• Non ci sono risultati.

La sintassi e i generi

Se si confrontano le posizioni della critica italiana all’uscita sul secondo numero del «Menabò» della Ragazza Carla di Pagliarani1, si può notare che il dibattito sostanzialmente verteva sulla questione dell’appartenenza del poeta di Viserba e del suo appena pubblicato romanzo in versi alla compagine neoavanguardista che si stava in quei primi anni Sessanta profilando. Secondo alcuni, però, tra la scrittura di Pagliarani e la poetica neorealista sussistevano ancora saldi punti di contatto che andavano individuati nell’assorbimento della istanza moralistica (o nella presenza di una venatura di populismo padano) e nel recupero dei dati cronachistici e quotidiani che, tuttavia, si stempera con la perdita di quel «fondo idillico» tipicamente ascritto al quadro della poesia degli anni Cinquanta2. L’estrazione di materiali realistici esplicativi della stagione neorealista se è immediatamente tangibile al livello lessicale, nondimeno affonda nel privilegio accordato all’oralità e alla pronuncia mimetico- enfatica del parlato, e oltretutto segna l’adesione ad un universo ideologico-morale di derivazione sì neorealista ma sorretto dal bisogno di un rapporto più consapevole, non mistificato, tra la rappresentazione letteraria e il rappresentato. Puntando l’analisi sulla permeabilità dei contenuti linguistici del parlante nei confronti della progressiva

1 Cfr. «Menabò», 2, 1960.

2 Cfr. «Dei molti autori di versi che hanno appartenuto al confuso ma importante gruppo dei cosiddetti «neorealisti», pochi sono stati quelli che abbiano portate avanti le premesse morali e ideologiche dei loro versi senza flettere, in corrispondenza della grande crisi del 1956, verso forme metriche e ordini di linguaggio che avrebbero rivelato il fondo idillico di quei furori. Ora Pagliarani è uscito da quelle incertezze per una via che non saprei indicare di più pericolose; ma ne è uscito. La tonalità populista, o socialisteggiante, le inserzioni dialettali o cronachistiche, l’amarezza e l’ironia della grande città, tutto questo poteva darci tutt’al più una gradevole ripresa di certi minori fine Ottocento, alla Pompeo Bettini. Mi pare che Pagliarani, si sia spinto più in là, e con grande serietà di intenti. È, in sostanza, la ripresa di quell’accento più moralistico che didascalico (e, malgrado le apparenze, più drammatico che narrativo) che è stato di Jahier, ma con le letture di Majakovskij o di Brecht» (Franco Fortini, Saggi e epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, «I Meridiani», Mondadori, Milano, 2003, p. 570).

75 mercificazione del reale nella società dei consumi e, quindi, sull’azione di svelamento, attraverso il linguaggio, dei contenuti ideologici della società neocapitalistica, Pagliarani opera in direzione neoavanguardista quando respinge, secondo Alfredo Giuliani, lo statuto di artificio della lingua poetica per attualizzare identità e scenari rispondenti ad un criterio di realtà e non di letterarietà3.

Mettendo a frutto la lezione di «Officina» e de «il verri», riviste coeve ma oppositive l’una all’altra (sono i presupposti, i metodi di intervento e gli esiti a segnare distanze), Pagliarani, collaboratore di entrambe, sottopone la poesia ad una rifondazione del rapporto con la realtà storica convocandola ad una maggiore interferenza con i nuovi linguaggi della società moderna. La tradizione italiana è troppo povera di testimoni eccentrici rispetto a una linea alto-conservatrice perché per Pagliarani si possa agganciare a una qualche genealogia il suo criticismo corrosivo verso la figuralità “alienata” della poesia e della letteratura in genere. Si è fatto riferimento all’illuminismo di marca lombarda, quello di Parini per intenderci, all’epica quotidiana del verismo minore di fine Ottocento (De Marchi, Praga), alla Scapigliatura, recuperata in particolare nella propulsione anarcoide, al crepuscolarismo primonovecentesco avvicinato sotto la lente della squalifica e della contestazione del ruolo di poeta; infine, a Pavese per l’acquisto di una versificazione lunga, ritmica, narrativa e soprattutto non allineata alla dorsale novecentesca in quegli anni rappresentata dall’ermetismo. Conformemente agli altri protagonisti del gruppo elevato a formazione organica dall’antologia-manifesto di Alfredo Giuliani del 1961 («I Novissimi»), a contare per Pagliarani (e per gli altri: Balestrini, Sanguineti, Spatola) saranno nomi che esorbitano sensibilmente dal panorama italiano. Le radici culturali del poeta affondano, soprattutto, nella tradizione poetica anglosassone: Thomas S. Eliot, Bertolt Brecht, James Joyce, Majakovskij, Ezra Pound, Wystan H.

