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La tartaruga di Jastov

«Ho paura che non sappiamo nemmeno più guardare, alla lettera: non vediamo

più nulla.» […]

Senti come bisogna

14Cfr. «il paratesto, spazio di confine, è una zona non solo di transizione, ma di transazione: luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di una azione sul pubblico, con il compito, più o meno compreso e realizzato, di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente, agli occhi, si intende, dell’autore e dei suoi alleati» (G. Genette, Soglie: i dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, p. 4).

163 staccarsi per amare:

come tutto è contrario? come ogni cosa contraddice noi e sé; ma chi le tocca,

queste “Cose”, chi ci mette mano?15

«Al largo della Jugoslavia, non lontana dalle acque territoriali albanesi» si trova Jastov, «un’isola immaginaria», ci avverte l’autore nelle Note16. L’isola dalmata è dunque un toponimo di fantasia, non del tutto libero però da precisi riferimenti a una geografia reale. L’annotazione dell’autore avrebbe forse un peso diverso se all’interno della compagine testuale non ci fosse un capitolo intitolato come l’intero romanzo, ma è tuttavia difficile dire se l’episodio raccontato nel capitolo eponimo abbia una importanza maggiore degli altri. Questo non significa che non svolga un ruolo di orientamento nella trama complessiva, ma è altrettanto vero che i punti di accesso al «romanzo» possono essere più di uno come si capirà meglio più avanti. Forse conta poco, allora, che in nessun’altra parte del testo si faccia più riferimento né a Jastov né a una tartaruga, e più importa recuperare quel legame tematico con il primo capitolo (Il giorno di Capraia), l’unico ad essere lasciato scoperto. Cosa lega i due punti del testo? Ad un primo livello in entrambi si racconta che in una giornata di pesca subacquea qualcuno si immerge per catturare due «grandi» creature marine leggendarie (il pesce angelo e la tartaruga), senza riuscirci. Se, poi, interroghiamo il testo a un livello ulteriore un doppiofondo simbolico ci astrae dal dato puramente informativo e legge quell’episodio semplice come un episodio dotato di un significato più ampio, un significato che ambisce, per via allegorica17, a toccare un concetto più

universale; può essere espresso così: «quale verità giace al fondo invisibile delle cose e del nostro essere?», è la domanda che sembra risuonare per tutto il «romanzo».

I due capitoli elaborano due risposte complementari che restituiscono un’idea problematica dello statuto di realtà del mondo e del personaggio. Nel primo capitolo, la dialettica tra invisibile/visibile si declina come dialettica tra vero/falso andando a

15 G. Cesarano, La tartaruga di Jastov, Mondadori, Milano, 1966, p. 66, d’ora in avanti con la sigla TJ. 16 Note, TJ, p. 177.

17 Per il pesce angelo, la tartaruga di Jastov si è richiamato non a caso Moby Dick, parlando di una «presa allegorica» che rappresenta una cifra della scrittura di Cesarano di cui ha parlato Giorgio Luzzi, rifacendosi a quanto già detto da Raboni: «la grande tartaruga marina che sfugge, dopo la cattura, al pescatore subacqueo è Moby Dick, è il simbolo del niente, è la faccia dell’illusione e il suo gigantesco decomporsi» (G. Raboni, Poesia degli anni Sessanta, cit., p. 154).

164 recuperare il dissidio tra linguaggio e realtà: l’immagine linguistica fallisce il suo aggancio al referente e crea una versione altra, semiotica, quindi menzognera, della realtà («Non cercare di dirci, | tornato sulla barca, | ciò che hai visto nel freddo | grigio immerso; | non cercare parole che non esistono: | se nessuno di noi è stato | laggiù, nessuna parola | potrà evocare per noi. Così taci. | Però se cerchi qualcuno come te | che conosce i fondali della cernia, | parlerete e vedrai: lo scambio | non è del vero, ma di fole pittoresche»18); nel secondo capitolo, la stessa dialettica si declina tra

indecifrabilità/decifrabilità trovando una esemplificazione nello smarrimento del personaggio di fronte alle tracce, presenti sull’isola, del periodo fascista19 riguardo a

cui, interpellato da chi invece riconosce quella eredità storica, risponderà: “«Non so,» dico, «non voglio, non capisco»”20; l’impossibilità di integrare il passato al suo

presente, corrode lo stesso presente, rendendolo non meno inabitabile del passato21

