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LA PUBBLICAZIONE DEGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO PENALE: LIMITI E CRITICITA'.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

LA PUBBLICAZIONE DEGLI ATTI NEL PROCEDIMENTO PENALE:

LIMITI E CRITICITA'

Candidata Relatore

Camilla Cionini Prof.ssa Valentina Bonini

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Ai miei genitori e a mio fratello,

colonne portanti della mia vita.

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Indice

Introduzione

PARTE PRIMA

1. PROFILI STORICI

1.a Conoscenza pubblica nel codice di procedura penale del 1930 1.b Il segreto istruttorio

1.c Il divieto di pubblicazione

1.d Limiti della disciplina prevista dal codice del 1930 e proposte di modifica

2. I PRINCIPI DETTATI DALLA LEGGE DELEGA

2.a Il disegno del legislatore delegante e le direttive della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale

3. SEGRETO INVESTIGATIVO E DIVIETO DI PUBBLICAZIONE DI ATTI DI UN PROCEDIMENTO PENALE

3.a Considerazioni preliminari

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3.c Inquadramento normativo, nozione generale di segreto investigativo 3.d Il segreto investigativo: motivi fondanti

3.e Il giudizio di costituzionalità sull’art. 114 c.p.p. e considerazioni sulle questioni di applicazione del segreto

3.f Divieto di rivelazione e divieto di pubblicazione di atti coperti dal segreto

3.g Le sanzioni per la violazione del segreto investigativo e del divieto di pubblicazione

PARTE SECONDA

4. INFORMAZIONE, DIRITTO DI CRONACA E

PROFESSIONALITA' GIORNALISTICA NELL'AMBITO DEL PROCEDIMENTO PENALE

4.a Premessa

4.b La libertà di manifestazione del pensiero: l’art. 21 Cost., la normativa internazionale, la critica e il diritto di cronaca nell’ambito della giustizia penale 4.b.1 La libertà di manifestazione del pensiero nell’art. 21 Cost.

4.b.2 La libertà di manifestazione del pensiero nelle fonti sovranazionali: l’art. 10 della CEDU

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4.b.4 I limiti "impliciti" alla libertà di manifestazione del pensiero. Diritto di cronaca e segreto investigativo

4.c Il segreto professionale dei giornalisti: una garanzia per l'informazione?

4.d La prevalenza dell'esercizio del diritto di cronoca giornalistica rispetto al diritto all'onore e nella giurisprudenza di legittimità

4.e L'inosservanza del segreto come "nuova prassi": la pubblicazione di atti e la posizione dei giornalisti nei confronti del segreto investigativo

PARTE TERZA

5. MASS MEDIA, PUBBLICITA' DELLE PROCEDURE GIUDIZIARIE E "PROCESSI" MEDIATICI.

5.a Premessa: il "processo" mediatico 5.b Il diritto (rectius libertà) di cronaca

5.c Segue il diritto all'informazione e di informazione 5.d Segue: i limiti della verità e dell'interesse sociale 5.e Il rapporto tra processo e informazione

5.f La tutela del processo e la tutela della persona nel codice di procedura penale 5.g La tutela del processo: l'ammissione dei media in udienza

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5.h Segue: l'autorizzazione delle riprese e l'impossibilità di controllarne la trasmissione

5.i Segue: internet

5.l La tutela della persona: il principio di non colpevolezza 5.m Segue: il diritto alla riservatezza

5.n Segue: il danno permanente all'immagine, cenni

PARTE QUARTA

6. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

6.a La caverna mediatica-tecnologica: spunti 6.b Il corretto rapporto tra stampa e istituzioni

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INTRODUZIONE

"Non esiste segreto più violato di quello istruttorio."1

La sintetica affermazione di Ennio Fortuna riassume efficacemente il problema centrale di un impianto normativo, quello riguardante il segreto investigativo, piuttosto controverso e spesso oggetto di critiche e proposte di rimodulazione. Alla luce delle esigenze di giustizia che impongono una certa riservatezza su determinati atti di un procedimento penale, non si può prescindere dal mantenere nel nostro ordinamento dei provvedimenti che tutelino le garanzie intrinseche allo stesso procedimento, anche a discapito di altri diritti.

Lo scontro con il diritto di cronaca è forte e immediato: porre limiti ad un diritto costituzionalmente garantito quale la libera manifestazione del pensiero crea problemi non di poco conto, considerando soprattutto l’importanza crescente che i mass media e la comunicazione mediatica in generale hanno nella nostra società moderna. Quello che doveva configurarsi come un rapporto alla pari tra due diritti/doveri di eguale importanza ha preso invece la forma di uno scontro di sfere di potere dai contorni sfumati, aggravato da scandali e pressioni sugli organi giudiziari, da una parte, e dalla crescente e impellente richiesta da parte del pubblico di notizie inedite, dall’altra. Con una normativa da svecchiare e aggiornare da un lato e un’attività giornalistica costantemente da rinquadrare nel sistema giudiziario per

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adattarsi alle nuove esigenze politiche e sociali; gli strumenti a disposizione sembrano scricchiolare e non fornire risposte adeguate ad uno scontro tra norme che non trova un vincitore assoluto, tanto che si comincia a dubitare che ne si possa davvero avere uno e, se sì, quale.

L’unica possibilità per sciogliere i nodi di questo storico contrasto è tentare un’analisi dei punti fondamentali della questione, ricercando i limiti di applicazione ed espansione dell’uno e dell’altro diritto, per poter dare una definizione sicura delle rispettive sfere d’azione e chiarire le ragioni di fondo che hanno spinto la formulazione di tale impianto normativo così come lo conosciamo oggi, senza dimenticare gli strumenti in mano ai giornalisti professionisti e prospettive e progetti di riforma per il futuro. Lo scopo di queste pagine sarà quello di dimostrare come non si possa parlare di un vero e proprio scontro tra norme in aperto contrasto, ma di un bilanciamento di diritti che non possono essere in conflitto, in quanto fanno sempre e comunque capo allo stesso soggetto: la persona. Tanto la riservatezza delineata dal segreto investigativo e dal divieto di pubblicazione, quanto la libera circolazione e diffusione di informazioni e notizie di particolare rilevanza per la società sono poteri in mano al singolo individuo, il quale ha ovviamente ogni interesse affinché entrambi gli aspetti della sua vita sociale siano rispettati e l’uno non comprima l’altro.

Per questo, si è divisa la trattazione in quattro parti, collegate ma distinte.

La prima parte dalla riforma del codice di procedura penale avvenuta nel 1989 con l’entrata in vigore del nuovo codice Vassalli e con esso l’abolizione del vecchio

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segreto istruttorio a favore della nuova formulazione del segreto investigativo. Per poter comprendere la normativa è però prima necessario inquadrare in quale fase del procedimento si inserisca il segreto investigativo e il divieto di pubblicazione; nonché conoscere ed analizzare la ratio fondamentale di tale segreto, ossia la tutela del corretto convincimento del giudice in dibattimento, un elemento imprescindibile perché l’intero procedimento penale faccia il suo corso di giustizia come stabilito secondo i principi del giusto processo. Segue poi l’analisi degli articoli cardine del segreto investigativo, l’art. 329 c.p.p., e del divieto di pubblicazione di atti di un procedimento penale, l’art. 114 c.p.p.. Quest’ultimo ha subito un importante intervento da parte della Corte Costituzionale e annotare le modifiche apportate serve a mettere in luce gli aspetti più macchinosi della legge in questione e le risposte fornite dalla Consulta per sciogliere tali nodi. Con lo stesso scopo si deve operare una distinzione puntuale tra la “rivelazione” degli atti del procedimento e la loro “pubblicazione”.

La seconda parte osserva con più attenzione l’altro versante, quello più specifico del diritto dell’informazione, le garanzie sancite dall’art. 21 della Costituzione ed i limiti alla libera espressione del pensiero da esso tracciati implicitamente ed esplicitamente. In questi è necessario ricomprendere, e quindi analizzare, il segreto professionale proprio dell’attività del giornalista, definito dall’art. 200 c.p.p.. L’inquadramento del diritto di cronaca nel procedimento penale ed in relazione al segreto investigativo è il punto centrale: è l’interazione tra le due macchine a definire mosse e risposte alla

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situazione attuale, pertanto valutare con attenzione i punti di contatto e i limiti di tale rapporto non può giocarsi a livello esclusivamente teorico, la valutazione caso per caso è fondamentale e doverosa quando si considerano interessi di tale portata per il cittadino.