3 Cfr. «Vedere le figure di questo piccolo mondo impigliate nella goffaggine sintattica della situazione, o sporcarsi in certe brusche soluzioni “parlate” del discorso, significa toccare con mano quel che intendiamo per “semantica concreta” di una poesia. Pagliarani ha messo a frutto il suo Maiakowski e il suo Brecht, e perfino il suo Eliot e un Pound demistificato e il Sandburg di Chicago; niente più che spunti e suggerimenti nella costruzione di un linguaggio adeguato alla cosa da dire e che dall’esperienza della vita ha tratto pressoché tutto il resto: la poetica, le nozioni, il lessico, i personaggi e i modi del discorso. Niente di più «padano», in effetti, della struttura quasi dialettale di Pagliarani, del suo fondo popolare da cui sembra riemergere il tradizionale filone rivoluzionario-conservatore tipicamente emiliano» (Alfredo Giuliani, Introduzione a I Novissimi: poesie per gli anni ’60, con un saggio introduttivo e note a cura di Alfredo Giuliani, Rusconi e Paolazzi, Milano, 1961). La normalizzazione linguistica era giunta puntuale dopo la temperie neorealista: il rapporto tra autore e lettore si era nuovamente ristabilito nel segno della complicità.

76 Auden, Franz Kafka, Carl Sandburg, William C. Williams, Charles Olson, la beat

generation rappresentarono un modello più incisivo sotto il profilo

dell’allontanamento dal paradigma lirico e della riformulazione del rapporto tra testo e codificazione. Anche se nel caso di Pagliarani, la densità degli scambi è rivolta per larga parte a favore della sponda anglosassone (primeggia la linea Brecht-Pound- Eliot), lasciando invece a più sfilacciata la trama dei rinvii alla tradizione interna (la ballata tardo-ottocentesca di Francesco Dall’Ongaro o la novella in versi – Edmengarda - di Giovanni Prati restano paralleli deboli della poesia narrativa italiana), quest’ultima tuttavia non esce mai dal sistema dei referenti di Pagliarani. Anzi culmina nell’affiancamento – come ha letto qualcuno4 – a figure di isolati del nostro Novecento

(Cardarelli, Pavese, Fortini) oppure nel disimpegno dalla purezza linguistica di matrice ermetica (l’influsso di Jahier) per convergere verso quell’escursione tra alto e basso dello stile, infine verso quell’interferenza tra materiale poetico e non-poetico nel corpo del testo, che è ricercata sulla scorta di Gozzano.

Fatta salva l’adesione ai termini contestativi del gruppo, l’opzione poetico- programmatica della neoavanguardia nel suo oltranzismo linguistico-espressivo resta però a latere nel Pagliarani della Ragazza Carla. Più opportuno considerare la collocazione del primo Pagliarani come un episodio di mediazione (di «cerniera», secondo Luperini5) tra neoavanguardia e neosperimentalismo capace di far transitare entrambe verso un grado alto di convergenza stilistico-tematica che si avvicina all’area dello sperimentalismo lombardo (Giudici, Majorino, Roversi, per fare qualche nome), non immune, come noto, dalla accentuazione di una tonalità civile e dal valore di una parola concreta da impiegare nella poesia (la poetica degli oggetti). Se la rottura col passato è inquadrata – per i “novissimi” - nella dissoluzione degli istituti ideologici e poetici attivi nella tradizione e garantita dal perseguimento della frizione tra il sistema della lingua comune e la figuralità letteraria, il processo di affrancamento dal novecentismo poggia su un evidente fondamento negativo che, in Pagliarani, conosce una correzione in senso positivo-costruttivo: la dilatazione, in senso contenutistico, dei