(«C’è una nave che parte domattina, | mi dico, ma niente di buono mi spetta in Italia»22,

«Tra poco, | passati il mare e i valichi, | discenderai con Nina nell’inverno | dove nulla si muta e i vostri fiati | saranno solo poca brina ai vetri»23).

Di fronte ad una verità che si spinge sempre più in fondo, fino a diventare essa stessa invisibile e inafferrabile, la realtà e l’individualità cominciano a vacillare, a perdere stabilità ontologica. Il reale è detto cancellato dalla menzogna del linguaggio, il soggetto estromesso dal senso del suo presente e della Storia. Vero e falso, bene e male sono valori inappellabili, fortemente contraddittori nel regno del visibile di Cesarano, come mostrano questi due passi convergenti: «Così è peggio, lo vedete cosa

18 TJ, pp. 13-14.

19 È in primissimo luogo, la memoria dell’«occupazione fascista della Dalmazia e [del] trapianto che ci fu, in questo Adriatico orientale, di miti elementari e precariamente grotteschi, di velleità di potenza, di una statuaria esposta al salino e di un mito di grandeur un po’ analfabeta un po’ stracciona, che in qualche residuo nostalgico della costa dalmata negli anni sessanta sembra essere duro a scomparire» (G. Luzzi, Il percorso letterario di Giorgio Cesarano, cit., p. 91). Ricordiamo che Cesarano si era arruolato nella brigata fascista Decima Mas in gioventù. Ma a questo proposito si legga questo passo: «Così è peggio, lo vedete cosa conta | essere stato partigiano o fascista una volta, se dalla parte sbagliata è ancora tutto; | se tutto è ancora da fare | preferirei essere, con il male, morto | piuttosto che vivo qui | per errore a parlare d'errori» (TJ, p. 102).

20 TJ, p. 120.

21 In un altro punto, cfr. «Mentre mi gioca | la mia memoria menomata tiri | foschi, sono vestito di cinghie, sdraiato | dietro sacchetti di sabbia, nel corridoio | d’un giornale, ho il basco | della Decima Mas, due bombe | a mano davanti il mento, il mitra | caricato» (TJ, pp. 100-101); e: «Li vedevo, a torme, dal monte | come di lupi scendere, bruniti | e con brunite mitragliatrici, | (così mi si presentò dunque l’altro tempo, | quello che non pensavo di vivere più, | così a salti allupati giù da pietraie | con membra scamiciate guance nere | piombavano uomini nuovi, | nuovi, che non avevo saputo vedere)» (TJ, p. 136). 22 TJ, p. 120.

165 conta | essere stato partigiano o fascista una volta, | se dalla parte sbagliata è ancora tutto; || se tutto è ancora da fare | preferirei essere, con il male, morto | piuttosto che vivo qui | per errore a parlare d’errori»24, «Tenuti qui da parole: | le parole hanno razza,

amicizie, | può bastare una combinazione grammaticale | a gemellare, piccoli, universi; || e la menzogna fa | la reazione a catena)»25. Ciò che viene raccontato nei due capitoli

pone dunque quel tanto di rispecchiamento realistico in flagranza con una tensione allegorica che gioca evidentemente a caricare di sovrasensi il narrato: l’immagine stessa del mare trascende il piano referenziale al fine di rappresentare in modo emblematico la zona di passaggio tra visibile e invisibile, tra ricerca e smarrimento di sé.