Da ultima, la scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., spesso invocata a difesa del giornalista che violi il segreto investigativo o leda la reputazione di un individuo con la pubblicazione di determinate notizie. Ma l’esercizio del diritto di cronaca è veramente idoneo a configurare la non punibilità per tali reati o la condotta del giornalista sfugge al raggio d’azione della scriminante?

La terza parte focalizza l’attenzione sulla tutela della riservatezza dell’individuo coinvolto nel procedimento, un punto finora tenuto fuori dalla trattazione. Oltre alle esigenze di giustizia già considerate in precedenza, infatti, il segreto investigativo ha tra i suoi scopi la tutela del soggetto che prende parte al procedimento, sia egli in qualità di accusato, imputato, testimone o di persona offesa. La trasparenza della giustizia è fondamentale, ma in essa non possono e non devono essere ricompresi particolari della vita della persona che siano strettamente privati o estranei al fatto in questione che possano per questo portare un pregiudizio o un disvalore. Da qui deve muovere una necessaria valutazione delle notizie diffuse, affinché non siano lesive della sfera di riservatezza, oltre ad essere eventualmente protette dal segreto giudiziario.

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cosiddetti “processi mediatici”. La tendenza a spostare il giudizio dalle aule di Tribunale agli studi televisivi è un rischio di delegittimazione per le istituzioni e aggrava il malcostume di violare il segreto sugli atti di indagine per arrivare a determinate notizie prima della concorrenza. Ma, anche qui, il rispetto del segreto non sarebbe di totale svantaggio per lo scopo informativo: attendere la fine delle indagini preliminari per poter accedere ai documenti prodotti nel loro svolgimento, nel pieno rispetto della legge, garantirebbe un ventaglio di informazioni molto più ampio e completo per poter impostare il dibattito dell’opinione pubblica su temi di una tale rilevanza sociale quali sono i fatti trattati nei giudizi penali.

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PARTE PRIMA

1. PROFILI STORICI

1.a Conoscenza pubblica nel codice di procedura penale del 1930

L’istituto del segreto investigativo proprio del nostro attuale sistema processuale penale trova il suo precedente storico nel segreto istruttorio introdotto con il codice del 1930: si può parlare, quindi, tra vecchio e nuovo codice, di una continuità del carattere di segretezza della fase investigativa, ossia anteriore al processo in senso proprio.

Il significato del segreto istruttorio sta nel fatto che gli atti e i fatti raccolti e compiuti nel corso della fase istruttoria, sono tendenzialmente segreti alla maggioranza delle persone, ossia sono noti soltanto a quei soggetti che la legge ritiene possano venirne a conoscenza (anche dal punto di vista etimologico ‘segreto’, dal latino secernere, fa pensare ad una distinzione, ad una divisione tra coloro che possono venire a conoscenza e coloro che non possono). E’ la legge che sancisce chi sia legittimato a conoscere e chi no. Nella variazione di tale limite sta l’elemento che segna l’evoluzione dell’istituto del segreto istruttorio fino al raggiungimento del suo conseguente storico nell’attuale codice, ossia il segreto investigativo.

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sistema processuale penale e, conseguentemente, caratterizza come inquisitorio anche il sistema che lo accoglie, così come il nostro sistema del 1930, nonostante esso fosse normalmente considerato dai contemporanei commentatori come modello di tipo

misto2, sulla scorta dell’accoglimento della “soluzione di compromesso” elaborata

dal codice napoleonico del 1808. Pare però da condividere l’opinione di chi3 ritiene che definire un sistema come misto è una contraddizione di termini, dato che esso non potrebbe contemporaneamente ispirarsi a due sistemi opposti senza neutralizzarsi: un sistema allora dovrà scegliere tra i due modelli, anche se poi tale scelta potrà essere temperata.

Il sistema del 1930 è, per l’appunto, un sistema "temperato", ma senza dubbio di radice inquisitoria. Se, infatti, nella fase dibattimentale, improntata al contraddittorio delle parti, più marcato è l'orientamento in chiave accusatoria del sistema, nella fase istruttoria appare invece chiaramente la matrice inquisitoria delle scelta del legislatore del 1930: l’istruzione è infatti segreta, il magistrato raccoglie le prove senza alcun intervento dell’imputato e del suo difensore, che possono venirne a conoscenza solo al dibattimento, quando ormai è troppo tardi per fornire elementi nuovi per la decisione del giudice.

Guardando alla sola fase istruttoria di un sistema penale (ché ulteriori sono gli elementi di natura inquisitoria che si possono trovare nelle fasi successive), il carattere inquisitorio, dunque, è dato non tanto dalla segretezza che la accompagna

2 L. LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze, 1921, pp. 37-39.

3 G. D. PISAPIA, Il segreto istruttorio nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1960, pp. 49 e ss.

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(segretezza che del resto compare anche nel sistema di tipo accusatorio dove l’accusatore svolge la sua attività investigativa tendenzialmente inaudita altera parte), quanto piuttosto dalla presenza di un giudice proprio di tale fase, il giudice istruttore, che non solo raccoglie gli elementi di prova, ma che anche li valuta.

A partire dagli anni Sessanta, la dottrina ha iniziato ad operare una distinzione nel genus del segreto istruttorio tra segreto interno e segreto esterno. I due tipi di segretezza si distinguono per oggetto, soggetti vincolati, durata e scopi perseguiti. Il segreto interno è un limite alla conoscibilità di atti e fatti “da parte di determinati soggetti”4, per l’esattezza delle parti private e dei loro difensori. Il segreto esterno, invece, consiste nel divieto di pubblicazione di certi atti, ossia nel divieto di rivelarli mediante una pubblicazione “col mezzo della stampa o con altri mezzi di divulgazione”5. Quindi, di fatto, soltanto il segreto interno è un segreto vero e proprio, nel secondo caso non c’è un limite alla conoscenza, quanto piuttosto un limite alla divulgazione; tant’è vero che non è detto che gli atti coperti da divieto di pubblicazione siano al contempo anche segreti.

Negli ultimi anni di vigenza del codice, però, la distinzione, fatta per la prima volta da Pisapia e accolta poi da tutta la dottrina, è stata da diverse parti criticata6, in quanto, non sarebbe possibile parlare di due autonomi profili di segretezza, perché essi non troverebbero alcun appiglio nel dato positivo (dato che nel caso di divieto di

4 G. D. PISAPIA, op. cit., pp. 43 e ss.

5 F. MANTOVANI, Appunti in tema di pubblicazione arbitraria di atti processuali, in Riv. it. dir. e processo pen., 1960, pp. 237 e ss. 6 Per tutti G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, Giuffrè, Milano, 1989, pp. 130-137.

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pubblicazione, cioè del segreto esterno, non si ha un vero e proprio segreto, ma solo un divieto di divulgazione) e, comunque, non sarebbero sufficienti a rappresentare, nella loro rigidità, tutte le diverse modalità in cui l’obbligo di fatto si manifesta. Secondo altri7, poi, la distinzione tra segreto interno ed esterno non potrebbe essere utilizzata neppure come criterio distintivo tra segreto istruttorio e divieto di pubblicazione; anzi tale ultima distinzione potrebbe meglio essere costruita facendo riferimento alla diversa disciplina e diversa durata dei due istituti. Il divieto di pubblicazione, secondo questa dottrina, non sarebbe posto ad esclusiva tutela del segreto esterno e, quindi, non potrebbe essergli strettamente correlato, perché la pubblicazione di un atto segreto, se viola il segreto esterno, viola anche lo stesso segreto interno. Mentre il segreto istruttorio non tutela soltanto il segreto interno, ma anche quello esterno, dato che non essendo a conoscenza del fatto è impossibile divulgarlo. Si propone così di guardare all’obbligo di segretezza ed al divieto di pubblicazione come a due istituti dotati di una loro autonomia, che pure nella prassi spesso concorrono.

