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Lo smantellamento dello stato sociale come risposta alla crisi

CAPITOLO 3: LA CRISI PROSPETTATA AL MONDO DA MEDIA E POLITICI.

4.4 Lo smantellamento dello stato sociale come risposta alla crisi

È nel 2013, cioè a ben sei anni dallo scoppio della crisi, che Gallino nel saggio Il colpo di Stato di banche e governi dedica un’ampia trattazione (successivamente ripresa a distanza di qualche anno nell’ultimo saggio Il denaro, il debito e la doppia crisi) allo smantellamento dello stato sociale ad opera dei governanti europei,

64 Ivi, p. 128.

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definendo lo stato sociale uno dei bersagli preferiti a causa del quale cui la stragrande maggioranza della popolazione si è trovata costretta a pagare i costi di una crisi di cui non solo non è stata colpevole ma è stata e continua a essere una vittima.

In particolare, ad essere stato bersagliato è stato il cosiddetto modello sociale europeo, una grande conquista del dopoguerra, definito da Gallino la più grande invenzione politica del xx secolo. In questa espressione è rintracciabile l’impegno della società intera a produrre e assicurare sicurezza economica e sociale per ciascun individuo indipendentemente dalla sua posizione sociale e rientrano quell’insieme di istituzione pubbliche che una Stato adotta allo scopo di assicurare a ogni cittadino un certo grado di protezione da eventi da cui tutti possono trovarsi colpiti in qualsiasi momento. Si stratta di istituzioni di cui la popolazione europea da anni ha goduto e con cui sono stati assicurati diversi sistemi di pensioni pubbliche, un sistema sanitario nazionale accessibile a tutti e di qualità, diversi tipi di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, invalidità o povertà e un vasto sistema di diritto al lavoro e di diritti del lavoro.

Al di là delle forze politiche europee che lo hanno promosso, a partire dai liberali Churchill e Beveridge, per proseguire con i partiti socialdemocratici, le varie formazioni sociali e i partiti che si rifacevano alla dottrina comunista e a prescindere dall’intento propagandistico o di accrescimento del consenso popolare, bisogna ammettere che non esiste in nessun’altra parte del mondo qualcosa di assimilabile al modello sociale europeo, un modello considerato il più avanzato ed esteso del mondo. Gallino ne elogia i risultati ricordando come, a differenza degli Stati Uniti, in cui non è presente un welfare

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di tale entità, esso abbia costituito fino a qualche anno fa una robusta barriera che è riuscita a contenere i costi umani e sociali della crisi economica apertasi nel 2007. E tutto ciò nonostante, si deve pur ammettere, esso presenta al suo interno dal punto di vista strutturale e delle prestazioni delle differenze non indifferenti, come per esempio se si pensa ai servizi alla famiglia molto sviluppati nei Paesi scandinavi ma carenti in altri Paesi tra cui l’Italia. Differenze che tuttavia hanno permesso alle diverse forme di stato sociale di proteggere famiglie e persone da varie avversità quali la povertà, la malattia, la disoccupazione e la vecchiaia poiché nonostante tutto, il modello ideale che ne è alla base è abbastanza unitario.

Ma allora cosa sta accadendo nell’Unione europea?

Esattamente questo spiega Gallino: dopo aver costruito questo gigantesco edificio civile sin dal dopoguerra, ora sembra che quasi tutti i governi dei maggiori Paesi europei «abbiano iniziato un attacco che, se non è ancora di vero e proprio smantellamento del modello

sociale europeo, comincia pericolosamente ad assomigliargli».66

In generale dagli anni Ottanta, diversi governi europei hanno adottato riforme per contrastare i presunti difetti dello stato sociale di cui ho parlato sopra: i tagli su pensioni, sanità e alloggi per famiglie a basso reddito effettuati dal governo Thatcher nel 1985; il rapporto Virville del 2004 richiesto dal ministro del lavoro Fillon che ha favorito la diffusione del lavoro precario; in Italia, le riforme Dini 1995 e Fornero 2012 che hanno rispettivamente ridotto l’ammontare delle pensioni fondando il calcolo non più sulle ultime retribuzioni ma sui contribuiti