Questo parlare per figure rappresenta il regime conoscitivo e espressivo preponderante nel romanzo. Additando i vuoti, Cesarano osserva il reale tra «superfici e simulacri»26, recuperando un senso complessivo da una catena metonimica di

«episodi-spettacoli» installati «dentro la prospettiva di un’unica e forse emblematica “vacanza”»27. La vacanza del week-end è stata interpretata dalla critica come metafora

di una postazione ideologica dell’autore-implicito, come una cornice di senso superiore da cui i singoli episodi slegati tra loro ricevono, da una parte, una maggiorazione di allegoricità28 facendo perdere però terreno alla dimensione spaziale

e temporale, e dall’altra una fortificazione della dimensione della parola sia essa drammatizzata in forma di dialogo (in realtà più monconi di dialogo, come ha visto Bazzocchi) oppure posta in forma gnomica. Questa cifra allegorica costituisce un principio di lavorazione della narrazione di Cesarano ma soprattutto ha una sua densità ermeneutica funzionale, come ormai è chiaro, alla veicolazione dell’istanza autoriale. Il discorso ideologico dell’autore, sciolto poi dall’abbraccio dell’allegoria, prenderà sempre più il sopravvento sul mondo della narrazione e si propagherà libero lungo

24 Ivi, p. 102. 25 Ivi, pp. 106-107.

26 M. A. Bazzocchi, Ancora racconti in versi, in La poesia italiana del secondo Novecento: atti del Convegno di Arcavacata di Rende, 27-29 Maggio 2004, Mod – Società italiana per lo studio della modernità letteraria, a cura di Nicola Merola, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

27 G. Raboni, Poesia degli anni Sessanta, cit., p. 93.

28 Il pescatore subacqueo di Il giorno di Capraia, il tiratore a volo e il pilota di Autodromo, l’Abominevole Cow-boy e il Bisonte texano di Catch e altro, Nina, Raboni nelle visite di fine estate, gli oggetti-reperti del lager, se circondati da un alone di indeterminatezza, dall’altra parte introducono un sensibile allargamento delle possibilità tematiche (storia, sport, colonialismo, Shoah, politica, etica entrano in varia successione) che rappresenta il modo in cui ‘a tappe’ o per emblemi (per figure, insomma: come quella di Raboni come «uomo buono»), progredisce il percorso di conoscenza del reale.

166 tutto il romanzo, manifestandosi in numerose formulazioni. Soprattutto a partire dalla seconda parte una gestione più personale della dimensione ideologica farà risultare questa meno mediata, meno implicita, meno ingabbiata nello schema della rappresentazione. L’ideologia sarà, insomma, dichiarata:

(prima glossa) «[...] Le cose | (sarà da aggiungere) | si fanno innanzi, vengono incontro, | come sono, | in quel loro essere in sé...»29; (seconda

glossa) «Si tratta però, ancora una volta, | di quella libertà luminosa || che lascia apparire... | li lascia apparire | e anche li lascia dissimularsi, | tali quali sono, | nella loro presenza, e | nel limite | - nel limite temporale, specialmente - | della loro apparenza»30; (con foga nuova) «(Tenuti qui da

parole: | ma | parlando come muti.) | Ma nell’intenso sforzo di | comunicare, come se | condividendo, | dubitando, | negando, | uno sbocco di vero rompa infine questa | tosse spastica [...]»31; (È detto) «La disputa |

tra bene e male, non finita, | né vinta, né perduta, che si dilunga: | non ne vedremo la fine. || Passa per noi, ci consuma | la vita: a mani vuote, | questa sola memoria, | e la verità, || la verità clandestina»32; (Terza glossa)

