosto netta: "E' sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto". La scelta linguistica attuata dal legislatore del termine “contenuto” è piuttosto discutibile in quanto questo "non è certo idoneo a realizzare lo scopo perseguito dal legislatore, giacché esso, qualora inteso nel suo preciso significato letterale, verrebbe a ricomprendere l’atto nella sua interezza35"e non verrebbe perciò ad assumere alcun valore limitativo. Questa difficoltà a distinguere uno dall’altro concetto porterà chiaramente, a meno di un intervento giurisprudenziale che risolva la questione, gli organi di stampa e di informazione in generale a cercare un più ampio margine di pubblicabilità a scapito del divieto. Cercare di desumere quale fosse il reale intento del legislatore dall’impianto normativo complessivo in materia risulta poi piuttosto difficile, poiché la combinazione delle diverse disposizioni non è armonica; anzi, porta alla luce ulteriori contrasti con il terzo comma dell’art.329 c.p.p., per cui al punto b), ai fini delle indagini, il Pubblico Ministero può vietare la pubblicazione

35 P.P. RIVELLO, Prevedibili incertezze della distinzione ex art. 114 c.p.p. tra l’atto e il suo contenuto, in Riv. It. dir.

del contenuto di singoli atti anche dopo la caduta del segreto. L’unica via possibile appare dunque quella di un’interpretazione riduttiva del settimo comma dell’art. 114 c.p.p., in modo da escludere il dettato del già citato art. 329 dello stesso codice.

Alla violazione del divieto di pubblicazione nelle sue diverse accezioni e alle sanzioni per essa sono dedicati rispettivamente l’art. 115 c.p.p. e l’art. 684 c.p. che saranno trattati in seguito.

3.d Il segreto investigativo: motivi fondanti

Per poter comprendere appieno l’articolazione della normativa sul segreto investigativo e i divieti di pubblicazione, è necessario tenere ben presente quale fosse la ragione di fondo che spinse il legislatore a rielaborare quasi integralmente il testo di legge ed orientarlo in una direzione diversa rispetto al passato.

A porsi in primo piano al momento della formulazione della legge delega fu "lo scopo di tutela dell’accusatorio, l’intento di evitare il pregiudizio del giudice, determinato da conoscenze esulino da quelle utilizzabili per la decisione"36. Al centro delle attenzioni del legislatore delegante e del legislatore delegato era quindi la tutela delle indagini preliminari svolte dal Pubblico Ministero, in collaborazione con la Polizia giudiziaria; anche a scapito non solo dello stesso indagato, ammesso che egli sia a

36 G. INSOLERA, Tutela penale del segreto e tutela delle parti processuali, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, III, Giuffré, 2006, pag. 2435.

conoscenza di essere tale, ma anche del difensore, il quale ha solo venti giorni di tempo per ricercare eventuali elementi di prova a favore del proprio assistito, contro i tempi molto più lunghi a disposizione degli organi giudiziari.

La scelta di tutelare in primo luogo il corretto convincimento del giudice del dibattimento applicando il segreto alle indagini preliminari, appare "legata alla struttura del nuovo processo, incentrato sul dibattimento come luogo elettivo di formazione della prova"37. In questo senso, si configurava la necessità di prevedere un giudice libero dal condizionamento di conoscenze che non si formino nel corso del dibattimento. A questa considerazione centrale se ne ricollega un’altra non meno importante: le attività “istruttorie” delle parti sono ad esclusivo uso e consumo delle stesse per prepararsi alla fase dibattimentale e a presentare elementi di prova a sostegno della propria tesi; non servono perciò al giudice38.

Il segreto rivolto alla figura del giudice dibattimentale opera perciò su due differenti piani: una forma speciale di segreto interno, per cui gli è preclusa la conoscenza dei risultati investigativi conseguiti dalla Procura, a meno che questi non siano eccezionalmente destinati a valere come prova nello stesso dibattimento; ed una forma di riservatezza esterna al procedimento in senso stretto, con lo scopo di evitare che il giudice possa prendere cognizione tramite stampa o altri mezzi di informazione degli stessi atti, questa volta di cui viene vietata rivelazione e pubblicazione.