4 Costanzo di Girolamo, Ritratti critici di contemporanei: Elio Pagliarani, «Belfagor», n. 2, 1974, pp. 197-203.

5 E così anche Niva Lorenzini e Stefano Colangelo in Poesia e storia, Milano, Bruno Mondadori, 2013, p. 205.

77 significati della poesia, dando responsabilità allo scrittore nel «mantenere in efficienza, per tutti, il linguaggio» (Pound)6.

L’immissione di materiale extra-letterario e extra-artistico, l’interferenza tra tonalità del linguaggio “alto” e “basso”, la contravvenzione alle regole del monolinguismo, lo sfaldamento dei codici metrici e stilistici tradizionali, l’accentuazione della modalità ellittiche e polivalenti del parlato, le sprezzature prosastiche del dettato lirico, sono alcuni dei tratti più tipici della scrittura della Ragazza Carla e sono fattori saldamente interdipendenti qualora si tenga presente il grado di tensione metapoetica a cui sono condotti e da cui dipendono. In Pagliarani, il principio poetico-narrativo è governato da un grado di riflessione sul linguaggio che se non fa eccezione rispetto alla compagine neoavanguardista, tuttavia si risolve non nella «visione schizomorfa con cui la poesia contemporanea prende possesso di sé e della vita presente»7 ma nella riconsiderazione delle strutture di senso che,

sovraintendendo l’atto enunciativo e la scelta dei mezzi espressivi, si categorizzano come generi letterari. A questo proposito vale la pena riportare una pagina che per il suo evidente carattere programmatico risulta centrale nell’ambito della riflessione di Pagliarani:

Non ha senso negare l’identificazione lirica = poesia senza una reinvenzione dei generi letterari. E ciò è già stato storicamente dimostrato: il tempo e la realtà incaricatisi di rompere un diaframma, la poesia allarga i suoi contenuti, ma non può farlo se non dilatando in corrispondenza il vocabolario poetico. Ma arricchire il vocabolario non significa necessariamente arricchire il discorso, può anche voler dire che si arreca turbamento e confusione. Nessun vocabolo ha illimitate capacità di adattamento (e quante più ne ha tanto più è semanticamente avvilito); ogni vocabolo ha i suoi precisi problemi sintattici, si muove in una sua area sintattica. E la dilatazione lessicale postulerà una sintassi del periodo, non soltanto della mera proposizione. Le diverse soluzioni sintattiche imprimono al discorso tensione durata ritmo diversi: questa designazione di tonalità, questa specificazione di struttura appartengono per definizione ai generi letterari. La reinvenzione dei generi è quindi la necessaria conseguenza della più ampia e variata modulazione sintattica del discorso

6 La riconsiderazione del rapporto tra scrittura e realtà testimonia, nel caso di Pagliarani (e della neoavanguardia) che «non si tratta di aprire la struttura poetica sotto gli urti del linguaggio comune, soffrendo soggettivamente tale violenza, si tratta di far reagire il linguaggio comune con la figuralità letteraria, liberando sensi oggettivamente repressi e riscoprendo quindi la funzionalità pratica della poesia» (Walter Siti, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi, Torino, 1975, p. 25).

7 Gruppo 63: critica e teoria, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Testo e immagine, Torino, 2003, p. 36.

