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Luciano Gallino: un intellettuale riformista alla ricerca della verità sulla crisi economica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Studi Internazionali

TESI DI LAUREA

Luciano Gallino: un intellettuale riformista alla ricerca

della verità sulla crisi economica.

Relatore: Candidata:

Prof. Luca Michelini Elisabetta Di Salvo

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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LUCIANO GALLINO: UN INTELLETTUALE RIFORMISTA ALLA RICERCA DELLA VERITÀ SULLA CRISI

ECONOMICA.

INDICE

Sommario

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO 1: VITA E OPERE DI UN GRANDE SOCIOLOGO. ... 7

1.1: La vita del sociologo di Ivrea. ... 7

1.2: Luciano Gallino: un intellettuale riformista. ... 10

CAPITOLO 2: LUCIANO GALLINO E LA CRISI ECONOMICA. ... 19

2.1: Le Cause della “Grande Crisi”. ... 19

2.2: Il predominio incontrastato della finanza. ... 28

2.3: La deregolamentazione della finanza: alla base della crisi. ... 36

2.4: La finanziarizzazione del mondo e il problema del capitalismo dei mercati finanziari. ... 40

2.5: Il denaro come emblema della crisi. ... 47

2.6: La crisi come risposta al declino del regime di accumulazione produttivista e l’aumento delle disuguaglianze. ... 59

2.7 I Trattati Ue nella crisi economica. ... 67

2.8 Verso una crisi strutturale del sistema capitalistico? ... 71

CAPITOLO 3: LA CRISI PROSPETTATA AL MONDO DA MEDIA E POLITICI. ... 74

3.1: La favola della crisi raccontata dai politici. ... 74

3.2: La trasformazione della crisi finanziaria in crisi dei debiti sovrani. ... 78

3.2.1: Crisi bancaria e scelte legislative sbagliate: il caso tedesco. ... 82

3.2.2: L’ evidente interconnessione tra politica e banche durante la crisi. ... 84

3.3 Il ruolo dello Stato nella gestione della crisi. ... 86

3.4: Le reazioni dei politici di fronte al grave disastro economico e finanziario. .. 88

3.5: Quelle politiche di austerità giustificate da un evidente “stato di eccezione”. 96 3.6: Neoliberalismo: che ruolo ha giocato e gioca nella crisi. ... 98

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CAPITOLO 4: LE CONSEGUENZE FINANZIARIE E SOCIALI DELLA CRISI E

I POSSIBILI RIMEDI. ... 105

4.1: L’interconessione tra costi finanziari e costi umani della crisi. ... 105

4.2: Un ulteriore aumento delle diseguaglianze come effetto della crisi e delle politiche “anticrisi”. ... 109

4.3: Erosione del processo democratico e soppressione del pensiero critico. ... 110

4.4 Lo smantellamento dello stato sociale come risposta alla crisi. ... 117

CAPITOLO 5: USCIRE DALLA CRISI, SI PUÒ? ... 128

5.1: Bisogna attuare delle politiche anticrisi. ... 128

5.2: Ridurre le componenti industriali della crisi attraverso una riforma del sistema dei fondi pensione. ... 132

5.3: L’architettura finanziaria necessita di essere riformata. ... 139

5.4: Il buon funzionamento dell’economia dipende dall’originario ruolo cui deve essere riportata la finanza. ... 144

5.5: Non solo riforme squisitamente strutturali. ... 159

5.6: Riforme nel mondo del lavoro. ... 168

5.7: Urge un “nuovo soggetto” che stravolga questo stato di cose. ... 177

5.8: I possibili epiloghi previsti da Gallino. ... 181

CAPITOLO 6: L’INTENSA COLLABORAZIONE GIORNALISTICA DI LUCIANO GALLINO CON LA REPUBBLICA ... 184

6.1: Problematiche di portata nazionale e globale. ... 184

6.2: Le critiche del sociologo all’operato italiano e dell’Unione e alle dichiarazioni politiche e istituzionali negli anni 2007-2011. ... 188

6.3: 2012-2015: gli anni roventi della crisi e l’incompetenza totale nel contrastarla. ... 204

6.4 Gallino: euroscettico o no? ... 215

CONCLUSIONI ... 220

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INTRODUZIONE

Dall’estate del 2007 il mondo è entrato in una recessione molto profonda. La crisi che ha travolto l’economia mondiale negli ultimi anni, è stata la più grave dopo quella del 1929. Come si è arrivati a questa situazione? Cosa è successo? Chi e come è intervenuto per rimediare a tutto ciò?

Indubbiamente ci troviamo dinanzi a una tematica che è stata oggetto di interesse e di trattazione da parte di numerosi studiosi, economisti, sociologi, politici e attorno al quale il dibattito è stato molto fervido. Particolarmente significativo e interessante è stato lo studio in merito alla crisi di uno dei maestri della sociologia italiana, Luciano Gallino. Lo scopo di questo lavoro è dunque quello di mettere in luce, attraverso i suoi saggi e i suoi numerosissimi interventi giornalistici, il pensiero di questo autore riguardo alla crisi economica e finanziaria che ha destabilizzato il mondo intero.

Prima di entrare nel vivo delle sue riflessioni e della sua analisi, ho ritenuto opportuno dedicare il primo capitolo dell’elaborato al profilo biografico e bibliografico di questo grande sociologo. Gallino è stato indubbiamente un intellettuale di primo piano che ha dedicato una particolare attenzione a molti aspetti e implicazioni della crisi economica. Soprattutto negli ultimi anni della sua vita, egli si è mostrato essere in contrapposizione col sistema politico e finanziario dominante e ciò è particolarmente evidente nei saggi scritti nel pieno della crisi, che si sono rivelati di fondamentale importanza per la stesura di questa tesi.