37 G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, Milano, Giuffré, 1989, pag. 331. 38 Ibidem.

Quest’ultimo divieto decade nei tempi e modi stabiliti per legge, ma nella sua formulazione non mette completamente a riparo da condizionamenti ben più gravi per il giudice, che potrebbero comunque avvenire attraverso i mezzi di comunicazione. Solo per citarne alcuni, la divulgazione di indagini puramente giornalistiche, dichiarazioni extraprocessuali autonome rendibili da testimoni, inquisiti, funzionari di polizia giudiziaria o altri attori del procedimento, campagne di stampa promosse a favore di una determinata ipotesi investigativa o le pressioni esercitabili da opinion makers o in generale da un’opinione pubblica che attenda provvedimenti giudiziari in un determinato senso maturati in discussioni attorno ai fatti precedentemente resi noti dagli stessi organi di informazione. Considerando tutte queste opzioni di influenza esterna, la scelta da parte del legislatore di intraprendere la strada del divieto di pubblicazione degli atti di indagine a difesa della corretta formazione del convincimento giudiziale si presenta un po’ ingenua e leggera rispetto alla reale portata del rischio che l’obiettivo qui prefissato non venga raggiunto. Inoltre, in via estrema, questa prospettiva significherebbe interdire completamente la cronaca giudiziaria sull’attività di indagine fino al momento in cui può essere ancora emessa una pronuncia di merito, nei fatti sino alla conclusione del giudizio di secondo grado, causando una gravissima compressione del diritto/dovere di cronaca, costituzionalmente tutelato e pertanto irrinunciabile.

Nonostante la riforma del codice di procedura penale abbia ridotto il lasso di tempocoperto dal segreto investigativo dalla durata dell’intera istruttoria al

momento limite della chiusura delle indagini preliminari, l’esigenza di estendere il divieto di pubblicazione a determinati atti anche oltre questo termine si pone a compensare il contrapposto sacrificio della libertà di cronaca nel momento in cui viene disposto il rinvio a giudizio. Solo quando il giudice del dibattimento ha ricevuto il relativo fascicolo si realizza la possibilità di una pubblicazione integrale di tutto il materiale istruttorio raccolto dal Pubblico Ministero.

La direzione presa dal legislatore delegato nell’attuazione della legge delega, si è voluto ampliare significativamente l’ambito oggettivo e temporale di applicazione del divieto di pubblicazione, nell’intento di dare maggiore coerenza sistematica alla relativa disciplina. Il risultato ottenuto è stato però anche quello di restringere ulteriormente gli spazi della cronaca giudiziaria, senza che oltretutto venissero raggiunti soddisfacenti vantaggi in termini di maggiore tutela del convincimento giudiziale39.

Per continuare a perseguire questa strada, il legislatore ha stabilito che, secondo il nuovo sistema processuale, gli atti delle indagini preliminari che sono inseriti nel fascicolo del Pubblico Ministero debbano essere conosciuti dal giudice del dibattimento solo attraverso le contestazioni all’interno di esso. Da qui ne deriva che, se si consentisse la pubblicazione degli atti di indagine prima di questo momento, si determinerebbe una distorsione della regola processuale, ma anche un’anticipata e non corretta formazione del convincimento del giudice, per cui si

rende necessario a tal fine disporre il divieto di pubblicazione per determinati atti. Lo scopo è quindi di tutelare il delicato aspetto della terzietà e imparzialità del giudice dibattimentale, curando che si eviti una qualsiasi interruzione nell’operatività del divieto da cui potrebbe scaturire un vizio in merito.

Ma la formulazione concreta della normativa, insieme alla scelta di politica legislativa attuata da delegante e delegato, lascia dei dubbi sulla reale efficacia in tal senso, come emerge chiaramente dall’analisi puntuale del testo di legge anche dopo l’intervento di modifica e chiarimento da parte della Corte Costituzionale.

3.e Il giudizio di costituzionalità sull’art. 114 c.p.p. e considerazioni sulle questioni di applicazione del segreto

Dopo la riforma del 1989 e l’introduzione del nuovo codice di procedura penale Vassalli, la disciplina del nuovo segreto istruttorio è stata sottoposta a numerose verifiche di legittimità costituzionale.

Nonostante già nel 1992 fosse stata elaborata dalla Commissione giustizia della Camera un disegno in materia completamente innovativo, poi mai portato a termine, bisogna attendere la sentenza n. 59 del 1995 della Corte Costituzionale per avere un intervento davvero incisivo sulla normativa.

Il caso da cui ha preso le mosse la pronuncia della Corte verteva sulla pubblicazione delle trascrizioni di intercettazioni telefoniche nell’ambito di un caso di concussione

del Tribunale di Siracusa, avvenuta prima della pronuncia della sentenza di primo grado, chiaramente in contrasto con il terzo comma dell’art. 114 c.p.p. Nonostante il Pubblico Ministero avesse chiesto per gli indiziati l’archiviazione, in quanto avevano esercitato il legittimo diritto-dovere di cronaca e il reato di pubblicazione arbitraria non sussisteva, il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto opportuno verificare a monte la legittimità costituzionale della norma in oggetto. Le ragioni erano diverse: il

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