78 poetico conseguente all’arricchimento del lessico. L’identificazione lirica = poesia (la parte per il tutto) ha, tra i suoi speciosi corollari, l’identificazione del kind lirico con il genre lirica, dove il primo termine qualifica invece il genere come categoria psicologica, portatore di determinati contenuti dell’opera di poesia – drammaturgico, epico, lirico, didascalico, ecc. - , e il secondo qualifica il genere come portatore di tradizioni stilistiche – sonetto, ode, poemetto, ecc. -; la distinzione comportando, tra l’altro, la positività delle retoriche. Ora, il genre poemetto, il kind poesia didascalica e narrativa sono proprio gli strumenti coi quali in questi anni si esprimono, con premeditazione, alcuni di quei poeti che, tendendo a trasferire nel discorso poetico le contraddizioni presenti nel linguaggio di classe, adoperano un materiale lessicale plurilinguistico (come il genre “capitolo”, la “prosa d’arte”, fu lo strumento, tra le due guerre, dell’operazione inversa, di depauperamento e rarefazione della prosa stessa). S’intende ovviamente, che la sperimentazione plurilinguistica ha come intrinseco finalismo l’espressione monolinguistica; ma con la nostra tradizione letteraria ce ne vorrà del tempo per risciacquare i panni in Arno! Tempo che si potrà mettere a frutto magari anche seguendo l’indicazione di Eliot sulla forza sociale che acquista la poesia quando è proposta in forma teatrale (forza che rompe le stratificazioni del pubblico); ma forse l’unico modo per accelerare i lavori è che ci sia proprio necessità oggettiva di scrivere tragedie… per il genre “dramma in versi” direi che ora gli strumenti li abbiamo8.

Posizionandoci nel contesto italiano, l’identificazione (tautologica) della poesia con la lirica, secondo l’analisi di Pagliarani, nasce dall’assolutizzazione di un processo metonimico in seno alla poesia (la ‘lirica’ per il genere), e che pertanto, in concomitanza con la disgregazione delle forme espressive canonizzate, occorre contestare attraverso un «ribaltamento radicale dell’universo ontologico della tradizione novecentesca»9. Il romanzo in versi di Pagliarani, La ragazza Carla, costituisce un caso esemplare di eversione dal canone in quanto alimentandosi di «sollecitazioni allotrie e [situandosi] al crocevia tra diversi generi letterari»10, quali la poesia e la narrazione, promuove quella «riconsiderazione complessiva del genere poetico»11 che il secondo Novecento tentava da più parti, e con esiti molteplici, di

8 Elio Pagliarani, La sintassi e i generi, in «Nuova Corrente», n. 16, 1959, poi ripreso nell’antologia I Novissimi, cit.

9 Alberto Asor Rosa, I due tempi della poesie di Elio Pagliarani, in Elio Pagliarani, La ragazza Carla e nuove poesie, a cura di A. Asor Rosa, Mondadori, Milano 1978, p. 13.

10 Marianna Marrucci, Effetti di romanzizzazione in Elio Pagliarani, «Moderna», n. 2, 2000, [pp. 137- 166], p. 137.

79 alimentare. La saldatura tra realtà biografica e espressione nella poesia lirica genera una dimensione enunciativa monologica contrapposta, come insegna la teoria di Bachtin, alla pluridiscorsività e plurivocità della prosa romanzesca; sono quindi due modelli enunciativi contrapposti sul piano della mediazione tra il soggetto e la realtà. La contestazione degli aspetti della comunicazione letteraria muove verso un modello capace di limitare se non proprio far cadere il carattere soggettivistico e autoreferenziale della lirica, fino a quel momento dominante, a vantaggio di una dimensione narrativa in grado di accedere ad una rappresentazione mimetica della realtà, lasciando che siano soggetti diversi dall’io lirico a parlare.

Quando Pagliarani, nella pagina sopra riportata, condiziona la reinvenzione dei generi letterari ad una «più ampia e variata modulazione sintattica del discorso poetico conseguente all’arricchimento del lessico» individua un problema metodologico e pone in corrispondenza gli strumenti del suo intervento: non si può, insomma, agire dall’“alto”, senza intervenire preliminarmente sui materiali linguistici, cioè su quei materiali che permettono di capire quale rapporto mimetico sussiste tra il mondo di carta e quello reale; ciò di cui si scrive diventa tanto importante quanto il come si scrive: l’ampliamento di ciò che può essere detto in poesia procede, in questi anni, di pari passo con l’arricchimento del vocabolario ottenuto dando accoglienza intere famiglie lessicali di provenienza eterodossa rispetto alla norma d’uso o aggregando materiali eterogenei.

