La domanda comunitaria di penalizzazione
V. La situazione attuale
Alla luce di queste premesse, storiche e metodologiche, è opportuno soffermarsi sull’attuale assetto del diritto penale europeo, a seguito dei plurimi interventi della Corte di Giustizia ed alle porte della rivoluzione copernicana operata dal Trattato di Lisbona.
La rivoluzionaria sentenza del 13 settembre 200574 ha legittimato una competenza normativa comunitaria in materia penale, prevedendo la possibilità di una domanda esplicita di tutela penale per mezzo di direttive.
La tecnica in oggetto è stata utilizzata per la tutela degli interessi finanziari ai sensi dell’art. 280 I comma TCE, nonchè, con la direttiva 91/250/CEE per la tutela dei programmi informatici, con cui si obbligano gli Stati membri a tutelare i programmi per elaboratore come opere letterarie e artistiche.
In dottrina, Sgubbi F., Diritto penale comunitario, in Dig. disc. pen., Utet, Torino, 1990, vol. IV, pag. 89, 73 Ne sono infatti state esempio le due pronunce nei confronti della Repubblica ellenica: la prima ha disposto che si procedesse all’assimilazione tra la tutela del bene interno e la tutela del bene comunitario, la seconda, dieci anni dopo, ha sanzionata la mancata adeguatezza della misura sanzionatoria.
L’assenza di una specifica indicazione in merito alla scelta del contenuto delle prescrizioni penali, ha lasciato che si sviluppasse, in seno alla Commissione, l’idea che la Comunità potesse giungere fino ad indicare misura e specie delle sanzioni, vincolando il legislatore nazionale in limiti edittali predeterminati.
E’ però la Corte di Giustizia75 a chiarire il punto e specificare che il contenuto delle direttive che, oltre a segnalare agli Stati l’opzione della tutela penale in talune materie di rilevanza comunitaria, ed a descrivere i requisiti costitutivi delle fattispecie incriminatrici, garantendo uno standard di tutela penale, non possa giungere a stabilire la tipologia delle sanzioni penali e i correlativi minimi e massimi edittali.
La sentenza segna il riconoscimento esplicito di un’ingerenza della Comunità, per mezzo di direttive a contenuto penale, nella selezione delle condotte penalmente rilevanti nelle materie oggetto delle politiche fondamentali della Comunità ponendo come limite che l’intervento normativo, nelle materie de quo, sia collegato al criterio dell’indispensabilità della sanzione penale.
La scelta così operata, pur nell’attribuire un ruolo di prim’ordine alle Istituzioni comunitarie, le vincola al rispetto del principio di riserva di legge statale prevenendo il rischio di un’eccessiva ingerenza nelle scelte di criminalizzazione, a discapito della sovranità degli Stati membri.76
75 CGCE 23 ottobre 2007, c. 440/05, Commissione c. Consiglio, cit.
76 Il ricorso presentato dalla Commissione per l’annullamento della decisione quadro in materia di inquinamento provocato da navi si è incentrato su: a)la negazione della competenza penale dell’Unione nella contestata materia e la correlativa competenza della Comunità; b) l’affermazione che la Comunità possa prescrivere il ricorso, attraverso lo strumento della direttiva, a sanzioni penali per le violazioni del diritto comunitario ove necessario. Sebbene il diritto penale non costituisca una politica comunitaria autonoma, la Comunità può adottare provvedimenti di armonizzazione dei reati e delle sanzioni penali in relazione ad ognuna delle materie di competenza comunitaria, a condizione che si rispetti il principio di necessità del ricorso allo strumento penale in funzione di attuazione delle disposizioni comunitarie. La Commissione, dunque, affermava la sussistenza di una potestà comunitaria ad armonizzare le disposizioni penali per tutte le materie di competenza comunitaria, nel principio di sussidiarietà e di necessità. Si tratta, dunque, a dire della Commissione di una competenza implicita, a predisporre misure di armonizzazione dei diritti penali nazionali, ove risultasse necessario al rispetto della normativa comunitaria e in relazione ad ogni settore delle politiche comunitarie. Il Consiglio ha fornito una lettura di segno opposto, negando fermamente l’esistenza di una competenza generale della Comunità ad armonizzare i diritti penali nazionali, ove ciò risulti necessario a renderle efficaci, sia che questa competenza possa riguardare la descrizione delle tipologie e la loro misura.