In ogni caso, sia che si voglia accogliere la distinzione tradizionale tra segreto interno e esterno, sia che si voglia dare ragione alle più recenti osservazioni circa l’insufficienza o addirittura l’inesattezza di tale distinzione, resta il fatto che il sistema del 1930 poneva una serie di sbarramenti a copertura delle indagini8: il 7 G. VISMARA, Pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale e segreto istruttorio, in Arch. Pen., 1984, pp. 299 e ss.

8 A. TOSCHI, Segreto (diritto processuale penale), in Enc dir., XLI, Milano, 1989, pp. 1089 e ss.

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primo, al momento della formazione degli atti istruttori segreti, consiste nella limitazione o nel divieto dell’accesso dei privati all’attività istruttoria (proprio su questo sbarramento hanno maggiormente inciso le modifiche che hanno via via consentito la partecipazione difensiva alla fase istruttoria, preparando la strada al codice del 1988 che di tale eguaglianza delle parti fa uno dei propri baluardi). Il secondo è rappresentato dal vero e proprio segreto istruttorio, ossia dal divieto, per le persone che hanno compiuto, concorso a compiere o assistito agli atti istruttori, di rivelare gli elementi che hanno conosciuto. Infine il terzo consiste nel divieto di pubblicazione ed è il più generale dei tre sbarramenti, in quanto, addirittura non riferendosi alla sola fase istruttoria, ma all’intero iter procedimentale, vieta la divulgazione di certe notizie attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

Volendo a questo punto rifarsi strettamente ai dati normativi del codice del 1930, il segreto istruttorio e il divieto di pubblicazione erano disciplinati dagli articoli 230 e 307, il primo, e dall’articolo 164, il secondo.

1.b Il segreto istruttorio

Per quanto riguarda il segreto istruttorio si può fare riferimento, oltre che alla fase istruttoria vera e propria, disciplinata dall’articolo 307 c.p.p. 1930, anche alla fase dell’istruttoria preliminare, compiuta dal personale della polizia giudiziaria e dal pubblico ministero, prima che il procedimento fosse avviato (quella fase, cioè,

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propedeutica alla deliberazione del magistrato circa l'oppurtunità di avviare un'istruzione o meno, disciplinata dall'articolo 230 c.p.p. 1930.) Seguendo una successione cronologica, è opportuno partire dalla fase di preistruttoria coperta dal segreto imposto su “tutto ciò che riguarda gli atti di polizia giudiziaria e il loro risultato”. Il dato normativo dà un’indicazione estremamente lata e per individuarla meglio è necessario porre attenzione a ciò che si intende per ‘atto di polizia giudiziaria’, così come risultava dagli articoli 219 ss. c.p.p. previgente. Erano atti di polizia giudiziaria l’arresto in caso di flagranza, l’esecuzione di ordini e mandati di cattura o di accompagnamento, l’assicurazione del corpo del reato, il sommario interrogatorio dell’arrestato e le sommarie informazioni dei testimoni, le perquisizioni, il sequestro di corrispondenza, l’intercettazione di comunicazioni epistolari, telegrafiche e telefoniche e, in generale, “ogni atto diretto ad assicurare le prove del reato e la ricerca degli indiziati di reità”. E’ chiaro che non per tutti quegli atti posti in essere dalla polizia giudiziaria si può parlare di segreto, la natura di alcuni di essi accentua la relatività del segreto, si pensi all’arresto in flagranza o all’esecuzione di un atto di perquisizione: qui il segreto, oltre ad essere relativo, si riferirà più al risultato dell’atto che all’atto in sé, semmai potrà riferirsi all’esistenza dell’atto soltanto prima che questo venga posto in essere. In questo caso la segretezza è funzionale alla riuscita dell'azione di polizia.

Erano tenuti all’obbligo del segreto per quanto riguarda questa fase preistruttoria “a) gli ufficiali di polizia giudiziaria, b) gli agenti di polizia giudiziaria, c) le altre

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persone che compiono o concorrono a compiere atti di polizia giudiziaria”9.

Contrariamente ad una parte della dottrina10 che riteneva coperta dal segreto istruttorio anche la fase preistruttoria, se ne poneva un'altra che escludeva tale copertura. Da quest'ultimo punto di vista si era sostenuto che non si potesse parlare di segreto, perchè "la disposizione dell’articolo 307 è differentissima da quella dell’articolo 230. Né si potrebbe sostenere il contrario sul riflesso che l’articolo 307 fa puntualmente pendant all’articolo 230, stabilendo un’obbligazione identica a partire dal momento in cui un atto formalmente acquisito al procedimento ne diviene parte integrante ed indissociabile. In altri termini, gli atti di polizia giudiziaria sarebbero pure essi protetti dal segreto dell’istruzione, perché diventano atti del procedimento d’istruzione di cui fanno parte integrante. [...] Anche se si ammettesse questa opinione, ci si dovrebbe domandare da qual momento gli atti dell’istruzione della polizia fanno veramente e propriamente parte integrante del procedimento di istruzione. E’, all’opposto, certo che essi non possono far parte integrante di una istruzione che non è ancora nata. Né potrebbesi sostenere la sufficienza che un atto di procedimento sia legato a un processo penale destinato a nascere, perché possa essere assoggettato al segreto dell’istruzione”11.

Passando, invece, alla fase istruttoria vera e propria, il relativo segreto era sancito dall’articolo 307 c.p.p. 1930. Questa fase veniva distinta in istruttoria formale e

9 Art. 230 c.p. 1930.

10 G. D. PISAPIA, op. cit., pp. 130 e ss.

11 G. GUARNIERI, Procedimenti penali e libertà di stampa, in AA. VV., Legge penale e libertà del pensiero, III Convegno di diritto penale, Bressanone, 1965, Padova, Cedam, 1966, pp.19 e ss.

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sommaria, ma, dato che tale distinzione influiva soltanto sulla durata del segreto (nell’istruzione formale gli atti istruttori erano segreti fino al loro deposito in cancelleria, mentre nell’istruzione sommaria erano segreti fino alla richiesta del pubblico ministero di proscioglimento o di citazione in giudizio), era possibile affrontare in un unico momento i temi, identici per i due tipi di istruttoria, dell’oggetto del segreto, dei soggetti ad esso vincolati e degli scopi perseguiti.

Destinatari dell’obbligo in base all’articolo 307 c.p.p. abr. erano “a) i magistrati, anche se appartenenti al pubblico ministero, b) i cancellieri e i segretari, c) i periti e gli interpreti, d) i difensori e i consulenti tecnici, e) le altre persone che compiono o concorrono a compiere atti di istruzione o assistono al compimento di esse”. Tale elencazione faceva sorgere immediatamente due questioni: quella relativa all’esplicita esclusione dal vincolo delle parti private e dei testimoni e quella relativa, per contro, all’inclusione tra i soggetti vincolati, dopo la riforma operata dalla legge n. 517 del 18 giugno 1955, anche dei difensori. La prima delle due questioni prospettava alcuni dubbi sul raggiungimento dello scopo dell’istituto in presenza di tale eccezione che lasciava le parti private (ossia l’imputato, la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per l’ammenda) e i testimoni liberi di rivelare tutto ciò che sapessero, anche se gli elementi a loro conoscenza, per forza di cose, non erano molti. Si legge del resto nella Relazione Ministeriale al progetto del codice penale12 che pretendere il silenzio di tali soggetti sarebbe stato

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“eccessivo”, ma, soprattutto, sarebbe stato “difficile” ottenerlo. Pertanto è parso “inopportuno” sanzionare l’eventuale violazione di tale obbligo, anzi si è addirittura preferito non prevedere neppure l’obbligo. La seconda, invece, concerneva la congruità del limite posto al difensore con la natura stessa del suo ruolo che, per definizione, dovrebbe godere di libertà di iniziativa e di movimento, essendo già sufficientemente sacrificato dall’esistenza di forti sbarramenti nei suoi confronti nella fase istruttoria, solo blandamente aperti da successive modifiche effettuate dalla Corte Costituzionale13.