Nel secondo capitolo verrà analizzata l’origine nonché le principali cause scatenanti la grave crisi economica. L’origine della crisi, iniziata

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negli Stati Uniti nell’estate del 2007 e poi diffusasi in Europa e rapidamente nel mondo intero, è stata di natura finanziaria. Essa ha avuto origine nel cosiddetto mercato dei mutui subprime, una piccola parte del mercato immobiliare statunitense che eroga prestiti a persone poco solubili, gente a cui normalmente non sarebbe mai stato accordato un mutuo per comprare casa. Tuttavia, sebbene inizialmente di natura principalmente finanziaria, essa si è trasformata ben presto in una grave crisi economica, dalla quale non si può certamente affermare di esserne completamente fuori. Si parlerà di sviluppo patologico del sistema finanziario che, da coadiuvante dell’economia reale, è arrivato a sovrastarla, mettendo a rischio il buon funzionamento di quest’ultima in quanto il valore del primo è arrivato a superare quello dell’economia reale, incentivando quindi la speculazione e non la produzione.

In questo capitolo, dunque, verranno messi in luce lo sviluppo sproporzionato dell’economia finanziaria rispetto all’economia produttiva e il potere smisurato delle banche di creare denaro sostanzialmente dal nulla, attraverso il meccanismo della cartolarizzazione dei crediti, di cui le banche si servivano da anni ma esasperato dal processo di deregolamentazione finanziaria che prese avvio negli anni ’80.

D’altro canto Gallino sostiene che la crisi possa essere letta come una conseguenza della finanziarizzazione del mondo perseguita a partire dagli anni ‘80 in cui, in seguito al rallentamento della produzione di massa incentivata dal sistema fordista, le imprese hanno reagito investendo nei mercati finanziari.

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Nel terzo capitolo verrà messo in evidenza come, sin dai primi mesi del 2010, la crisi bancaria sia stata prospettata da governi, dagli analisti, dalle organizzazioni internazionali e dai media come crisi del debito pubblico, causato da un’eccesiva generosità dello stato sociale nei confronti dei propri cittadini. Il tutto con lo scopo di legittimare quelle misure di austerità che, figlie della dottrina neoliberale, hanno inflitto e continuano ad infliggere sofferenze ai cittadini e peggiorato nettamente le loro condizioni di vita.

Nel quarto capitolo l’attenzione è dedicata alle conseguenze principali della crisi e alle misure politiche intraprese dai governanti europei, nell’attuare le quali Gallino ha intravisto una crescente erosione del

processo democratico. Particolare enfasi sarà dato allo

smantellamento di una delle conquiste più importanti del dopoguerra: lo Stato sociale.

Il quinto capitolo prende in esame le modifiche strutturali dell’intera architettura finanziaria e delle riforme politiche ed economiche le quali sarebbero necessarie, agli occhi di Gallino, per uscire da questa grave crisi economica.

Il sesto e ultimo capitolo è incentrato sull’importante collaborazione di Luciano Gallino con il quotidiano nazionale, La Repubblica, dalla quale sono emerse chiaramente delle critiche non solo alle decisioni prese in campo Ue per far fronte alla crisi ma anche alla passività con cui i governi italiani, a partire dal governo Berlusconi e per finire il governo Renzi, hanno accettato di eseguire i must imposti dalla Troika.

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CAPITOLO 1: VITA E OPERE DI UN GRANDE SOCIOLOGO.

1.1: La vita del sociologo di Ivrea.

Negli ultimi tre decenni si è assistito a un forte aumento dell’instabilità finanziaria che ha colpito tutti i maggiori continenti con crisi che hanno avuto degli effetti molto severi sull’economia reale. La più recente, la crisi del 2007, data la sua profondità e l’elevato numero di nazioni coinvolte, ha suscitato un rinnovato interesse sulle cause dell’instabilità finanziaria che hanno portato a un vero e proprio collasso economico di portata globale. Esiste una vasta bibliografia in merito e una quantità sterminata di autori che hanno contribuito con i loro studi e ricerche ad approfondire la tematica. In questa sede ho deciso di occuparmi di Luciano Gallino, un intellettuale di grande spessore il quale, tra i sociologi italiani, è sicuramente quello che riesce a collocarsi meglio sulla lunghezza d’onda degli economisti sia perché utilizza spesso, come punto di partenza, di modelli economici sia perché conosce bene le statistiche di cui fa largo uso. È considerato uno dei maggiori esperti italiani del rapporto tra nuove tecnologie e formazione, nonché delle trasformazioni del mercato del lavoro. Grazie a lui la disciplina sociologica italiana ha compiuto dei passi notevoli. Considerato tra i sociologi italiani più autorevoli, i suoi studi si sono indirizzati sulla sociologia dei processi economici all'interno del mercato del lavoro, di cui era uno degli analisti più attenti.

I suoi principali campi di ricerca sono stati la teoria dell'azione e teoria dell'attore sociale, le implicazioni sociali e culturali della scienza e della tecnologia, gli aspetti socio-culturali delle nuove tecnologie di

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telecomunicazione. Gallino nasce a Torino il 15 maggio 1927. Egli

proveniva da una famiglia operaia. Sin da ragazzo ha coltivato un interesse particolare per la sociologia. L’approccio vero e proprio alla disciplina sociologica nonché il suo lungo percorso di formazione cominciano nel 1956, quando incontra l’imprenditore Adriano Olivetti il quale lo chiama a collaborare presso l’Ufficio Studi di Ivrea costituito presso la Olivetti, struttura di ricerca aziendale inedita in quel periodo in Italia. All’epoca Gallino aveva 29 anni e nessuna formazione universitaria alle spalle.

Come ricorda Luigi La Spina: «Con Ferrarotti, infatti, negli anni del secondo dopoguerra, fu il fondatore e il divulgatore della sociologia in Italia, quando questa disciplina era misconosciuta e disprezzata dallo storicismo crociano e marxista, allora imperante nel nostro paese. Con Bobbio e Salvadori, sui primi numeri della rivista “Mondoperaio”, cercò di rompere l’ortodossia culturale comunista, tenacemente ostile a quelle novità “americane” che rischiavano di complicare il semplicismo rassicurante e conservatore di una analisi sociale ormai superata dalla realtà.»1