Ha poi chiarito che non è desumibile l’avvenuto riconoscimento da parte della Corte di una potestà normativa dei pilastri comunitari in materia penale in relazione a tutti i settori di competenza comunitaria, ma che in ogni caso la descrizione dettagliata dei requisiti costitutivi è funzione che spetta esclusivamente al terzo pilastro dell’Unione. Dunque, per legittimare l’emanazione di direttive a contenuto penale, non è sufficiente che ciò risulti necessario ad assicurare un’adeguata applicazione del diritto comunitario ma
Alle direttive, dunque, compete la facoltà di obbligare gli Stati a garantire uno standard di tutela penale, in alcuni settori, attraverso l’apprestamento di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza entrare nella species e nel quantum delle stesse77, individuando la tipologia e la misura delle sanzioni penali.
La questione trova apparente risoluzione nel riconoscimento normativo delle competenze europee in materia penale, operata dal Trattato di Lisbona, con il superamento definitivo della struttura a pilastri.
Riassumendo la questione ai minimi termini si può affermare che l’Unione europea diviene definitivamente competente a svolgere il giudizio di necessità di pena, ma non ad esercitare la potestà punitiva.
L’art. 83 Tr. FUE, sistematizza le competenze penali, indirette, di primo e di terzo pilastro, in un unico articolo, quasi a voler dare una concretezza normativa all’abolizione della divisione a pilastri.
Il primo paragrafo, comprendente le competenze penali che appartenevano al terzo pilastro, elenca le materie di diritto penale sostanziale nelle quali si persegue il ravvicinamento delle legislazioni in modo autonomo ed in assenza di un rapporto di funzionalità con le esigenze di cooperazione processuale.
L’Unione acquista in tal modo la legittimazione a “stabilire norme minime relative
alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale”, intendendo in tal modo riferirsi a quei
settori che prevedono già a livello nazionale una sanzione penale.
risulterebbe altresì necessario che la politica comunitaria fosse una delle politiche fondamentali dell’Unione.
77 La sentenza del 23 ottobre 2007, cit., risulta chiarire sotto tale aspetto alcuni aspetti, non altrettanto chiari della sentenza del 13 settembre 2005. Infatti, in accoglimento delle conclusioni dell’avvocato generale che precisava che la potestà normativa della Comunità, in funzione del ravvicinamento delle fattispecie penali incriminatrici dovesse concernere solo il potere di obbligare gli ordinamenti nazionali a qualificare come reati talune tipologie di condotte e non riguardasse anche il potere della Comunità di comminare sanzioni penali, così da preservare agli Stati una sfera di discrezionalità nella selezione delle sanzioni da comminare in modo da assicurare coerenza interna sia al diritto penale dell’Unione che agli stessi sistemi penali nazionali. E concludendo sotto tale aspetto che l’essenza della competenza comunitaria in diritto penale non mette in discussione il principio per il quale il diritto penale rientra nella competenza degli Stati membri nè compromette la coerenza interna dei sistemi nazionali, in conformità con il principio di autonomia degli Stati nel settore penale ed in attuazione del principio di proporzione comunitario.
Punti da 110 a 122; Conclusioni dell’Avvocato generale, causa c. 440/05, Commissione c. Consiglio Mazàk, 28 giugno 2007;
Il secondo comma, invece, individua specifici settori nei quali perseguire il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari ove il ricorso alla materia penale si riveli indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione, recependo in tal modo il dictum della sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2005, ove si prevedeva la potestà della Comunità di emettere obblighi di tutela penale se necessari per una tutela effettiva di una politica comunitaria.
Viene, dunque, garantito in tal modo il carattere sussidiario dell’intervento penale, mediante una valutazione in termini di necessità ed indispensabilità della pena.78
Ma ancor più rivoluzionarie risultano essere le disposizioni dell’art. 86 sugli interessi finanziari nonché la clausola di estensione dell’art. 86 Tr. FUE ove si stabilisce che il Consiglio europeo possa adottare, contemporaneamente o successivamente, una decisione allo scopo di estendere le attribuzioni della Procura europea, in materia appunto di interessi finanziari, alla lotta alla criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale.