Circa l’oggetto del segreto istruttorio inerente la fase istruttoria vera e propria, l’articolo 307 c.p.p. abr. parlava di “tutto ciò che concerne gli atti istruttori ed i loro risultati”, riproponendo un problema, analogo a quello verificatosi nella fase preistruttoria, riguardo l'identificazione concreta di tali atti coperti da segreto; infatti, la dizione dell’articolo 307 c.p.p.1930 è identica a quella dell’articolo 230 c.p.p. 1930, “tutto ciò che riguarda gli atti di polizia giudiziaria ed i loro risultati”. La formula è ampia e necessariamente non puntuale: innanzitutto è da chiedersi se oggetto del segreto siano soltanto gli ‘atti’, cui fa riferimento il dato positivo, o anche i ‘fatti’ che ne costituiscono il contenuto. Una risposta negativa svuoterebbe di significato l’intera disciplina del segreto istruttorio, facendo sì, per esempio, che resti

13 Tra le sentenze della Corte Costituzionale più rilevanti in materia si vedano la n. 190 del 1970 (in Giur. Cost., 1970, pp. 2179 e ss.) che estende all'interrogatorio la garanzia difensiva rappresentata dall'assistenza del difensore che ha diritto anche al previo avviso del compimento di tale atto; n. 63 del 1972 (Giur. Cost., 1972, pp. 282 e ss) che estende la possibilità di assistenza del difensore all'ispezione giudiziale e alla perquisizione personale, per le quali tuttavia il difensore non ha diritto al previo avviso del compimento dell'atto in questione; la n. 64 del 1972 (Giur. Cost., 1972, pp31 e ss) che prevede la possibilità per il difensore di assistere alla testimonianza a futura memoria e al confronto tra imputato e testimone esaminato a futura memoria, con, in questo caso, anche il diritto al preavviso al compimento dell'atto.

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segreta la notizia che un soggetto è stato sottoposto a interrogatorio, ma consentendo che siano resi noti gli elementi che l’interrogato ha dichiarato. Né l’articolo 230 c.p.p. abr. né il 307 c.p.p. abr. individuavano con esattezza i limiti del segreto; era allora necessario individuarli in via interpretativa, facendo riferimento alla finalità dell’istituto del segreto istruttorio. Nell’articolo 299 cp.p. 1930, si legge che scopo dell’istruttoria è pervenire all’accertamento della verità. Ecco che, allora, si poteva affermare che doveva essere segreto tutto ciò la cui rivelazione a persone diverse da quelle legittimate potesse causare un impedimento all’accertamento della verità. Pare in questo senso che si potessero comprendere anche i fatti istruttori, oltreché gli atti. Molti sono stati gli interventi sui limiti del segreto istruttorio, operati sia dal legislatore che dalla Corte Costituzionale, tutti improntati ad un’apertura della fase istruttoria alla difesa. La prima legge di riforma è stata la n. 517 del 18 giugno 1955, che ha consentito al difensore di assistere ad alcune operazioni giudiziarie, tra le quali la perizia, le perquisizioni domiciliari, gli esperimenti giudiziari, le ricognizioni, ed ha previsto che i verbali di tali atti e dell’interrogatorio dell’imputato, che continuava a rimanere segreto, fossero depositati in modo che comunque il difensore potesse prenderne conoscenza. Parallelamente la stessa legge ha introdotto l’obbligo del segreto istruttorio anche a carico del difensore, oltre che del consulente tecnico.

Restavano, invece, ancora fuori dalla possibilità del difensore di assistervi due importanti atti: la testimonianza e il confronto.

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Tali innovazioni si concludono con la legge n. 330 del 5 agosto 1988, che anticipa di pochi mesi il sistema previsto dal nuovo codice.

1.c Il divieto di pubblicazione

Il divieto di pubblicazione è ispirato ad una finalità precisa ben diversa dal segreto istruttorio: esso è, infatti, volto ad evitare che una conoscenza diffusa degli atti di un procedimento penale in corso possa arrecare danni all’amministrazione della giustizia, turbando l’autonomia decisionale del giudice e suscitando l’interesse morboso e la pressione dell’opinione pubblica, e alle parti private coinvolte nel procedimento, che potrebbero vedere irrimediabilmente lese la loro reputazione e la loro riservatezza. Già dall’individuazione delle molteplici finalità dell’istituto è facile intendere come esso sia tanto ampio da risultare persino vago nei propri confini essenziali. Tale ampiezza, secondo una dottrina14, sarebbe sintomo dell’origine e della finalità della norma “nata in un periodo storico in cui si voleva sottrarre l’operato della magistratura a qualsiasi forma di controllo sociale”.

L’articolo 164 cp.p. abr. che disciplinava il divieto in generale, inibiva la pubblicazione, col mezzo della stampa o con altri mezzi di divulgazione, fatta da chiunque e in qualsiasi modo, totale o parziale, anche per riassunto o a guisa d’informazione, del contenuto di qualunque documento e di ogni atto, scritto o orale,

14 G. NEPPI MODONA, Profili contradditori del rapporto tra giustizia e informazione: il segreto professionale del

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relativo: a) all’istruzione formale o sommaria, fino a che del documento o dell’atto non sia stata data lettura nel dibattimento a porte aperte; b) ad una istruzione chiusa con sentenza che dichiari di non doversi procedere, fino a che ne sia possibile la riapertura, cioè fino a quando il reato non sia estinto15.

Difficile è individuare gli atti vincolati dal divieto di pubblicazione, la lettera del quale sembra fare riferimento a tutti gli atti del procedimento penale, quelli istruttori e quelli dibattimentali, a prescindere dal fatto che essi siano segreti o meno, dato che tale divieto può coprire anche atti non coperti dal segreto istruttorio. Paradossalmente però, sempre secondo il dato letterale dell’articolo, dato che tale divieto sorge con l’inizio della fase istruttoria, resterebbero fuori dal divieto e, quindi, sarebbero pubblicabili, tutti gli atti di polizia giudiziaria, gli atti di istruzione preliminare e la stessa notizia di reato. E’ chiaro che un’interpretazione strettamente letterale, che portasse a queste conclusioni, frustrerebbe entrambe le finalità dell’istituto, sia quella della serenità del giudice, sia quella della riservatezza delle parti coinvolte, dato che comunque si avrebbe un ampio varco attraverso il quale potrebbero passare notizie sufficienti a mettere al corrente la comunità.

Destinatario del divieto di pubblicazione è chiunque. Non si fa riferimento, come nel caso del segreto istruttorio, a ben individuati soggetti che, per avere partecipato a

15 Per completezza è necessario citare anche l’ultima lettera dell’articolo che prevedeva un ulteriore divieto non connesso al tema in questione riferendosi ad atti relativi al dibattimento: c) all’istruzione o al giudizio se il dibattimento è tenuto a porte chiuse, in questo caso però la durata del divieto variava a seconda della ragione che aveva motivato l’esclusione del pubblico dall’aula. Gli atti infatti divenivano pubblicabili dopo che erano stati letti in udienza se il dibattimento si svolgeva a porte chiuse per ragioni di pubblica igiene o perché la pubblicità poteva suscitare riprovevole curiosità; lo divenivano dopo il passaggio in giudicato della sentenza se il dibattimento si era svolto a porte chiuse per le manifestazioni da parte del pubblico atte a turbare la serenità del dibattimento stesso; lo divenivano dopo settanta anni in tutti gli altri casi di dibattimento a porte chiuse, tra i quali si comprendevano le ipotesi di possibilità di nocumento alla sicurezza dello Stato, all’ordine pubblico, o all’imputato minore di diciotto anni.

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vario titolo al compimento di atti istruttori, ne sono a conoscenza e potrebbero pertanto rivelarli: qui si parla di ciascun soggetto che sia in grado di divulgare, con la stampa o con un mezzo tale da giungere ad una quantità indeterminata di persone, notizie relative al procedimento penale.