Dal 1960 al 1971, egli ricopre la carica di direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull'organizzazione. Dopo il 1969 lascia la carica di direttore continuando tuttavia a collaborare con l'azienda, come consulente, almeno fino al 1979. Aderisce al Partito Socialista, sempre però tenendosi distante dalle tentazioni della

carriera politica.Dopo aver ottenuto una libera docenza in Sociologia

nel 1964, diventa Fellow Research Scientist del Center for Advanced

Study in the Behavioral Sciences di Stanford in California. Dal

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novembre 1965 al 1971 è professore incaricato presso la Facoltà di Magistero e la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino. Successivamente, dal 1971 al 2002, è professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione della stessa Università. Tra il 1968 e il 1978 ricopre la carica di direttore dell'Istituto di Sociologia di Torino, una delle prime strutture di ricerca in questo ambito disciplinare costituite nell'università italiana. Dal 1999 a fine 2002 è Direttore del Dipartimenti Scienze dell'Educazione e della Formazione. È proprio durante questi anni che egli promuove lo sviluppo di un Centro specializzato nello studio e nella realizzazione di corsi orientati alla "Formazione aperta/assistita in

rete".2 È il fondatore nonché presidente, dal 1987 al 1999, del Centro

di Servizi Informatici e Telematici per le Facoltà Umanistiche dell'Università di Torino, che sin dai primi anni novanta ha messo a disposizione Internet a studenti e docenti.

Tuttavia, oltre a un’intensa attività di ricerca e d'insegnamento, Luciano Gallino ricopre diverse e prestigiose cariche istituzionali. Infatti, dal 1979 al 1988, è presidente del Consiglio Italiano delle scienze sociali e, dal 1987 al 1992, riveste la stessa carica nell'Associazione Italiana di Sociologia. Dal 1968 diventa direttore della rivista scientifica Quaderni di Sociologia.

Degna di nota la sua collaborazione con autorevoli quotidiani nazionali tra cui Il Giorno, La Stampa, la Repubblica. Egli ha fatto parte, altresì, del comitato scientifico della manifestazione Biennale Democrazia e dal 2007 è stato responsabile scientifico del Centro on line Storia e Cultura dell'Industria, progetto in cui si impegnò per

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promuovere la conoscenza della storia industriale e del lavoro del Nord Ovest italiano dal 1850 a oggi. Ex consulente di Prodi per il programma di governo, alla vigilia delle politiche 2008, egli ha firmato un appello per votare la Sinistra l’Arcobaleno. Nonostante fosse da sempre in politica, rimane rigorosamente fuori dai partiti. Nel 2012, aderisce ad Alba, Associazione Lavoro Beni Comuni e Ambiente, affermando di nutrire una profonda sfiducia non nei partiti ma nel personale politico. Poi, sempre nella sinistra cosiddetta movimentista e di piazza, promuove il gruppo “Cambiare si può”. Infine, in quanto forte sostenitore delle idee di Alexis Tsipras, avrebbe voluto una lista del leader greco alle Europee 2014. Dal 2011 è presidente onorario nonché presidente del Consiglio dei

Saggi dell'AIS - Associazione Italiana di Sociologi.3

1.2: Luciano Gallino: un intellettuale riformista.

Luciano Gallino è stato un autore da molti criticato ma anche altrettanto apprezzato. Gad Lerner lo ricorda come «uno di quei riformisti tutti di un pezzo, un intellettuale schivo e per sua natura moderato, al quale è toccato in sorte di apparire negli ultimi anni duro e polemico, solo perché ha avuto la coerenza di tenere ferma la sua

visione della funzione sociale dell’impresa»4. Nelle sue opere, nelle

sue interviste e nei suoi interventi giornalistici egli denuncia l’assurdità del Fiscal Compact, la dittatura del FinanzCapitalismo, la scelleratezza delle politiche di smantellamento del diritto del lavoro e del welfare e critica la regressione di un capitalismo alla mercé di

3 http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerArticolo.php?storyId=4fc58a6865a2a

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banchieri e la politica di austerità adottata in risposta alla crisi

economica.

In rassegna italiana di Sociologia, Gallino è definito da Franco Rositi uno studioso eccellente, il quale ha commentato gli sviluppi non poco intricati dell’economia mondiale, facendo ciò «da sociologo, connettendo i fili di una trama sociale complessiva, i cui grandi dati aggregati non devono essere un freddo gioco di numeri e di curve statistiche, ma rappresentarci le condizioni di vita di quell’amplissima parte di umanità che è subalterna (non ha alcun controllo del mercato globale), e ricordarci miseria e avidità delle classi, nonché gli opportunismi e le responsabilità morali dei gruppi che pretendono di governare in questa rischiosa fase del capitalismo»5. In particolare,

egli ha dovuto indagare su quella parte del capitalismo contemporaneo che è più nascosta alla vista comune, la sua “ipercomplessa e turbolenta macchina finanziaria”, per riprendere le parole di Rositi. Si tratta di un intellettuale che è andato sicuramente controcorrente fino all’ultimo dei suoi giorni. Le sue affermazioni non si basavano su astrazioni personali bensì su dati oggettivi, calcoli matematici, riferimenti internazionali. Per questo esse possono essere considerate difficilmente contestabili.

Luciano Gallino si è sempre opposto ai dogmi del liberismo, addossandogli buona parte della colpa per la crisi finanziaria del 2008. Non è facile mettere ordine sull’immenso corpus di saggi pubblicati da Luciano Gallino. Ciò che è certo è che, negli anni ottanta, egli è tra i primi ad affrontare l’inarrestabile arrivo della tecnologizzazione sui

5 F. Rositi, ”La lunga strada di Luciano Gallino”, in Rassegna italiana di Sociologia, n. Fascicolo 1,

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processi industriali nel mondo del lavoro e suoi effetti sociali, soprattutto in Italia. Sin dai primi anni duemila inizia ad occuparsi della così tanto famigerata “flessibilità” fino a quando nel 2006, pubblicando Italia in frantumi, inizia a metterci in guardia sulle conseguenze delle liberalizzazioni di mercato e di interi settori di servizi pubblici e ci sbatte in faccia la dura ma cruda realtà: flessibilità, modernizzazione dell’industria e della scuola, riforma di tasse e pensioni, globalizzazione, non sono altro che sinonimi di “precarietà”.