«Troviamo detto che il linguaggio | è la casa dell’essere, | e ivi abita l’uomo, che in quanto tale, | perennemente, | porta alla luce | l’essere, | del quale egli appunto l’uomo, | copula mundi, || è il pastore; | mentre della suddetta dimora | sono custodi vigilanti, | in diverso e connesso modo, | i filosofi | e anzitutto i pensatori, da una parte, | e i poeti | e anzitutto i narratori, i fattori | di miti, | dall’altra parte»33; (Nuovo proverbio) «(Sento

suonare le giuste parole | materiate nell’aria che è materia | anch’essa di future parole; | tutto nel chiuso del profilo greve || pare s’assesti, trovi luogo, forza, | tutta la resistenza, tutto il progettare. | Ma in me la verità che rintocca | muove le sottili frane di sabbia, || ma il brusio di voci mi brulica | d’insetti, di minimi mostri e vermi, | e l’impazienza che dico: «tutto, subito, | il più crudo possibile», è dolorosa debolezza.) || Se questa rabbia inutile | è la mia sola dignità»34; (Altri proverbi) «Guardare il mondo fino

a perdere gli occhi»: | parlarne fino a ammutolire. || Partire, andare a cerca degli uomini; | tornare al formicaio davanti all’uscio. || Ascoltare, guardare, imparare, ordinare, riflettere; | conoscere la menzogna»35; (Ultimo

proverbio) «(«Ma questo, Nina, volevo dirti: | che non siamo né liberi né veri | se vero è ciò che esiste, | libero ciò che si esprime. | Il presente, lo vedi, è un nostro passato, | gli avversari, li vedi, nostri antenati; | rincasiamo nel futuro, minimi | germi di ciò che non è stato. | Ma questo, Nina, ho ancora da dirti: | nella frana franiamo, saremo consumati, | ma ci teniamo stretti, ma sprofondiamo diritti, | ma siamo nel vuoto progetto 29 TJ, p. 93. 30 Ivi, p. 104. 31 Ivi, p. 108. 32 Ivi, p. 109. 33 Ivi, p. 109-110. 34 Ivi, p. 110-111. 35 Ivi, p. 112.

167 confitti | e certi, proscritti e ricchi, | siccome crediamo che il vuoto si colmerà, | il dubbio si muterà in sapienza.» «La pazienza serena farà la verità?»)36.

Con l’attacco dei proverbi, delle glosse, la voce autoriale si ritaglia, come indicano del resto le didascalie, spazi di discorso riflessivo, nicchie di concentrazione gnomica, che fanno arretrare il bisogno mimetico sotto il peso dell’urgenza ideologica e pedagogica. È questo il segno di un ethos del discorso poetico-narrativo comune negli scrittori degli anni Sessanta (come Majorino e Pagliarani). L’esigenza di «portare nel testo una dialettica ancora forte con il reale»37 in Cesarano arriva però ad un grado di

esplicitazione più alto dovuto alla minore emancipazione e autonomia cognitiva del personaggio principale rispetto alla sua controfigura reale. L’accentuazione di una tonalità morale38 data dal fronteggiarsi di formulazioni come verità pura, verità

clandestina, storia naturale con un pensiero negativo che avverte come unica verità oggettiva l’esperienza del ‘niente’ e la radicalità del male («Il male | è tutto, il male è | che non si può spengere il male, | che non si sa scegliere | un bene certo»39), il tono

morale, si diceva, emerge come un tentativo di chiarificazione delle proprie posizioni di intellettuale e di scrittore verso la realtà del processo capitalistico-produttivo che in quegli anni si andava sempre più affermando:

Io vedo un uomo: lavora per l’altrui; passa, la mente ai debiti contratti, sotto lapidi

alla trovata libertà. Leggo in tutto il visibile l’errore: la storia appare storta, deviata, ma sembra che ognuno di noi si tenga a un diverso paesaggio: parco con le mura e gli archi, cattedrali, pinacoteche, rocche, le fontane cantanti nell’ordine, la biblioteca trionfante.

Di qui s’esce il mattino

a confonderci sui tram delle vittime.»

36 Ivi, p. 114.

37 V. Frungillo, Il poema contemporaneo tra bios e Storia, «Ulisse», n. 15, cit., p 133.

38 Cfr. «è vero?», chiedeva, «è vero?», ma io lo fissavo | col mio stupore mai finto d’uomo che sa | come sia vero e falso il falso | e come quasi impossibile spiegare...» (TJ, p. 135); «vomiterò la mia anima | falsificata | una volta per sempre» (Ivi, p. 89).