Come si è detto, si è cercato di vedere nel divieto di pubblicazione un istituto correlato al segreto istruttorio; del resto la stessa Relazione al progetto preliminare del codice penale afferma che tale divieto vuole andare a rafforzare il segreto istruttorio per evitare anche quelle condotte che potevano uscire dalle maglie della disciplina del segreto e dare adito a comportamenti tali da frustrare l’attività dell’autorità giudiziaria o da violare la riservatezza degli imputati. Ed effettivamente il divieto di pubblicazione si pone come istituto ben più ampio del segreto istruttorio, tanto da poter apparire come mezzo per recuperare le smagliature ad esso (si pensi alla rivelazione di atti segreti da parte di soggetti non obbligati al segreto che possono essere puniti, eventualmente, soltanto facendo riferimento alla disciplina del divieto di pubblicazione, se la rivelazione ha assunto anche la forma di una divulgazione col mezzo della stampa o comunque con un mezzo che ha la stessa potenzialità lesiva). Ma la diversità delle due discipline per quanto riguarda i destinatari dell’obbligo ("chiunque" per l’una e soggetti individuati per l’altra), la sua estensione oggettiva (tutti gli atti istruttori e dibattimentali da una parte, solo alcuni atti dall’altra), le conseguenze della sua violazione (reato comune in un caso, reato proprio nell’altro) e la ben minore gravità della sanzione prevista per la violazione del divieto di

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pubblicazione rispetto a quella prevista per la violazione del segreto istruttorio, fanno sì che sia più opportuno considerare questi due istituti come autonomi uno rispetto all’altro, seppure spesso concorrenti in un’ipotesi di reato.

1.d Limiti della disciplina prevista dal codice del 1930 e proposte di modifica

La segretezza della fase istruttoria tipica del modello di processo penale delineato dal codice del 1930 sollevò ben presto molte critiche e aspri dibattiti in dottrina. Il segreto è senza dubbio legato ad una concezione arcaica del sistema penale: il modello inquisitorio giustificava la scelta a favore della segretezza delle indagini rifacendosi alla concezione classica della testimonianza, secondo la quale un uomo mente soltanto se ha un interesse nella questione, pertanto bastava al magistrato inquisitore scoprire gli eventuali interessi del testimone e delle parti nella causa e da questo si poteva dedurre la veridicità delle loro affermazioni, senza alcun bisogno di un loro intervento diretto o di loro spiegazioni. La Scuola Positiva è giunta ad affermare, invece, che un uomo può mentire anche per ragioni diverse da un proprio interesse nella questione: difetti di percezione, lacune nella memoria, tenore delle domande. Il segreto viene allora ridimensionato, perché assumono grande rilevanza i confronti, gli apporti di notizie provenienti da ogni parte, come nella ricostruzione di uno scenario impossibile da parte di una sola

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persona. Ma anche senza risalire tanto indietro nelle origini del segreto nel sistema penale, senza dubbio la sua rilevanza è stata sottolineata nel codice del 1889 e nel codice del 1930 in quanto esso è stato ritenuto fondamentale per il raggiungimento degli scopi essenziali della fase istruttoria: realizzazione dell’attività giudiziaria senza alcuna interferenza o pressione da parte dell’opinione pubblica e delle parti private coinvolte nel procedimento; impedimento della diffusione di notizie che potessero suscitare la curiosità morbosa della popolazione e persino fungere da esempi per personalità deviate; protezione della reputazione e della riservatezza delle parti coinvolte. Per raggiungere questi obiettivi il legislatore del 1930 ha sacrificato altri importanti aspetti: la partecipazione della difesa alla fase istruttoria e quindi l'attuazione di un'efficace difesa dell'imputato fin dall'inizio del procedimento, il controllo dell'attività giudiziaria operata attraverso la trasparenza delle sue azioni. Con l'andare avanti del tempo e con l'affermarsi sempre più forte delle libertà della persona si sono anche poste le questioni della libertà di stampa, della libertà di critica e di manifestazione del proprio pensiero, chiaramente limitate dal velo che nascondeva ogni attività istruttoria. Oltre a questi conflitti extraprocessuali, negli anni Sessanta si è cominciato a parlare anche degli inconvenienti che il segreto istruttorio determina sullo stesso funzionamento del processo: i limiti alla conoscenza degli atti procedimentali possono assicurare contro l’inquinamento delle prove, ma possono

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contemporaneamente minarne la completezza e la stessa attendibilità, oltreché comportare la compressione del diritto di difesa dell’imputato. Ma è soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta che la critica nei confronti del segreto istruttorio si è trasformata in un vero e proprio movimento di opinioni.

Sparuti i rappresentanti dell’ordine giudiziario o di quello forense che si sono dichiarati a favore del mantenimento dell’istituto del segreto, sostenendo, per esempio16, che esso è posto a “tutela della persona umana”, dato che “la pubblicità della vicenda processuale, nella fase istruttoria, assume di fatto per l’imputato, si voglia o meno, la funzione di sanzione” o affermando addirittura che abrogare le norme che sostengono l’istituto del segreto istruttorio sarebbe un “rinnegamento dell’articolo 27 della Costituzione: questa norma, attraverso la non presunzione di colpevolezza dell’imputato, riconosce il diritto di costui a conservare quel margine di reputazione che il processo in sé e per sé gli può risparmiare”17. Qualcuno18 ha invece tentato di salvare parzialmente il segreto: se il segreto interno, infatti, può essere limitato al massimo, fino ad un capovolgimento del principio affermato dal codice, rendendo cioè la pubblicità la regola e il segreto l’eccezione, permarrebbe la necessità di tutelare il segreto esterno “il quale ha la duplice finalità di garantire l’efficienza e la genuinità del processo e di garantire in qualche modo gli interessi e anche l’onore e la

16 Così G. LA MONICA, Segreto istruttorio e tutela della persona, in Giustizia e informazione a cura di N. LIPARI, Roma- Bari, 1975, pp. 435 e ss.; tra gli altri sostenitori del mantenimento G. BELLAVISTA, Libertà d'informazione

(come e quando) e processo penale, ivi, pp. 372-373.

17 V. LA CAVA, Segreto istruttorio e segreto d'ufficio, ivi, pp. 433 e ss.

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reputazione delle parti incolpevoli e dei testimoni”. Ma proprio la motivazione che sta alla base della volontà di alcuni di mantenere il segreto istruttorio, cioè la necessità di tutelare attraverso esso la dignità e la reputazione della persone, è criticata da altra parte della dottrina che sostiene19 che questa non è assolutamente la ratio delle norme che inseriscono nel nostro ordinamento il segreto istruttorio e comunque, se anche questo fosse, il segreto non raggiunge certo l’obiettivo preposto, anzi “accade che sia subito noto proprio ciò che è contro l’imputato e che il segreto istruttorio non può ovviamente nascondere: l’incriminazione, l’eventuale cattura, il fatto reato addebitato. [...] E proprio il segreto istruttorio congela questa situazione sfavorevole, procrastina sine die la conoscenza dei veri termini del contraddittorio, degli elementi a favore dell’imputato”20. Ma neppure l’altro scopo per il raggiungimento del quale il segreto istruttorio è stato posto esce indenne dalle critiche da parte della dottrina favorevole all’abrogazione dell’istituto, ossia il pericolo d’inquinamento delle prove. Anzi proprio in questo punto si vede una delle colpe più gravi dell’autorità giudiziaria che dovrebbe semmai evitare tale inquinamento, agendo con tempestività, per esempio, nell’interrogare i testimoni o nel disporre il sequestro dei documenti, prima che tali fonti di prova possano essere alterate o minacciate. Vi sono, in questo senso, commentatori assai critici21, che giungono ad affermare che il segreto 19 T. MAZZUCA, Il mito del segreto istruttorio, ivi, pp. 451 e ss.

20 Idem.

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istruttorio altro non avrebbe che una “funzione di copertura” dell’inefficienza dell’apparato giudiziario. Un’opinione forte a favore della modifica del sistema del segreto istruttorio venne anche da due protagonisti diretti, ossia un giudice istruttore e un giornalista, in occasione dell’interessante dibattito sorto nel corso del XV Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati che si svolse a Torino nel 1973. Il primo22 di fatto constata la sopravvivenza nella prassi del segreto istruttorio soltanto per i processi che non interessano l’opinione pubblica, mentre riteneva come negli altri casi di esso non si tiene alcun conto “e non solo dai giornalisti che qualche giustificazione, diciamo così professionale, potrebbero accamparla, ma anche dagli organi dello Stato, che dovrebbero tutelare tale segreto. Assistiamo così alle conferenze stampa dei questori, dei commissari di P.S. e degli ufficiali dei carabinieri e delle guardie di Finanza [...] anche procuratori della Repubblica e giudici istruttori si esibiscono davanti ai giornalisti o alla televisione”. Il secondo23 invece non solo sottolinea le difficoltà della categoria dei giornalisti di svolgere la loro professione in un continuo districarsi tra segreti che dovrebbero esserci, ma che forse non ci sono per mezze dichiarazioni dei diretti interessati, ma sottolinea anche alcune degenerazioni derivanti dal sistema, riportando un paio di casi eclatanti: "a Milano, durante il caso Valpreda, abbiamo avuto lo scandalo di un solo giornale che aveva in esclusiva tutte le notizie utili

22 N. FRANCO, La difesa del segreto istruttorio è una battaglia di retroguardia, ivi, pp. 421 e ss. 23 P. L. GANDINI, Cronaca giudiziaria e segreto istruttorio, ivi, pp. 429 e ss.