È doveroso sottolineare come egli abbia cominciato il suo lungo percorso sullo studio della crisi e sugli intrecci fra economia reale e mercati finanziari a partire dalla raccolta dei suoi articoli apparsi su La Repubblica fra il 2000 e il 2015 e in Italia in frantumi, pubblicato per Laterza nel 2006. In questo saggio si intravede già come Gallino sia consapevole del fatto che le stesse tensioni economiche siano generate dalla politica. O meglio, inizia a comprendere come molti fenomeni di cattiva globalizzazione e di indebolimento del welfare non sono stati automatici, ma sono il frutto di scelte compiute dalle classi dirigenti mondiali, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso per rispondere alle crisi di stagnazione dei mercati interni al mondo capitalistico. Questo punto di vista diventa ancora più esplicito in Se tre milioni vi sembran

pochi, pubblicato per Einaudi nel 1998 e che già contiene la denuncia

di quella «politica economica corretta», PEC, che affida al mercato sviluppo e occupazione mostrandosi eccessivamente e, a torto, ottimista. Tuttavia, è nel corso dei primi anni del secolo che Gallino si concentra sulle responsabilità della classe dirigente occidentale che definisce interconnessa. Essa è composta da grandi manager, grandi

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dirigenti di banche e di fondi di investimento, circoli intellettuali ben organizzati e da una ristretta élite politica, in un intreccio fra politica e economia che, ancora nel 2000, per esempio in Globalizzazione e

diseguaglianze (Laterza 2000), egli non vedeva con la stessa chiarezza

e con la stessa gravità. Nella sua analisi sono comunque assolutamente diffuse in questa prima fase, la denuncia dell’ideologia neoliberista e, per quanto riguarda l’Italia, la costatazione del declino della grande industria. Queste le tematiche principali infatti presenti ne Il costo

umano della flessibilità (Laterza 2001) e ne La scomparsa dell’Italia industriale (Einaudi 2003). In particolar modo, in quest’ultimo libro il

nostro autore constata con amarezza la perdita, dagli anni ’60 ad oggi, di quella capacità produttiva dell’Italia in quei settori in cui ricopriva una posizione di prestigio: informatica, chimica, aeronautica, elettronica di consumo, industria automobilistica. Tra i motivi individuati del declino, al fine della nostra analisi, spicca la convinzione, già da allora sempre più diffusa, che l’industria non sia più così redditizia e richiede numerosi sforzi ma, soprattutto, che essa faccia guadagnare meno della finanza. E sarà proprio la finanza a causare quello sconquasso economico mondiale su cui si concentrerà il Prof. di Torino, il quale sembrava già presagirlo.

Scriverà per Laterza nel 2007 Il lavoro non è una merce. Contro la

flessibilità, opera in cui concentra la sua attenzione sulle nuove

marginalizzazioni del lavoro e dei lavoratori e sul netto peggioramento delle loro condizioni nella nuova economia. In questa fase, Gallino riflette su come i sistemi capitalistici stiano regredendo a uno stadio in cui l’iniziativa della lotta di classe è presa non dal proletariato di Marx, che è frantumato e al contrario costretto alla difensiva, ma dalla stessa

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classe dirigente, costituita dall’intreccio tra politica ed economia e

fortemente corrotta. Gallino riprende in mano parecchi filoni

sociologici legati al marxismo e alle opere in campo economico di Marx ridando vigore a tesi tra cui quelle secondo cui il concetto di “classe sociale” esiste ancora come del resto il concetto di “lotta di classe”, che Gallino descrive quasi al contrario rispetto alla direzione tradizionale nell’esposizione marxiana, come è ben dimostrabile dall’affermazione contenuta ne La lotta di classe dopo la lotta di

classe (Laterza 2012): « Oggi le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per

recuperare il terreno perduto»6. Ma soprattutto le dottrine neoliberiste

thatcheriane e reaganiane in Europa annientarono non solo la pace sociale e lo sviluppo economico delle classi medie e basse ma anche e soprattutto i diritti dei lavoratori conquistati dagli anni ’50 fino agli anni ‘80.

Il vero problema è l’ostinata adesione al principio liberistico nonostante ci si trovi in una situazione di bassa crescita. Proprio ciò ha portato all’attuazione di politiche di decremento salariale, di crescente disoccupazione e di ingigantimento di quel che Marx chiamava “l’esercito industriale di riserva”, di crescita del debito per gli Stati e le stesse banche, ma anche per le famiglie e le masse di consumatori. Ma non solo, poiché in questi anni difficili dal punto di vista economico, sono state altresì ampiamente sottovalutate le bolle speculative ed è aumentato lo sfruttamento di bassissimi salari dei paesi emergenti per delocalizzazioni industriali. È proprio adesso che

6 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di Paola Borgna, Laterza,

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Gallino si rende conto dell’enorme peso del mondo finanziario nella nuova economia e lo espone ne L’impresa irresponsabile pubblicato nel 2005 per Einaudi, che si presenta in antitesi a L’impresa

responsabile (Edizioni di Comunità 2001), con cui egli aveva

ripercorso la sua esperienza olivettiana e ricostruito lo stile, i pensieri, le pratiche di Adriano Olivetti. Egli, partendo proprio dalla sua esperienza, ha maturato la convinzione che sviluppo economico in un regime capitalista non equivale alla mera ricerca di profitti completamente estranea a qualsiasi logica morale. In particolare ne

L’impresa irresponsabile Gallino sottolinea come il concentrarsi

esclusivamente sulla creazione del plusvalore per gli azionisti, non dando la giusta considerazione all’importanza della produzione di beni fosse controproducente per un’impresa; ma non solo poiché egli sostiene con fermezza soprattutto come l’impresa dovesse avere, e avesse in qualche modo perduto, l’obbligo etico di rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, o all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività.

Gallino documenta ampiamente, con dati statistici, il diffondersi a livello mondiale dell’impresa irresponsabile. In particolare egli sottolinea, come farà anche nei suoi saggi successivi, come quest’ultima sia governata da manager e da proprietari che non solo sono ossessionati dalla performance dei listini azionari ma investono nella produzione il meno possibile, non si preoccupano di intraprendere buone relazioni industriali, concedono a se stessi ricompense astronomiche, adottano qualsiasi mezzo per mantenere

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bassi i salari e, poiché i mercati interni hanno rallentato, sempre di più si rivolgono ai giochi di borsa.