Un tale disposizione, contenuta già nel Trattato Costituzionale sembrava attribuire alla Comunità una propria competenza penale diretta.
Autorevole dottrina79 si è però espressa in senso contrario alla possibilità di prevedere reati e pene in un atto direttamente applicabile sulla base di due fondamentali argomenti: che l’attribuzione di una competenza penale diretta dovrebbe essere stabilita in modo non ambiguo, diversamente da quanto avviene con una disposizione così congeniata, ed ancora che il riferimento ai reati “definiti dal regolamento”, ne preveda esclusivamente un elenco nominale e non anche gli elementi costitutivi.
La lettura maggiormente persuasiva80, rimane pertanto quella che la norma non assegni una piena competenza penale all’Unione, ma solo e limitatamente una competenza a stabilire con regolamento i precetti penalmente rilevanti limitatamente agli interessi finanziari.
78 Si ritiene che il giudizio di necessità o indispensabilità non riguardi però la tutela del bene giuridico quanto piuttosto l’attuazione efficace di una politica dell’Unione, quasi a ritenere necessario l’intervento a tutela di una norma e non di un bene. Si passa dunque da un paradigma teleologico ad un sistema normativista. In tal senso Sotis C., Le novità, cit., pag. 148 ss.
79 Grasso G., La Costituzione per l’Europa, in Lezioni di diritto penale europeo, a cura di Grasso G. e Sicurella R., Milano, 2007, pag. 695ss;
Infatti, ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 86 l’individuazione dei comportamenti lesivi degli interessi finanziari attribuisce all’Unione la competenza a svolgere un giudizio di necessità della pena mediante norme direttamente applicabili ma senza attribuirle la potestà punitiva.
Invece, la clausola di estensione in realtà non attribuisce all’Unione una capacità definitoria ma la possibilità di intervenire, in chiave armonizzatrice, su quanto già penalizzato a livello nazionale.
Un tanto pone una netta distinzione tra i beni propri comunitari, ove la legittimazione comunitaria è maggiore, concedendo all’Unione di decidere con regolamento quali debbano essere le condotte aggressive degli interessi penalmente rilevanti, ed invece gli altri settori, ove la competenza dell’Unione a legiferare deve rimanere nei confini della definizione nazionale del penalmente rilevante, senza possibilità di prevedere nuove ipotesi incriminatrici.
VI. L’assenza di obbligatorietà dei vincoli 1. I rimedi dell’ordinamento comunitario
Una volta imposti tali obblighi è necessario valutare quale possa essere la loro cogenza e forza giuridica, ossia quali siano gli strumenti di cui dispone l’ordinamento comunitario per far rispettare le sue domande di tutela.
Un tanto impone di esaminare, seppur sinteticamente, i rimedi giurisdizionali di cui è dotato il diritto comunitario per accertare ed eliminare le violazioni degli obblighi comunitari di tutela.
Un primo procedimento, disciplinato agli artt. 226 e 228 Tr. CE, è denominato ricorso in infrazione, e consiste nell’accertamento giurisdizionale dell’inadempimento agli obblighi comunitari, svolto dalla Corte di Giustizia su iniziativa della Commissione o di uno Stato membro delle Comunità.81
La Corte è chiamata ad emettere una sentenza di accertamento, limitandosi a constatare l’eventuale inadempimento dello Stato: infatti, la condanna di uno Stato da parte della Corte di Giustizia trova il suo limite nel principio secondo cui gli Stati sono liberi nella scelta dei mezzi di esecuzione degli obblighi internazionali, pur se derivanti da sentenza. La Corte pertanto non può condannare lo Stato ad adottare uno specifico provvedimento nè può annullare le norme interne contrarie al diritto comunitario.
La sentenza, precisamente, ai sensi del primo comma dell’art. 228 Tr. CE pone in capo allo Stato l’obbligo di “prendere provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia comporta” indicando a tale scopo le misure da adottare in relazione allo specifico inadempimento dello Stato.
Il giudice nazionale, quando la disposizione violata è direttamente applicabile, è tenuto a disapplicare la norma interna contraria a quella comunitaria, dando così attuazione alla sentenza della Corte e risolvendo l’antinomia.