Naturalmente l’esigenza plurilinguistica non fu avvertita solo dalla neoavanguardia e da Pagliarani, che infatti quando ricorda che «poesia didascalica e narrativa sono proprio gli strumenti coi quali in questi anni si esprimono, con premeditazione, alcuni di quei poeti che […] adoperano un materiale lessicale plurilinguistico» ha in mente i protagonisti del neosperimentalismo e della rivista «Officina». Corrente poetica, questa, quasi contemporanea al gruppo nato attorno a «il verri» e promotrice, per iniziativa di Pasolini, della ripresa di una forma poetica ibrida tra narratività e liricità immessa nel nostro secolo da Pascoli: il poemetto narrativo. La pratica del gruppo officinesco, supportata da una teorizzazione che ha come vertici il mito resistenziale e la riadozione di modi stilistici prenovecenteschi, sollecita l’acquisto di una decisa istanza realistica, oscillando però tra «un umanesimo difensivo [...] e una persistente retorica, una letterarietà insita e un’attitudine problematica, senza

80 sottrarsi a fraintendimenti e mitizzazioni che finiranno per offuscarne la viva e sicuramente autentica carica sperimentale protesa verso un rinnovamento espressivo»12. Nella seconda metà degli anni Cinquanta escono Le ceneri di Gramsci di Pasolini (1957), La cantica di Francesco Leonetti (1959), Le porte dell’Appennino di Paolo Volponi (1960), e nel 1962 Dopo Campoformio di Roberto Roversi: tutti poemetti narrativi. Con una precisazione: l’opzione narrativa, in questi casi, indebolisce i tipici fenomeni di rarefazione del poetico, esercita una decisa forza d’attrazione sui moduli compositivi del testo senza però far emergere il principio costruttivo della prosa. È una adesione o, come si ripete spesso, un abbassamento del tono della poesia al livello prosastico non sempre convincente, se di fatto recupera per via indiretta il monolinguismo dell’io non eccependo dalla strumentazione tecnica della lirica.

Prima di chiudere questa parte introduttiva, è opportuno recuperare dal testo teorico l’altro modello di riferimento, stavolta esplicitato, da consegnare direttamente alla predisposizione dell’assetto e della struttura testuale. È il caso di Eliot. La dominante eliotiana del «dramma in versi» a compimento della riflessione sulle «tre voci» della poesia costituisce una, se non la principale, figura di mediazione teorica a cui la Ragazza Carla guarda per approntare la fuoriuscita dal paradigma lirico, dalla monotonia del suo «contenuto psichico» per dirla nei termini del poeta inglese. Con la convinzione che le vie antiliriche declinano esiti vari e difformi (pertinenti a poeti di estrazione diversa), Pagliarani concepisce l’approdo a un discorso poetico transitivo (di mimesi socio-linguistica del quotidiano) con un supplemento di complessità del testo dovuto all’articolazione di personaggi e storie sopra un intreccio (o sceneggiatura) di ispirazione romanzesca. Un dato, questo dell’apparentamento al romanzo, da cui si potrà misurare da una parte il grado di rifunzionalizzazione della lingua poetica a fronte dell’indebolimento referenziale del segno attivo nella stagione poetica immediatamente precedente, e dall’altra il solidificarsi dei dispositivi diegetici, la gestione di una temporalità esterna e progressiva; dispositivi, in definitiva, che entrano in interazione con l’altro modello attivo e operante sulla scorta di Eliot: il modello semiologico teatrale. Modelli cooperanti nel consolidamento di quelle istanze liquidatorie del soggetto convocate da più parti (la generalmente nota «riduzione

81 dell’io») e nel passaggio dalla dizione epifanica e soggettivistica della lirica alla finzione di personaggi nel tempo e nello spazio.

Documenti correlati