Il 2007 è un anno a partire dal quale Gallino si addentra nella tematica della crisi economica con la pubblicazione di diversi libri: Con i soldi

degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia (Einaudi

2009); Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Einaudi 2015); nel 2012 viene pubblicato per Laterza La lotta di classe dopo

la lotta di classe, intervista a cura di Paola Borgna; infine Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa,

(Einaudi 2013). Un barlume di speranza di fronte all’invasione del

pensiero neoliberista in Europa, prima di morire a 88 anni nella sua casa nel capoluogo piemontese dopo una lunga malattia, lo aveva affidato alle pagine del suo Il denaro, il debito e la doppia crisi, pubblicato per Einaudi nel 2015, rivolgendosi proprio alle generazioni che verranno con un modesto ma allo stesso tempo rammaricato appello:

«Quel che vorrei provare a raccontarvi nelle pagine che seguono, cari nipoti, è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma anche la vostra. Con la differenza che voi dovreste avere il tempo e le energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro paese, insieme con altri paesi di quella che

doveva essere l’Unione europea».7

In ogni caso Gallino ha trattato in questi libri, sempre con estrema precisione, argomenti diversi ma intrecciati tra loro: gli effetti della

77 L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, Torino 2015, p.

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globalizzazione, la precarizzazione del lavoro, la finanza che schiaccia l'economia “reale”. Borse e banche, nuove tecniche per la ripartizione del rischio e l’invenzione di derivati e cartolarizzazioni; la creazione di denaro dal nulla mediante la compravendita dei crediti; la crescita di una finanza-ombra; il rafforzarsi di un mercato azionario over the

counter; i trucchi per mantenere entro i limiti legali il leverage

bancario; la convergenza dei vari tipi di grandi investitori istituzionali (fondi pensione, fondi comuni, compagnie di assicurazione, banche di investimento) verso le stesse pratiche speculative, alla ricerca comune di rendimenti massimi e immediati; un’economia fondata al di là di ogni ragionevolezza sul debito e sulle conseguenti bolle finanziarie. Sono tutti temi che Luciano Gallino non solo ha analizzato, ma che in qualche modo ha intuito in anticipo, da intellettuale qual è stato, impegnato nel decifrare pratiche e trasformazioni sociali alla ricerca del loro senso nascosto e delle loro contraddizioni. Attraverso lo strumento del saggio breve, Gallino ha puntato il dito contro diseguaglianze e precarietà, deterioramento ambientale e involuzione tecnocratica della politica. Per lui tutti questi fenomeni sono riconducibili a un fattore: la finanziarizzazione del capitalismo, lo strapotere impersonale dei fondi d’investimento e delle istituzioni finanziarie internazionali e l’assoggettamento dei governi ai loro interessi. Nei suoi ultimi scritti il professore sembrava aver rivalutato le spiegazioni “strutturali” tipiche della scuola marxista secondo cui a muovere la società e la politica è, alla fin dei conti, il modo di produzione. Un grande maestro, così il collega Giandomenico Amendola lo elogia, ricordando come egli abbia «insegnato ad almeno tre generazioni di studiosi come sia indispensabile coniugare ricerca scientifica ed impegno civile senza che, come è spesso avvenuto nel

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nostro paese, scelte politiche o pulsioni ideologiche inquinino analisi e proposte. Rigore metodologico ed etica scientifica sono state le stelle polari che ha sempre voluto mostrare sia agli studenti che a noi più

giovani colleghi.»8

8 G. Amendola, In ricordo di Luciano Gallino, in “Rivista italiana di sociologia”, n. 12, pp. 347-348,

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CAPITOLO 2: LUCIANO GALLINO E LA CRISI

ECONOMICA.

2.1: Le Cause della “Grande Crisi”.

Stiamo ancora vivendo la più grande crisi economico-finanziaria dagli anni ‘30 del secolo scorso, la Grande Depressione, come venne chiamata allora. La crisi, inizialmente solo finanziaria, si è trasformata in una grave crisi economica il cui esito, nonostante un certo ottimismo recente, è ancora incerto. Essa è stata completamente imprevista dagli economisti nelle sue dimensioni globali, nonostante

le spie fossero state numerose.Al di là del “depistaggio” effettuato dai

politici e dai media, che hanno presentato quest’ultima come conseguenza di un eccesso di spesa sociale, essa è nata dal fatto che le banche dell’Ue erano gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riusciva a stabilire l'esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò è avvenuto perché al pari delle banche degli Stati Uniti esse hanno creato, con l'aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore. Interessante lo studio di Luciano Gallino, uno dei sociologi italiani più autorevoli, nonchè un maestro dell’economia e del pensiero critico italiano che con maestria e un puntuale rigore scientifico ha indagato sull’attuale crisi economica, cercando di eviscerare i nodi cruciali e i punti critici di quelle che sono state le cause scatenanti. La crisi, che tuttora stiamo vivendo sulle nostre spalle, ha origine dalla bolla

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speculativa la quale, nel 2007, aveva portato i capitali finanziari a superare di 4 volte il PIL mondiale. Già, nell’agosto di quell’anno, si registrava un aumento drastico della differenza tra i tassi d’interesse sui prestiti interbancari, cioè il tasso d’interesse a cui le banche si prestano denaro fra loro, e sui buoni del Tesoro, cioè il tasso d’interesse che il governo paga sui prestiti che contrae. Ciò rivelava quanto le banche non iniziassero a fidarsi più, già da allora, l’una dell’altra. Lo scoppio della bolla e la stretta creditizia hanno avuto conseguenze inevitabili che però non si sono fatte sentire subito. Tuttavia man mano passavano i mesi, l’economia ha iniziato a subire un rallentamento e, con esso, sono aumentati i pignoramenti degli immobili ipotecati. A costituire una combinazione tossica concorrevano un mercato deregolamentato in cui vi era un eccesso di liquidità e venivano praticati bassi tassi di interesse, una bolla immobiliare globale e l’aumento sconsiderato della concessione di mutui subprime. Un altro elemento da non sottovalutare è poi il fatto che, al momento della forte crescita dei mutui, tuttavia, tassi di interesse minimi e stabilmente bassi da alcuni anni, lasciavano pensare che fossero convenienti mutui a tasso variabile. I contratti stessi non

prevedevano espressamente un interesse massimo applicabile. I tassi,

dunque, quando sono variabili, vengono ricalcolati ad ogni rata secondo una formula prestabilita in base a degli indicatori economici prefissati e, di conseguenza, vengono ricalcolati anche gli interessi e, quindi, l'ammontare della rata stessa. I tassi d’interesse contenuti ma variabili e una regolamentazione troppo permissiva hanno alimentato la bolla immobiliare poiché con l’aumento dei prezzi immobiliari, i proprietari potevano utilizzare le loro case a garanzia dei prestiti. Tuttavia l’indebitamento della stragrande maggioranza delle famiglie