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versati ( e dunque a discapito di coloro che hanno ottenuto un riscatto sulla scala sociale e hanno fatto carriera nel tempo) e portato l’età pensionabile da 62 a 67 anni e sempre qui le riforme del mercato del lavoro Treu-Sacconi-Fornero-Renzi che hanno “devastato” i rapporti fra imprese e dipendenti, sottoponendo i secondi alla mercé dei primi. Tuttavia non si è trattato di riforme sistematiche come quelle messe in campo oggi dall’Unione europea e che rientrerebbero in quel progetto politico di cui parla Gallino, ma di riforme singolari e legate a particolari esigenze dei paesi interessati. Quelle a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e a cui stiamo continuando ad assistere invece fanno parte di un piano di riforme economiche e sociali dalla cui completezza e sistematicità emergerebbe che in gioco, oltre alla demolizione dello stato sociale, vi è l’obiettivo, secondo il nostro

autore, di ristrutturare l’intera società sul modello

dell’ordoliberalismo, piano principalmente voluto dalla Germania e che si pone come antitetico al neoliberalismo anglosassone che predilige il minor intervento statale nell’economia, lasciando ampio spazio alle forze di mercato.

Al contrario, spiega Gallino « l’ordoliberalismo richiede che sia proprio lo Stato a predisporre un’organizzazione istituzionale della società favorevole in ogni sua parte allo sviluppo di un ordine economico fondato sulla concorrenza, sul meccanismo dei prezzi, sulla libera iniziativa di ciascun membro della società.»

Si tratta di una dottrina che ha avuto presa persino, tra gli altri, sul partito socialdemocratico in Germania che per antonomasia avrebbe dovuto essere un suo oppositore, ma dal quale è stato utilizzato soprattutto da Schroder, nel 2003, per dar vita a un piano di riforme

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incentrato sui tagli allo stato sociale per risanare il bilancio, ridurre la spesa pubblica e destinare più risorse alla crescita che si è tradotto

nelle Leggi Hartz67, che hanno apportato grandi danni allo stato sociale

del paese creando: un sistema di contratti di lavoro di breve durata, sottopagati e a tempo parziale; una redistribuzione del reddito e della ricchezza dal basso verso l’alto attraverso la riduzione delle imposte agli strati superiori di reddito e la compressione dei redditi di lavoro attraverso la diffusione del precariato, del taglio alle pensioni e ai sostegni del reddito; una politica che ha abbandonato volutamente l’idea di occupazione come priorità e ha abbracciato sempre di più l’ideologia economica neoliberale secondo cui un certo tasso di disoccupazione, oltre a non essere dannosa, è considerata un presupposto per un’economia in crescita senza rischio di aumentare l’inflazione; un sistema di pressioni basato sul taglio dell’ammontare e della durata dell’indennità di disoccupazione e addirittura sulla minaccia di estinguere qualsiasi supporto in caso di rifiuto di un qualsiasi posto di lavoro offerto, che costringe di fatto ogni disoccupato ad accettare qualsiasi lavoro anche in condizioni poco dignitose e del tutto peggiori rispetto ai suoi lavori precedenti; un sistema di controlli fiscali più invadenti e che prendono in considerazione le condizioni economiche e lavorative anche dei familiari dei disoccupati, concedendo prestazioni pubbliche solo dopo aver verificato che sussistano determinate condizioni parecchio restrittive. Chiusa la parentesi tedesca, il perché di questo attacco è da rintracciare nell’elevato debito pubblico dovuto a decenni di deficit mal affrontati e nella conseguente crisi di bilanci statali.

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Ora, lo stato sociale costa. Complessivamente nell’Unione europea, i costi sarebbero di circa 3000 miliardi i quali comunque, spiega Gallino, provengono principalmente dai contributi versati dai lavoratori dipendenti e autonomi e dalle aziende, in misura minore dalla fiscalità in generale. È ovvio che, alla base dell’assalto allo stato sociale, vi è la convinzione, figlia della dottrina neoliberale, secondo cui, il privatizzare una parte considerevole di spesa sociale apporterebbe un grande beneficio a banche e assicurazioni, fondi pensione e fondi di investimento, cliniche private e case farmaceutiche.