168 «Idea ben puerile di storia.

Ma come devo dirle che non è questo il punto? Si concentri. Meno commozione. Meno vuoto. Meno pietà di se stesso astante.

Siamo un po’ tutti le affrante bestiole…»40

[...] chi ne mangia di questo azzimo

industriale (miracolato), chi trae un bene vero dal male?»41

Tra le differenti implicazioni messe in atto dalle tipologie testuali e discorsive interessate agli incroci tra poesia e romanzo, il motivo tematico dell’alienazione urbana, della spersonalizzazione nelle città «velenose» (così Cesarano in una lettera a Raboni42) costituisce sicuramente uno elemento di vivacità narrativa (che è anche di

valore critico) della letteratura che intende costituirsi come parte attiva rispetto alla

realtà (Raboni43)44. Ma per i motivi ideologici che vi sottostanno conviene riportare

uno stralcio dell’intervento scritto a quattro mani da Cesarano e da Raboni, a mo’ di dibattito, e pubblicato su «Paragone» nell’agosto del 1965 nella rubrica Questioni di

poesia45. Scrive Cesarano:

Intrattenere con la realtà dei rapporti in qualche modo positivi o utilmente compromissori già nella sua formulazione è una frase che implica una cognizione di ‘realtà’ e una di ‘poesia’ interdipendenti. È tipico del bricoleur questo atteggiamento di rispetto e d’amore nei confronti della realtà, di cui vuol essere, per ipotesi di necessità, una delle figure. Il bricoleur si sente, per sua natura, dalla parte della realtà. È la parte, naturalmente, dove da sempre si esercita la pressione mercificante del

40 Ivi, p. 106. 41 Ivi, pp. 66-67.

42 G. Cesarano-G. Raboni, Lettere 1961-1971, a cura di Rodolfo Zucco, in «Istmi», cit., p. 190. 43 Cfr. Appendice («Una specie di dibattito» sulla scrittura in versi), in «Istmi», p. 194.

44 Formule come questa illustrano bene quale fosse il centro etico di un dibattito impegnato a ridefinire il senso e la funzione dell’iniziativa culturale in rapporto alla nuova società dei consumi. Cfr. «oggi [...] voler scrivere di industria, fabbriche, operai, lotte sindacali e politiche [è] fiancheggiamento della conservazione. Capire il mondo intorno a sé è anche occuparsi di industria, fabbriche, operai, lotte sindacali e politiche. È agirvi dentro», (G. Raboni, «Il menabò di letteratura», 5, 1962, p. 44). Angelo Romanò dirà che «Stare dalla parte della realtà significa per Cesarano cercare [...] se, e in che limiti, è ancora possibile in poesia un giudizio sulla storia» (Questioni di poesia, «Paragone», cit., p. 155). 45 Tra l’agosto e il dicembre del 1965 ci fu un articolato dibattito su Paragone (n. 186/6 e 190/10) all’interno della sezione Questioni di poesia, che ospitò interventi di Cesarano, Giancarlo Majorino, Giovanni Raboni, Roberto Roversi, Angelo Romanò, Gian Carlo Ferretti, Renato Guttuso, Giorgio Dolfini.

169 potere. Il poeta non può ignorarlo (anche qualora non ne faccia esplicito cenno) semplicemente in quanto lo spettacolo della mercificazione è presente, chiaro e leggibile in ciascuna cosa e in tutte le cose. Nei confronti di quello spettacolo, il poeta contemporaneo è sempre un dissenter, per ragioni che certamente non sono soltanto politiche (più specificatamente politiche sono le ragioni del poeta civile che ‘scarta’ come ovvia la suggestione repulsiva dello spettacolo e cerca più addentro, nei meccanismi del potere operante, piuttosto che nei suoi risultati, la cifra dei mali del mondo). Ma immaginare che il dissenso si radicalizzi obiettivamente fino al punto d’assumere la figura d’un antagonismo globale, per cui da una parte si veda il potere e il suo esercizio, dall’altra lo scrittore di versi con il suo ‘rifiuto’, la sua ‘protesta’, o il suo ‘progetto’ di alterità, fu ed è ancora per molti un errore di prospettiva tipico, un ennesimo travestimento del romanticismo46.