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all’accusa, prima delle parti e addirittura prima del magistrato inquirente, mentre per gli altri vigeva il segreto. Il segreto istruttorio può anche servire a far pressione su singoli magistrati. Sempre a Milano è capitato che, essendo filtrate da gravi istruttorie notizie che riguardavano alti funzionari della polizia e del Ministero degli Interni, i magistrati inquirenti siano stati ritenuti ingiustamente responsabili e quindi richiamati o addirittura sostituiti”.

Senza dubbio una delle proposte di modifica più apprezzate dalla maggioranza della dottrina è quella di capovolgere il sistema previsto dal codice: istituire la pubblicità come regola e lasciare il segreto come eccezione, laddove esigenze istruttorie o la tutela dell’incolumità e della riservatezza delle persone coinvolte lo esigano. Si tratterebbe, quindi, di una decisione presa dal giudice del procedimento per esigenze contingenti, che egli dovrebbe comunque motivare accuratamente.

La questione circa l’opportunità del mantenimento del segreto istruttorio è stata affrontata anche dal punto di vista delle congruità di tale istituto con i diritti garantiti dalla Costituzione: è stato infatti ipotizzato che l’istituto del segreto istruttorio violasse sia il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e di esercitare liberamente il proprio diritto di critica, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, sia il diritto ad una efficace difesa in ogni stato e grado del procedimento, sancito dall’articolo 24. E si avrebbero in questi casi compressioni di diritti costituzionali in favore di beni che non

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trovano nella Carta fondamentale alcuna previsione (l’ordine pubblico, la morale, la riservatezza e l’escussione delle prove), oppure di beni che, pur garantiti dalla Costituzione, non vengono assolutamente violati da una diversa disciplina della pubblicità degli atti istruttori (la serenità del dibattimento, l’indipendenza del giudice, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato). Proprio sulla base di queste riflessioni più volte è stata sottoposta la questione di legittimità alla Corte Costituzionale, che, tuttavia, ha sempre manifestato un atteggiamento “abdicativo”24, affermando come la questione fosse di competenza del legislatore ordinario.

Sulla base del dibattito, qui sommariamente ricordato, ma che per anni ha impegnato la dottrina, gli operatori della giustizia e quelli dell’informazione, ci si è avviati all’elaborazione del nuovo codice di procedura penale.

2. I PRINCIPI DETTATI DALLA LEGGE DELEGA

24 Così G. GIOSTRA, in I rapporti tra giustizia penale e informazione nell'ottica delle valutazioni costituzionali, in

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2.a Il disegno del legislatore delegante e le direttive della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale

Dalle ampie discussioni sul tema del regime di pubblicabilità degli atti istruttori penali è sicuramente emersa una serie di spunti che il legislatore ha recepito. Probabilmente, anzi, è stato anche grazie al dibattito sviluppatosi sulla conoscibilità e la pubblicabilità degli atti istruttori che il legislatore delegante del 1987 ha dedicato notevole attenzione al tema, mentre, al contrario, la precedente legge delega del 1974 aveva ignorato l’intera tematica.

Mutamenti sostanziali rispetto al codice abrogato, inoltre, sono derivati anche dalla scelta del modello accusatorio25 in sostituzione a quello a sfondo sostanzialmente inquisitorio che caratterizzava il codice del 1930. Questo nesso, tuttavia, viene talvolta sopravvalutato: il passaggio al sistema accusatorio non ha assolutamente fatto venire meno il segreto, né tale conseguenza era necessitata a seguito dell’accoglimento del nuovo modello. Del resto già il legislatore aveva manifestato la propria intenzione di non abolire interamente l’istituto del segreto, come al contrario richiesto dalla cosiddetta ‘fazione degli abolizionisti’, con le modifiche al sistema penale introdotte con la legge n.689 del 24 novembre 1981: in quella occasione infatti il legislatore ha riformato l’articolo 684 c.p., che sanziona la violazione del divieto di pubblicazione, nel senso di un inasprimento, per garantire al meglio il

25 Tradizionalmente, infatti, il sistema accusatorio non è favorevole al segreto, come sosteneva già J. BENTHAM,

Draft for the organisation of Judicial establishments, 1843, pp. 316 e ss., anche se questo non significa chiaramente che

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rispetto della non pubblicità.

Negli stessi anni anche la Corte Costituzionale26, nel decidere nel senso del rigetto una questione di legittimità sottopostagli circa la congruità con gli articoli 3 e 21 della Costituzione del combinato disposto degli articoli 164 dell’abrogato codice di procedura penale e 684 del codice penale (esattamente la norma che dispone il divieto di pubblicazione e quella che ne sanziona le violazione), aveva osservato che il divieto di pubblicazione conserva la sua ragione di esistere anche nel procedimento penale a struttura accusatoria e che, quindi, la transizione dal rito inquisitorio a quello accusatorio non comporta l’abolizione in toto del divieto. Affermazione accolta pienamente dal progetto del nuovo codice di procedura penale di quegli anni, che mantiene il divieto in parola.

Il panorama che deriva dal passaggio da un sistema ad un altro, quindi, è ben più complesso di quello che si potrebbe ipotizzare con lo schema ‘sistema inquisitorio-segreto’ e ‘sistema accusatorio-pubblicità’: se il nuovo codice, infatti, ridimensiona in alcuni casi il segreto delle indagini o il divieto di pubblicazione (il cosiddetto segreto esterno del vecchio codice secondo la distinzione effettuata da Pisapia), in altri prevede nuovi sbarramenti per la difesa o per la conoscenza da parte di terzi. Si prenda ad esempio il raffronto tra le ricognizioni previste dal capo VIII del libro II del codice abrogato e le individuazioni previste dall’articolo 361 del codice attuale: in questo caso si hanno due istituti strutturalmente simili (nonostante il nome

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adottato dal legislatore del 1930 sia mantenuto da quello del 1988 soltanto per le prove che avvengono in sede di incidente probatorio e non anche per gli atti di riconoscimento svolti nella fase di indagine, per i quali si adotta una inedita nomenclatura) che prevedono un diverso trattamento per la difesa. Nel codice del 1988 non è prevista alcuna assistenza del difensore del soggetto che deve compiere l’individuazione, mentre nel codice del 1930 la ricognizione era garantita. L’estensione del segreto e della conoscibilità degli atti, quindi, non può essere preso come parametro per valutare l’aderenza al modello accusatorio di un sistema. Se fosse altrimenti non potrebbe essere definito come accusatorio neppure il sistema processuale penale statunitense, dato che anch’esso presenta una fase d’indagine segreta.

La differenza tra un sistema e l’altro è data semmai dalla diversa funzione della fase che precede il giudizio, istruzione nel 1930 e indagini preliminari nel 1988, e dalla definizione dei ruoli delle parti27. Nel sistema abrogato, per quanto riguarda il primo punto, le prove raccolte nell’istruzione finivano per essere utilizzate come elementi della decisione, senza che alla loro formazione la difesa avesse preso parte. Nel sistema attuale, quanto svolto dall’organo inquirente senza la partecipazione della difesa non ha alcuna rilevanza nella fase del dibattimento. Per quanto riguarda il secondo profilo, nel sistema abrogato il giudice svolgeva attività istruttoria d’ufficio, ricoprendo anche un ruolo di investigatore, nel sistema attuale il giudice interviene

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nella fase di indagine soltanto come controllore e garante dei diritti della difesa e dei valori costituzionali in gioco.