Come già più volte detto, il debito è stato ricondotto all’eccessivo ammontare della spesa sociale. Le critiche sentite e risentite sono quelle, sottolinea Gallino, che già i neoliberali negli anni Settanta, avevano mosso al modello sociale europeo secondo cui lo stato sociale arrecherebbe gravi danni sia allo sviluppo economico sia a una società libera e in particolare: le spese per la sanità continuano a salire perché i progressi in medicina richiedono infrastrutture e tecnologie sempre più costose; lo Stato destina troppe risorse alla protezione sociale facendo venir meno il senso di responsabilità degli individui; i sostegni al reddito dei disoccupati ( cassa integrazione e sussidi di disoccupazione) incentivano le persone all’ozio; gli enti pensionistici risentono del fatto di dover erogare pensioni per un periodo che è diventato sempre più lungo, date le migliori condizioni di vita e quindi le pensioni pubbliche sono percepite a carico di quelli che lavorano anziché la previsione di destinare quote private ai fondi pensioni privati. Dunque appare necessario e indiscutibile tagliare le

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prestazioni, sia riducendo il numero dei soggetti che ne possono beneficiare, sia il livello e la durata di esse.

Ed è qui che il nostro autore si abbandona a degli interrogativi alquanto provocatori e pungenti:

«Come mai, vien fatto di chiedersi, le cosiddette riforme volte a ridurre il peso e svuotare la natura stessa del modello sociale arrivano oltre trent’anni dopo la loro formulazione dottrinale? Forse che la crisi di questi ultimi anni ha di colpo aggravato tutti i limiti economici e sociali di cui per decenni è stato accusato il modello sociale europeo? Oppure i politici hanno impiegato più di trent’anni per imparare la

lezione degli accademici neoliberali?»68

Che il modello sociale europeo sia diventato improvvisamente un peso insostenibile per i bilanci pubblici è facilmente smentibile. Le cifre parlano sì di un aumento del deficit dei bilanci pubblici Ue dallo 0.7 al 7 per cento e di un aumento del debito pubblico di circa 20 punti dal 60 all’80 per cento negli anni 2007-2010. Tuttavia, ad un’analisi approfondita, emerge che per esempio, se si prendono in considerazione due Paesi europei come Italia e Francia, in essi i sistemi sanitari costano ognuno circa l’8-9 % del Pil e nonostante ciò offrono una copertura e prestazioni assicurate a tutti e dunque un servizio, con la metà dei costi rispetto a quello americano e senza dubbio superiore a quest’ultimo. E inoltre, se si guarda ai 4,13 trilioni di euro utilizzati per salvare gli istituti finanziari, si comprende bene, dice Gallino, come questo incremento non sia stato dovuto di certo alla spesa sociale che anzi, dagli anni Novanta è rimasta pressoché

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immutata, aggirandosi intorno al 25 % del Pil. Quindi, stando a tali cifre, se dobbiamo essere più realistici, gli Stati non si sono trovati costretti a far tagli allo stato sociale a causa del loro peso sui bilanci pubblici ritenuto ormai insostenibile, piuttosto essi, stremati dal sostegno al sistema finanziario si sono visti costretti a ridurre la spesa sociale in quanto essa rappresentava la spesa della voce più importante del loro bilancio. Ma c’è di più perché secondo Gallino, al di là di questa lettura realistica, ma a suo giudizio non abbastanza

“storicizzata”, questo attacco non sarebbe configurabile

semplicemente come una decisione improvvisa dei governi, spinti dalla crisi, ma piuttosto come « il compimento di un progetto politico ed economico a un tempo: riportare nello spazio del mercato tutto

quanto era stato sottratto a esso dallo sviluppo dello stato sociale»69 in

cui l’austerità sarebbe non il fine, ma lo strumento attraverso cui legittimare il perseguimento di questo progetto.