La «partecipazione reale al destino del mondo»47 si traduce in Cesarano in una «tecnica

della visione»48 (che «trae partito da qualsiasi scatto dell’occhio o della memoria») in

grado rimettere a fuoco il rapporto tra realtà e scrittura nell’aderenza stretta alle cose. In fondo voleva dire mantenere in tensione il binomio sereniano che non soltanto intestava una rivista letteraria (Questo e altro) ma suggeriva un principio etico di lavorazione, quello cioè di non far esaurire il valore della letteratura in se stesso, e a questo principio occorreva continuare a rifarsi iniettandovi una carica antagonistica che non nasconde la prospettiva ideologica (il punto di vista, quindi) di chi scrive di fronte e dentro lo spettacolo della mercificazione.

Nella variegata fase di distaccamento dalla koinè ermetica (e postermetica) che ha caratterizzato il secondo dopoguerra, la ricerca d’oggettività in Cesarano concepisce l’approdo a un discorso poetico transitivo orientato in direzione prosaico- quotidiana, volto a ridefinire il significato e le forme del rapporto della letteratura con il pubblico (il ‘patto di lettura’ stabilito dal sottotitolo ‘romanzo’), secondo insomma quei moduli dell’inclusività, dell’impoetico che – al di qua della sperimentazione neoavanguardista – tendono a far reagire la lingua letteraria con il parlato comune. Nonostante l’ampiezza della ricerca di nuovi orizzonti linguistici e tematici appuntati su una realtà sociale rifiutata, in Cesarano stanno comunque lontano le cadenze del cronista o gli idioletti dell’impegno civile della stagione officinesca. Ma, al tempo

46Appendice, in «Istmi», cit., p. 195.

47 G. C. Ferretti, Questioni di poesia, «Paragone», n. 186, 1965.

48G. Raboni, Questioni di poesia, «Paragone. Letteratura», XVI, 190/10, dicembre 1965, [pp. 133-157], p. 156.

170 stesso, è pur vero che la poesia riceve l’investitura di un principio di responsabilità attraverso il quale sottoporre a esame critico i nostri paradigmi di realtà. Rispetto «al voyeurisme prestigioso-inerte degli ultimi avanguardisti e al radicale rifiuto di collaborare con la realtà pronunciato dai più rivoluzionari fra i sognatori»49 (i

songeurs) l’autore della Tartaruga di Jastov è definito – così ne parla Raboni, prendendo a prestito un’immagine da Il pensiero selvaggio di Claude Lévi Strauss – come «il più bricoleur, il più ambiguo di tutti, pronto […] a utilizzare ogni tipo di tecnica della visione (dalla pittura di Bacon ai fumetti dell’Uomo Mascherato, dagli interni lenticolari di Pieter de Hooch alle smarginature e sfuocature del cinemascope) e di espediente metrico o sintattico purché, messi insieme, facciano convenientemente discorso, purché non restino ad asciugare sulla pelle di oggetti e situazioni ma penetrino davvero dentro, sotto, e aiutino a dar corpo, vischiosità, certezza alle cose

da dire…»50.

L’essere dalla parte della realtà51 non deve far credere ad una configurazione

neutrale del mondo; il libro di Cesarano non fa che suggerire lo scarto dall’immediatezza referenziale anche attraverso l’opalescenza dello stile52. Dietro le

«forme e i profili del mondo sensibile»53 c’è un occhio vorace54 che tenta di disegnare

una mappa per aggregazione di parti (il bricolage) sapendo che questa, alla fine, sarà, come è inevitabile che sia, «una rappresentazione del mondo organizzato in discorso, in forme e strutture di significato»55: «a me non importa, non so: tanto, registro | ciò

che è a portata d'occhio, ciò che si sente | sopra o sotto il brusio, e quanto ricordo | dirà,

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