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si basava sul presupposto, alquanto rischioso, che i prezzi delle case avrebbero continuato a crescere, o per lo meno sarebbero rimasti pressoché stabili. Ma le cose non andarono così e quando la bolla è scoppiata, i primi a risentirne sono stati i mutui peggiori, i cosiddetti mutui subprime, concessi ai soggetti a basso reddito anche se presto le conseguenze si sono fatte sentire in tutto il mercato immobiliare. Chi contrae un mutuo legato alla casa ha bisogno di poter contare su rate di mutuo prevedibili, che non salgano alle stelle improvvisamente né tantomeno che presentino costi occulti. Ma ciò non avvenne.

Le principali responsabili sono state e sono tuttora le banche che, attraverso i più svariati strumenti finanziari, hanno creato valore, un valore che tuttavia non corrisponde a un bene reale. Il problema che ha colpito la società e ha sviato gli obiettivi tradizionali della politica è stato l’avvicinamento sempre più stretto tra economia e politica. L’economia domina sulla politica la quale invece che continuare ad adattare l’economia alla società, adatta la società all’economia. Quello che possiamo definire il primo segno di debolezza della politica nei confronti dell’economia è proprio il mercato libero ovvero la libera circolazione di merci, persone e soprattutto capitali cominciato in Francia negli anni ’80 e poi in moltissimi altri paesi. Si è arrivati a un simile disastro poiché il periodo di sviluppo inarrestabile mondiale, di cui i motori principali erano l’economia americana e le relazioni fra le grandi aree della globalizzazione, aveva raggiunto il suo culmine e inoltre questi ultimi presentavano dei problemi di fondo e delle contraddizioni che prima o poi dovevano emergere. Negli ultimi venti anni era stata la finanza il deterrente più potente. Le cause della crisi però sono molteplici, non facili da individuare e strettamente

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interconnesse. Si tratta di cause talmente complesse che persino i principali attori scatenanti la crisi ovvero i banchieri e gli economisti si sono trovati spiazzati e impreparati dinanzi a essa. In particolar modo Gallino afferma che le spiegazioni più gettonate siano state essenzialmente quattro.

In primo luogo la crisi è riconducibile a un’eccessiva concessione di mutui per la casa negli Usa a famiglie che in realtà non erano nelle condizioni economiche tali da poterli saldare. Ciò avvenne essenzialmente perché, dal 2000, gli Stati Uniti stavano attraversando una fase di recessione economica per far fronte alla quale l’allora presidente Bush jr decise di incentivare la costruzione di case, muovendo così vari settori dell’economia industriale e non solo. L’unico modo per i privati di acquistare una casa era quello di contrarre un mutuo. Sia la Fed che il Tesoro e il governo americano facilitarono la contrazione di mutui. Come? Praticando bassi tassi di interesse la prima e varando leggi per consentire l’accesso ai mutui anche alle famiglie più povere, i secondi. Grazie al credito, molte famiglie americane hanno consumato più di quanto guadagnassero poiché prima risparmiavano in previsione del futuro e investivano in obbligazioni, azioni, depositi bancari, quote di fondi comuni, strumenti questi che servivano a finanziare gli investimenti e il deficit pubblico. Negli anni 2000, invece, hanno iniziato a indebitarsi per consumare. Di conseguenza, gli Stati Uniti hanno vissuto per oltre dieci anni al di sopra dei propri mezzi consumando sostanzialmente più di quanto producevano. Le banche cominciarono a emettere mutui facili senza richiedere particolari garanzie, se non l’ipoteca sulla casa.

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Un’altra causa della crisi è stata l’esasperazione di un meccanismo già presente da tempo, secondo cui una volta creati, questi debiti, venivano cartolarizzati. E il nostro autore ci spiega bene in cosa consiste la cosiddetta cartolarizzazione, uno strumento che egli ha definito “micidiale” e che ha permesso alla finanza di sovrastare l’economia reale. Esso consiste nella trasformazione di attivi che figurano nel bilancio di una banca in titoli che si possono commerciare, rivendere, comprare. Le banche hanno inventato secoli fa questo particolare modo di creare denaro, ma dagli anni 90 in poi ne hanno fatto un uso eccessivo. Si tratta di un meccanismo finanziario attraverso cui le banche riuscivano a rivendere i mutui subprime trasferendone il rischio ad altri operatori nei mercati finanziari quindi sostanzialmente questi venivano spezzettati e distribuiti ad altre società-veicolo, dette Siv cioè Structured Investment Vehicles. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, nel momento in cui una banca concede un prestito, esso figura tra gli attivi in quanto essa ne percepisce gli interessi, ma quel capitale è immobilizzato. Inoltre, la banca stessa è soggetta a vincoli, che derivano dalle normative della banca centrale e dalle regole stabilite dagli accordi di Basilea 1 e 2, già da tempo operativi, e dal nuovo accordo Basilea 3. Sulla base di questi vincoli le banche devono tenere di riserva dei capitali buoni per una certa quota rispetto a ciò che prestano. Le norme di Basilea 2 stabiliscono che una banca dovrebbe tenere di riserva e depositare presso la banca centrale, la BCE nel caso dell’Eurozona, l’8 per cento di quello che presta. Il fatto è che concedere prestiti rende molto, sotto forma di interessi, commissioni,