Nel caso di norme sprovviste di diretta applicabilità, i giudici nazionali, invece, non possono disapplicare le norme in violazione del diritto comunitario a favore delle norme, violate, non direttamente applicabili. Quindi, in un caso di persistente inadempimento da parte degli Stati, nonostante la Corte abbia accertato una tale mancanza, farà sorgere una nuova procedura di infrazione diretta ad accertare l’inadempimento dello Stato rispetto agli obblighi scaturenti dalla medesima sentenza.
La seconda sentenza risulta scissa in due parti, la prima di natura dichiarativa ex art. 228 I comma, riguardante l’accertamento della violazione del diritto comunitario consistente nell’obbligo di “prendere provvedimenti che l’esecuzione della precedente sentenza comportava” e la seconda, vera e propria sentenza di condanna, strumentale all’attuazione del primo capo della sentenza.
Il secondo procedimento attuabile, in caso di contrasto con il diritto comunitario è il ricorso in via pregiudiziale. Il giudice nazionale può adire la Corte di Giustizia richiedendo l’interpretazione del diritto sovranazionale, dirimente il conflitto, risultando poi vincolato all’applicazione della norma così come definita dalla Corte.
Nel rinvio pregiudiziale, dunque, il giudice interno decide in conformità con le statuizioni della Corte di Giustizia e, disapplicando il diritto interno che risulti contrario, contribuisce a nazionalizzare gli obblighi comunitari.
Quanto agli effetti, solo un accenno di quello che poi si analizzerà più approfonditamente, occorre sottolineare che il giudice interno non può disapplicare la normativa interna contrastante facendo sorgere effetti in malam partem.
Al giudice nazionale, quindi, spetta il duplice obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario, dovendo adottare tutti i provvedimenti atti a garantire l’adempimento dei precetti comunitari, nonchè l’obbligo di interpretazione conforme alla Costituzione che impone di adottare sempre l’interpretazione maggiormente aderente al dettato costituzionale.
Il giudice nazionale si trova vincolato, non potendo da una parte dare attuazione all’obbligo comunitario rischiando di violare il principio costituzionale di riserva di legge, ma dovendo dall’altra adottare i provvedimento atti a garantire l’adempimento agli obblighi comunitari, non potrà fare altro, una volta posta la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, che rimettere il quesito alla Corte Costituzionale.
2. La teoria dei controlimiti
Vi è infine da considerare l’ipotesi ulteriore in cui il Parlamento abbia soddisfatto la domanda di penalizzazione della Comunità in un primo momento per poi invece decidere di modificare la normativa e scegliendo uno strumento extrapenale82.
Una tale depenalizzazione, da una parte è un potere legittimo del Parlamento nazionale che deve agire nel rispetto della riserva di legge ed esaminare l’opportunità delle opzioni di penalizzazione, dall’altra, invece, viola l’obbligo comunitario di tutela penale.
Si porrebbe, dunque, in un tal caso, un conflitto tra la Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale, risolvibile con il ricorso al già citato meccanismo dei controlimiti.
Il giudice nazionale che contesta la scelta di depenalizzazione dovrebbe pertanto rivolgersi alternativamente alla Corte Costituzionale per far dichiarare l’incompatibilità della legge nazionale di depenalizzazione con l’obbligo comunitario di tutela penale, ex
82 Ne sono esempio ipotesi di depenalizzazione in materia finanziaria o bancaria ove sanzioni amministrative o misure interdittive si rivelano maggiormente idonei a soddisfare l’istanza punitiva. Paliero C. E., Il principio di effettività del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, pag. 461ss.
art. 117 Cost., provocando una pronuncia di incostituzionalità per violazione del principio costituzionale di riserva di legge, oppure alla Corte di Giustizia per far dichiarare l’incompatibilità della legge nazionale di depenalizzazione con l’obbligo comunitario di tutela penale.
In questo secondo caso la Corte di Giustizia potrebbe dichiarare che l’obbligo comunitario di tutela penale violato debba cedere di fronte al principio di riserva di legge penale o invece dichiarare incompatibile con il principio comunitario la legge nazionale di depenalizzazione.
Solo nell’ipotesi in cui la Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale si trovassero in conflitto, ritenendo al contempo la stessa legge di depenalizzazione comunitariamente illegittima e costituzionalmente garantita, si attiverebbe il meccanismo dei controlimiti.