È interessante prendere in considerazione altresì le modalità con cui le politiche di austerità vogliono raggiungere tale obiettivo. Da un lato, spiega Gallino, si sta ricorrendo alla rimercificazione dei principali elementi della protezione sociale e cioè la sanità, i sostegni al reddito in caso di incidente o disoccupazione, invalidità o povertà e, dall’altro lato, si è provveduto a trasformare la crisi che è nata principalmente dalla redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto in una ulteriore distribuzione dei costi della crisi dall’alto verso il basso. Tuttavia, sottolinea Gallino, nonostante le critiche neoliberali siano presenti da decenni, il tentativo di ritornare alla mercificazione della sicurezza ovvero della protezione sociale, ormai superato dagli anni Cinquanta,

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è riemerso in questi ultimi anni e ciò, se messo in atto, avrà delle conseguenze spiacevoli per ciascun individuo, soprattutto se si pensa che “rimercificare” la protezione sociale significa che questa come ogni merce avrà un prezzo che sarà determinato dalla quantità richiesta, dalla sua qualità e dalla sua abbondanza o scarsità nel mercato per cui coloro che non hanno i mezzi per acquistarlo nella quantità e qualità desiderata non sono in condizioni di procurarsi quella merce, a prescindere dall’urgenza o dalla più alta necessità. Oltre ad avere delle conseguenze sul piano sociale, la mercificazione della protezione sociale ha anche delle conseguenze sul piano politico poiché mercificare attraverso la privatizzazione i beni pubblici essenziali quali la previdenza, la sanità, il sostegno al reddito oltre a svuotare il modello sociale europeo comporta uno svuotamento del processo democratico europeo dal momento che in democrazia i cittadini dovrebbero partecipare attivamente alle decisioni che riguardano i beni pubblici e ciò non è avvenuto. Attraverso tali politiche, i governi europei rischiano non solo di peggiorare le condizioni di vita dei loro cittadini nel medio-lungo periodo ma anche di mettere in discussione l’integrazione interna delle società europee ma anche quella esterna di esse nel complesso dell’Unione generando una frustrazione generale derivante dalla minaccia di disoccupazione e precariato, dai tagli alle pensioni e alla sanità e ai sostegni al reddito che potrebbe evolversi negativamente in tensioni sociali e risentimenti non solo da parte delle classi sociali a reddito più basso, ma anche da parte delle classi medie. Nonostante ciò, riflette Gallino, se finora le proteste contro i tagli sociali sono state flebili, la spiegazione va rintracciata nel fatto che i governi che adottano tali politiche di

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svuotamento del modello sociale europeo sono legittimati a farlo poiché sostenuti dai partiti che hanno la maggioranza nei Parlamenti. Inoltre, anche la manipolazione dell’opinione pubblica gioca un ruolo importante poiché, non soltanto i media europei quanto quelli americani mentono in merito alle origini della crisi del deficit, ma hanno inoltre sapientemente saputo inculcare l’idea per cui per una generazione si sarebbe vissuti al di sopra dei propri mezzi generando nella popolazione un diffuso senso di colpa e dunque una tacita rassegnazione che non si può far altro che obbedire a tali politiche. Si tratta, afferma ancora una volta Gallino, di una strategia che mira a far salire il panico negli elettori in modo tale da portarli ad opporsi alla spesa pubblica destinata ai programmi sociali, nonostante questi ultimi siano stati elaborati appositamente a loro favore e per essere loro d’aiuto.

Ma, se può essere accettata la conclusione secondo cui le forti disuguaglianze di reddito sono state una delle cause principali della crisi economica, lo svuotamento dello stato sociale può essere visto come una distribuzione dei costi della crisi, a danno di coloro che ne hanno già sopportato in misura maggiore i costi anche attraverso la contrazione di eccessivi debiti privati per far fronte alla moderazione salariale a cui dovevano sottostare da almeno quindici anni. Secondo il nostro autore altra strada non rimane se non quella di chiedere che i costi sociali derivanti da suddette politiche che minano lo stato sociale, siano responsabilmente assunti dalla società nel suo insieme o meglio dallo Stato anziché essere addossata al singolo individuo. Solo questa idea, nonostante le differenze storiche, culturali, linguistiche e geografiche potrebbe far crescere, secondo Gallino, la voglia di far

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parte di un progetto di progresso sociale senza paragoni che sostiene con forza la nozione di democrazia come un sistema politico in cui i singoli individui possano partecipare di diritto e di fatto alla formulazione di decisioni che interessano la produzione e la distribuzione dei beni pubblici incorporati dal modello sociale europeo.

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