In ogni caso, pur volendo mantenere dei limiti alla conoscibilità degli atti di indagine da parte sia del soggetto indagato sia dell’opinione pubblica, dalla discussione che ha impegnato la dottrina negli anni precedenti l’emanazione della legge delega del 1987, è emersa forte la necessità di modificare il regime del 1930, che era giunto ad una situazione insostenibile: la disciplina, che prevedeva limiti molto ampi alla conoscibilità e divulgazione degli atti, seppur talvolta incongrui, era divenuta, di fatto, niente più che uno spauracchio costantemente violato dai mezzi di comunicazione di massa, dalle parti private dei procedimenti e persino dalla magistratura. Una violazione scontata e neppure più sanzionata da un apparato ormai rassegnato a tale stato di cose.

Oltre alla chiara necessità di modificare il sistema, da tale dibattito sono venute anche indicazioni forti circa la direzione da imprimere a tale mutamento: la dottrina suggerisce, infatti, un regime che concili le due esigenze fondamentali di un’amministrazione della giustizia svolta regolarmente, senza intralci e secondo le proprie esigenze, anche di segretezza, se necessarie alla scoperta della verità e alla tutela delle parti private, e di una necessaria trasparenza della stessa amministrazione della giustizia, perché la collettività possa controllare l’operato della classe giudiziaria, perché sia informata del sanzionamento dei reati, perché non si escluda a priori il vantaggio che per le stesse indagini può derivare da una corretta

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partecipazione dei mezzi di comunicazione di massa. Soprattutto si suggerisce un’attenuazione dei limiti previsti alla conoscibilità e alla divulgazione degli atti prevista dal codice del 1930, sull’esperienza del fatto che limitazioni eccessive altro non portano che la sistematica violazione delle limitazioni stesse. Puntuale osservazione viene a questo proposito da chi afferma che28:"l’estensione del segreto (nel senso improprio di ciò che non è pubblicabile) sarebbe dovuta essere credibile, cioè compatibile con la società di oggi, caratterizzata da un inarrestabile accrescimento della richiesta e delle possibilità di informazione. Una credibilità, beninteso, che non si sarebbe dovuta giocare solo in termini di ridimensionamento del segreto entro più plausibili limiti temporali. Un segreto credibile è anche un segreto ben tutelato sul piano sanzionatorio e disciplinato in modo tale, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, da non presentare franchigie, che ne consentano di fatto facili elusioni”.

Le scelte operate dal legislatore e contenute nella legge delega n. 81 del 16 febbraio 1987, all’articolo 2 n. 71, sono orientate sostanzialmente verso un mantenimento del segreto istruttorio e parallelamente verso un ridimensionamento del divieto di pubblicazione, con l’evidenziazione della differenza che corre tra la materia coperta dal primo e quella invece interessata dal secondo. Del resto, la volontà di ridimensionare l’operatività del divieto di pubblicazione era già stata manifestata nella prima formulazione della direttiva n. 71, risalente al 1984: in tale sede, però, era

28 G. GIOSTRA, I limiti alla cronoca giudiziaria nel nuovo codice di procedura penale, in Dir. Inform., 1990, pp. 361 e ss.

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stata attuata in modo troppo semplicistico, prevedendo un termine oltre il quale gli atti compiuti dal giudice, dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria non erano più coperti dal segreto e, quindi, pubblicabili. Un meccanismo così rigido e uguale per tutti gli atti vietava troppo in alcuni casi, troppo poco in altri. Sull’esperienza di questa prima, approssimativa soluzione della questione, nella legge delega del 1987 si adotta non un confine cronologico alla segretezza, ma piuttosto uno funzionale: gli atti delle indagini preliminari, infatti, non possono essere pubblicati soltanto se ciò è necessario per evitare che dalla conoscenza dello stato delle indagini da parte dell’imputato possano derivare danni alle indagini stesse (la finalità esclusiva del segreto è indubbiamente quella di evitare l’inquinamento delle prove). Pertanto, allorquando si ritenga che non sussista più alcun pericolo derivante dalla conoscenza delle investigazioni da parte dell’imputato e quindi gli atti di indagini sono ad esso rivelati, allora gli stessi diverranno anche pubblicabili. I confini del divieto di pubblicazione seguono, quindi, quelli individuati dalla delega per il segreto. Con un limite di questo genere alla conoscibilità da parte dell’indagato degli atti compiuti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero, destinato cioè a durare soltanto fino al momento in cui una conoscenza di tali atti potrebbe recar danno alle indagini stesse, non si altera l’uguaglianza tra le parti, che è uno dei pilastri del modello accusatorio di processo penale e quindi del sistema scelto dal legislatore delegante per il nuovo codice; difatti “qualsiasi atto o attività che permanga segreto, cioè al di fuori della recepizione o della condizione di recepizione, nella sfera dei poteri

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rispettivi dei soggetti del rapporto processuale penale, non ha alcuna influenza ed effetto su tale rapporto, acquisendosi da tali atti e attività influenza ed efficacia solo allorché perdano il carattere della segretezza”29. Infatti nel processo accusatorio ciascun elemento, per poter concorrere alla formazione del giudizio, deve essere assunto durante il dibattimento oppure, in caso di incidente probatorio, in un momento anteriore, ma con le stesse garanzie che la difesa avrebbe avuto durante il dibattimento. Non c’è quindi “l’occulto lavorìo di costruzione dell’impalcatura probatoria sulla quale finirà col sorreggersi l’intero processo e dalla quale nascerà la decisione del giudice”30 ; c’è soltanto l’individuazione degli elementi che serviranno al pubblico ministero per decidere circa il promuovimento dell’azione penale, elementi, però, del tutto “sterili sul piano probatorio”31. Non si può in alcun caso negare che, al di là della diversa portata e delle diverse conseguenze della riservatezza delle indagini derivanti da un’ispirazione inquisitoria o accusatoria, la segretezza è una “modalità metodologica ineludibile per le investigazioni” e che essa è “più di un obbligo di forma, una vera e propria esigenza pragmatico-funzionale necessariamente connessa alla ‘purezza’ ed ‘efficacia’ dei risultati nella ricerca della verità”32.

Oltre a questa “segretazione necessaria”33, prevista per tutti gli atti della fase 29 O. MELE, Sistema accusatorio e obbligo del segreto, in Il nuovo codice di procedura penale. Prime esperienze, Atti del convegno di Milano, 1-2 giugno 1990, Eti, Roma, 1990.

30 D. SIRACUSANO, Le indagini preliminari, in D. SIRACUSANO- A. GALATI-G. TRANCHINA-E. ZAPPALA’,

Diritto processuale penale, Giuffrè, 2006, pp. 64 e ss.

31 Idem.

32 L. CARLI, Indagini preliminari e segreto investigativo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 762. 33 M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, Torino, Utet, 1990, p. 237.

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investigativa, il legislatore delegante prevede anche il “potere del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari di vietare con decreto motivato, cui è data pubblicità solo successivamente, la pubblicazione di atti non più coperti dal segreto o di notizie relative a determinate indagini per il tempo strettamente necessario ad evitare pregiudizi per lo svolgimento delle stesse”.

Queste sono dunque le direttive della legge delega per quanto riguarda il regime di conoscibilità e di pubblicità degli atti della fase investigativa.

3. SEGRETO INVESTIGATIVO E DIVIETO DI PUBBLICAZIONE DI ATTI DI UN PROCEDIMENTO PENALE

3.a Considerazioni preliminari

Il giudizio penale presenta diverse particolarità rispetto al processo civile e a quello amministrativo, da un lato dovute al forte impatto che il reato ha sull’opinione pubblica, e dall’altro a questioni che, seppur tecniche, assumono una grande rilevanza sulla diffusione nella collettività delle notizie ad esso riferite.

Bisogna considerare, tra queste, che nel solo processo penale l’udienza è pubblica, ad eccezione dei casi in cui esso viene svolto a porte chiuse per particolari ragioni di segretezza dovute alla tipologia di reato o a qualità proprie dell’accusato. In questo senso, il procedimento penale può essere considerato la massima espressione della

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pubblicità del giudizio agli occhi della collettività, senza però dimenticare che esso si compone di diverse fasi distinte e concatenate che culminano nel processo e, in caso di esito sfavorevole all’accusato, nella punizione del reo.