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spese amministrative, consulenze, plusvalenze e altro. Accade però che se una banca continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata che il nostro autore ha definito ironicamente “colpo di genio”: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l'ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene, ad esempio, con un mutuo. Mediante tale dispositivo, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro, non avrebbero mai potuto concedere facendo affidamento esclusivamente sulle loro riserve o sul capitale proprio, creando così rischi gravi per l'intero sistema finanziario. «Da parte loro le banche, rovesciando una tradizione quasi secolare, passarono dal paradigma “origina (cioè concedi un credito, che è un debito per chi lo ottiene) e

conservalo (in bilancio)” al paradigma che suona “origina e

distribuisci (cioè vendilo a qualcun altro).»9Il meccanismo cominciò a

incepparsi allorchè negli anni 2006-2007 i prezzi delle case cominciarono ad aumentare e con essi anche il tasso di interesse, impossibilitando così la maggior parte di coloro che avevano contratto un mutuo a ripagarlo. A partire dal 2000, fino a metà 2006, il prezzo delle abitazioni USA è cresciuto moltissimo (15% in media l’anno), creando una cosiddetta “bolla immobiliare”. Il continuo aumento dei prezzi delle case favoriva le istituzioni che concedevano i mutui, rendendo l’attività conveniente e poco rischiosa. Infatti, prevedendo un continuo aumento dei prezzi delle case, chi concedeva un mutuo

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non si chiedeva se il mutuatario “subprime” potesse veramente ripagare le rate. Anzi, in caso di mancato pagamento, la banca poteva prendersi la casa e rivenderla ad un prezzo più alto dell’ammontare del mutuo concesso.

Si diceva, dunque, che con la cartolarizzazione, la prima fase è identica al mutuo tradizionale. Questa volta però la banca rivende il mutuo ad un’altra istituzione finanziaria, “liberandosi” del rischio. Attraverso questa istituzione, la Società Veicolo appunto, la banca recupera immediatamente i suoi soldi, incassa un profitto e può ricominciare ad offrire altri mutui. Ma come mai le Società Veicolo riescono a fare affari? E perché la loro attività ha generato rischi di natura sistemica, decisamente sottovalutati dagli investitori, ma soprattutto dalle istituzioni che avrebbero dovuto sorvegliare e regolamentare il fenomeno?

La Società Veicolo emette delle obbligazioni legate ai mutui sul mercato finanziario. Poniamo il caso che i mutuatari ripaghino le rate alla banca, ad un certo tasso, per esempio del 6 %. La banca, però, aveva venduto i mutui alla società veicolo a cui, quindi, trasferisce le rate da pagare. La società veicolo, a sua volta, ha venduto titoli legati ai mutui agli investitori, e quindi pagherà loro gli interessi dovuti, che ammettiamo siano del 4%. La società veicolo quindi trae profitto dalla differenza dei due tassi, 6%-4%.

Le cartolarizzazioni sono state facilitate dal fatto che le agenzie di rating, che devono analizzare questi titoli e misurarne il rischio, hanno sottovalutato la rischiosità di questi investimenti e li hanno promossi come titoli “molto sicuri”, anche perché ottenevano remunerazioni sulla loro attività di consulenza e di rating. Ed è anche ad esse che

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Gallino attribuisce una responsabilità non indifferente nel meccanismo perverso che ha portato allo scoppio della crisi. Per non parlare poi della supervisione istituzionale che è stata carente se non del tutto assente.

Il problema fondamentale è che il rischio implicito nelle cartolarizzazioni è stato ampiamente sottovalutato, a causa non solo di un eccessivo ottimismo dovuto alla situazione economica generale favorevole ma anche a causa della complessità ed opacità dei titoli cartolarizzati e derivati da cui dipendeva anche l’incertezza sul loro effettivo valore e di un utilizzo assolutamente forsennato di algoritmi matematici che sembravano permettere di calcolare il valore di questi strumenti complessi basandosi essenzialmente sulle statistiche passate. Per farla breve, i titoli cartolarizzati, promossi come investimenti sicuri, essendo redditizi in un’epoca di bassi tassi di interesse, sono stati comprati da tutti gli investitori finanziari prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo. Tutto sembrava funzionare perfettamente. Chi non aveva mai avuto la possibilità di comprare una casa ora poteva farlo. Si parlava addirittura di “The American dream”. Le banche e gli investitori facevano enormi profitti e il rischio sembrava distribuito talmente bene da non sembrare per nulla una minaccia. Tuttavia lo sviluppo finanziario può portare in sé i germi dell’autodistruzione. E ciò è stato sostenuto anche da Minsky, citato più volte dal nostro autore, il quale seguendo le orme di Keynes, in una delle sue opere principali, Can It Happen Again, afferma che in una situazione generale di espansione gli operatori economici hanno pochi debiti e quindi le oscillazioni del mercato finanziario e in particolar modo, le variazioni dei tassi di interesse, non vanno a

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tangere i loro profitti. Il clima di ottimismo generato dalle condizioni favorevoli, spinge ad aumentare l’indebitamento perché lavorare con i soldi degli altri, in una situazione di bassi tassi di interesse, consente di aumentare il rendimento dei capitali propri. Allora gli operatori, la cui posizione diventa decisamente speculativa, puntano sul fatto che i tassi di interesse sul debito saranno inferiori al tasso di profitto, unica condizione affinché l’indebitamento sia conveniente. Tuttavia quest’ultimo può diventare insostenibile perché l’impresa genera profitti lordi inferiori agli interessi da pagare e sono necessari sempre nuovi debiti, dando vita a un meccanismo impazzito di indebitamento. Meccanismo che agisce per tutti gli operatori e, anche per le banche, con il risultato che le condizioni di fragilità dei finanziati e dei finanziatori aumentano in maniera spropositata, tanto più accentuata e sicura appare la fase di stabilità. Da qui il paradosso minskiano secondo cui “la stabilità è destabilizzante”.