Il processo penale trova quindi ragione di essere “pubblico” proprio nella possibilità per la collettività di venire a conoscenza della notizia che si sta procedendo contro un determinato imputato, in questo modo i membri della società, vengono messi a conoscenza dei fatti accaduti e della pronta azione delle istituzioni. Questa forma di garanzia nei confronti della collettività si trasforma però in una sorta di condanna preventiva del reo, che si trova ad essere giudicato socialmente ancora prima dell’emissione delle sentenze di tutti i gradi di giudizio a cui egli ha diritto.

Per garantire il corretto corso della giustizia e, al contempo, rispettare il principio di non colpevolezza sancito dall’art. 27 Cost., la legge ha stabilito alcuni limiti alla conoscenza pubblica di atti del procedimento e contenuti di essi, coprendoli con il segreto istruttorio, abolito con l’introduzione del codice di procedura penale Vassalli del 1989 e sostituito dal segreto investigativo, di cui all’art. 329 c.p.p..

L’articolazione del segreto investigativo è molto delicata e non si limita al solo citato articolo del codice di procedura penale. L’impianto normativo nel suo complesso prevede infatti sanzioni per la sua violazione e la giurisprudenza ha spesso toccato questo argomento: i limiti del segreto coincidono molte volte con quelli del diritto di cronaca e della garanzia per il cittadino di informare, ad esempio attraverso le nuove potenzialità fornite da Internet, ed essere informato, creando numerosi conflitti tra

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norme solo apparentemente contrastanti, ma che in realtà sono diritti diversi in capo agli stessi individui.

3.b Procedimento e processo: le linee generali del procedimento penale

Confusi spesso nel linguaggio comune, i termini “procedimento” e “processo” non sono in realtà sinonimi. E’ importante distinguere i due concetti, in quanto il codice utilizza questi termini nella loro accezione tecnica e considerarli sinonimi provocherebbe degli errori concettuali sotto molti aspetti e in molti ambiti.

Con procedimento si indica "una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale"34 ed esso è diviso in tre fasi distinte: le indagini preliminari, l’udienza preliminare e la fase del giudizio.

Le indagini vengono svolte dal Pubblico Ministero coadiuvato dalle forze di Polizia giudiziaria, siano esse rivolte all’accertamento dei fatti in oggetto o indirizzate più specificamente a raccogliere elementi di prova a carico di un determinato soggetto. Lo svolgimento di indagini nei confronti un individuo accusato di un reato non comporta necessariamente che si arrivi alla fase dibattimentale: il procedimento, infatti, può arrestarsi prima ancora che venga formulato un capo di imputazione e si passi al giudizio, concludendosi in tal modo con una richiesta di archiviazione. Proprio l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, con l’addebito

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di un fatto di reato ad un soggetto accusato e la conseguente richiesta di rinvio a giudizio, è il punto di snodo nel procedimento: le due fasi successive dell’udienza preliminare e del giudizio costituiscono infatti i momenti che vanno sotto la denominazione unica di “processo”.

Il primo passaggio processuale, quello dell’udienza preliminare, assolve a tre compiti principali:

a) funge da filtro a imputazioni azzardate concludendo il procedimento con l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere;

b) ha il ruolo di garanzia dovuta alla facoltà eccezionale di assumere in determinati e rari casi prove, valide però solamente per questa fase e non riutilizzabili per quella dibattimentale;

c) è il momento in cui può essere operata l’eventuale scelta tra le ipotesi di riti alternativi al normale procedimento, ricordando che solo in questa fase si può approdare al rito abbreviato o al patteggiamento.

d) Nella fase dibattimentale avviene la vera e propria formazione della prova: secondo i principi del processo accusatorio si ascoltano, nel contraddittorio tra le parti, testimoni, periti e parti fino ad acquisire elementi sufficienti per la formulazione di un giudizio, redatto in forma di sentenza motivata. Quest’ultima non si considera definitiva fino a quando non venga confermata o riformata dall’ultimo grado di giudizio possibile per il procedimento in questione e solo in quel momento la macchina giudiziaria si arresta.

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e) Così come formulato nella normativa in esame, il segreto investigativo è riferito strettamente alla fase delle indagini preliminari, in modo tale da garantire il corretto svolgimento delle stesse. La tutela del procedimento non si ferma alle sole azioni investigative, ma in casi eccezionali, molto spesso parziali, essa può essere estesa alla fase dibattimentale, a garanzia stavolta sia del suo pacifico svolgimento, sia del corretto convincimento del giudice, il quale deve poter non essere influenzato da interpretazioni e rielaborazioni esterne al procedimento.

Con questi obiettivi, e non senza critiche, è stato costruito l’impianto normativo del segreto investigativo e dei divieti di rivelazione e pubblicazione così come li conosciamo oggi.

3.c Inquadramento normativo, nozione generale di segreto investigativo

Il segreto investigativo rappresenta un limite implicito di natura pubblicistica al diritto dell’informazione, di cui all’art. 21 Cost., e trova la sua espressione normativa principale all’art. 329 c.p.p.

Il primo comma recita:

1. Gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

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L’estensione del segreto è un punto focale, soprattutto considerando l’abolizione del segreto istruttorio attuata nel 1989. La norma stabilisce, infatti, che il segreto decade nel momento in cui l’accusato viene a conoscenza della propria posizione, sia in via formale tramite invio di avviso di garanzia da parte del Pubblico Ministero sia in via informale tramite richiesta dello stesso o del suo difensore alla Procura della Repubblica di conoscere il proprio stato di fronte alla legge. Molto spesso però il soggetto viene a conoscenza della propria posizione di indagato solo nel momento in cui le indagini preliminari si chiudono e viene formulata dal Pubblico Ministero una richiesta di rinvio a giudizio: prima che questo avvenga, il cittadino non ha precisa conoscenza del reato per cui potrebbe essere perseguito, quale Procura proceda nei suoi confronti, degli elementi eventualmente raccolti a suo sfavore e addirittura da quanto tempo vadano avanti le indagini. Anche in questo caso, la norma stabilisce che il segreto investigativo non possa protrarsi comunque oltre la fine delle indagini preliminari.

Il segreto istruttorio stabiliva invece che la segretezza fosse garantita per l’intera durata dell’istruttoria, di conseguenza fino al termine delle indagini, con il risultato che l’indagato scopriva di essere tale solo se e quando veniva formulata l’imputazione.

A questo proposito, si può ricollegare un’altra annotazione: il testo cita espressamente gli atti di indagine del Pubblico Ministero e della polizia giudiziaria, escludendo volutamente le indagini della difesa, a riprova del fatto che queste godono di un

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apparato normativo particolare e a sé stante, in svantaggio rispetto alla pubblica accusa: modalità, tempi e soprattutto mezzi in mano alla difesa sono decisamente ridotti e, molto spesso, anche il miglior uso degli strumenti a disposizione del difensore non basta ad eguagliare i risultati raggiunti dalla controparte, con una evidente compromissione del diritto alla difesa da parte dell’individuo.

I restanti tre commi dell’art. 329 c.p.p. trattano dei casi speciali di deroga al segreto da una parte e alla pubblicazione di singoli atti dall’altra. Nel caso si renda necessario per la prosecuzione delle indagini, il Pubblico Ministero può, previo decreto motivato, consentire la pubblicazione di singoli atti o parti di essi depositati presso la propria segreteria e, per la stessa necessità di indagine e con la stessa modalità, disporre, al contrario, l’obbligo alla segretezza su determinati atti o parti di essi su consenso dell’imputato o quando la conoscenza pubblica di tali elementi rischi di compromettere indagini su terze persone. Allo stesso modo, il pm può vietare la pubblicazione del contenuto di singoli atti o particolari notizie relative a determinate operazioni.

Al secondo comma si fa riferimento ad un altro articolo del codice di procedura penale, l’art. 114 c.p.p., nel quale si esplicitano i casi particolari in cui è possibile apporre il divieto di pubblicazione, suddividibili in quattro macroaree.

La prima area, composta dai primi due commi dell’articolo 114 c.p.p., riguarda ancora l’ambito delle indagini e dell’udienza preliminari. In questa fase è vietata la pubblicazione di atti coperti da segreto o del loro contenuto, anche parziale o in

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