Ma qualcosa è andato storto poiché, a partire dal 2004, scoppia la crisi totale, i tassi di interesse americani iniziano a salire. I mutui, di conseguenza, diventano sempre più costosi e difficili da ripagare; inoltre, nel 2006, la crescita dei prezzi delle case si ferma e poi, nel 2007, i prezzi iniziano cadere. Con i prezzi delle case in ribasso, le banche che avevano concesso molti “mutui subprime” ora iniziano a registrare delle perdite sempre più grandi. Ma con i mutuatari che non riescono a ripagare le rate e con la riduzione dei prezzi delle case, il flusso dei pagamenti alla base della cartolarizzazione si blocca. Le Società Veicolo devono pagare gli interessi sui titoli emessi, ma non hanno più entrate con cui farvi fronte; la loro solidità finanziaria è minacciata e, a fronte di un loro possibile fallimento, i titoli emessi

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perdono valore. Questa, da crisi locale si trasforma ben presto in una crisi sistemica. Le Società Veicolo, fondate sulle rate dei mutui subprime, cominciano dunque a non guadagnare quanto era atteso e ad avere grosse perdite. Ma c’è di più poiché questi titoli erano stati comprati da banche ed istituzioni finanziarie in tutto il mondo e ovviamente anche loro iniziano a registrare enormi perdite. La crisi si estende all’intero sistema finanziario mondiale. Dagli Usa la crisi si propagò all’Ue con una distruzione stimata a circa 25 trilioni di dollari. Ebbene, se pure lo sgonfiamento repentino della bolla immobiliare può essere considerata la causa principale della crisi dice Gallino: «tuttavia lascia fuori dal quadro, come una foto presa troppo da vicino, il suo principale attore, il sistema finanziario e lo sviluppo patologico che questo ha fatto registrare quanto meno dagli anni ’80 in poi»10. Egli parla di sviluppo patologico perché il sistema finanziario, da coadiuvante dell’economia reale, è arrivato a sovrastarla, mettendo a rischio il buon funzionamento di quest’ultima in quanto il valore del primo è arrivato a superare quello dell’economia reale, incentivando quindi la speculazione e non la produzione. Ed è di questo che mi occuperò nel prossimo paragrafo.

2.2: Il predominio incontrastato della finanza.

Ci siamo trovati, quindi, dinanzi al superamento da parte della finanza mondiale del valore reale dei beni prodotti. Gallino critica il sistema finanziario di oggi, sottolineando come questo abbia degli aspetti

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fortemente controversi in uno dei suoi libri più recenti,

Finanzcapitalismo.

Cosa intende Gallino per “finanzcapitalismo”?

Si tratta di una megamacchina che usa l’essere umano come ingranaggio di un sistema di sfruttamento o meglio, come dice lui stesso: «Il finanzcapitalismo è una mega macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli

ecosistemi»11. È una mega-macchina che si è andata via via

sostituendosi quasi del tutto alla precedente, il capitalismo industriale. In entrambi i capitalismi la logica sottostante è quella dell’accumulazione di capitale in quanto il capitale è potere; la differenza principale ed evidente risiede nel diverso modo di accumulare capitale. Il capitalismo industriale ha come forza motrice l’industria manifatturiera e accumula capitale seguendo la famosa «formula generale del capitale, come esso si presenta immediatamente

nella sfera della circolazione»12 D1-M-D2 per cui, dall’investimento

di una quantità di denaro nella produzione di merci, si ricava un profitto ovvero una quantità di denaro maggiore di quello investito una volta vendute quelle determinate merci. “Comprare per vendere, ossia,

in modo più completo, comprare per vendere più caro”13. Invece, il

finanzcapitalismo persegue l’accumulazione di capitale facendo tutto il possibile per saltare la fase intermedia, la produzione di merci. Ciò vuole dire essenzialmente che la formula del sistema classico del

11 L. Gallino, Op. cit., p. 5.

12 K. Marx, Il processo di produzione del capitale, Rinascita, Roma 1951, p. 188. 13 Ibidem.

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mercato D1-M-D2 sarà sostituita dalla nuova D1-D2 in cui si verifica il superamento della fase di produzione delle merci; l’aumento del capitale non passa più attraverso la creazione di un bene “valore” e si produce denaro per mezzo del denaro. Così facendo, il reddito percepito sarà indubbiamente più elevato rispetto a quello che si otterrebbe producendo denaro per mezzo di merci. L’affermarsi di questo fenomeno è stata la causa dell’insorgere della famosa bolla speculativa nel 2007, poiché il capitale esistente è arrivato a superare nettamente il PIL. Ma cerchiamo di capire meglio qual è la struttura di questa mega-macchina il cui perno è il sistema finanziario e quali ne sono le componenti secondo Gallino. Egli individua tre componenti fondamentali: “il sistema bancocentrico”; la finanza ombra e gli investitori istituzionali.

Gallino parla di “sistema bancocentrico” intendendo con ciò un sistema al cui interno sono individuabili grandi società che operano in una dozzina di settori di attività differenti e, in ciascuno di essi, controllano un numero indefinito di società. Si tratta di enormi società definibili come entità aziendali visibili con bilanci ufficiali che registrano attività e passività in cui, tuttavia, sicuramente è predominante la componente bancaria/assicurativa. Ci troviamo di fronte a banche proprietarie di assicurazioni nel comparto immobiliare; banche commerciali con divisioni che operano come banche di investimento; compagnie di assicurazione sulla vita proprietarie di banche; bank holding companies e per ultimo, ma non per importanza, società che emettono titoli aventi per garanzia un bene reale come una casa, un’azienda, titoli o irreale come un debito.

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La seconda componente è la finanza ombra che non può essere considerata illegale, nonostante il nome possa trarre facilmente in inganno, poiché prevista dalla legge e nella quale rientrano una serie di attività deregolate e liberalizzate a partire dagli inizi degli anni ’80 del Novecento. In essa sono attive migliaia di società costituite dalle banche, definite veicoli, la cui funzione principale è quella di veicolare fuori bilancio attivi che dovrebbero invece figurarvi nonché

intermediari esperti nella vendita di titoli obbligazionari

complicatissimi a investitori istituzionali e a enti pubblici.

«Caratteristica preminente del Sistema Finanziario Ombra è l’impossibilità di conoscere come sono stati costruiti, che cosa realmente contengono, quali rischi incorporano, quanti sono, quanto

valgono, da chi sono posseduti i titoli che vi circolano»14.

A farla da padrone sono i derivati, su cui mi soffermerò a breve, sia quelli detenuti da una banca che non vengono comunque registrati, sia quelli scambiati tra privati e che sfuggono al controllo in quanto nemmeno registrati in borsa.

A chiudere il cerchio ci pensano gli investitori istituzionali, definiti da Gallino “una delle maggiori potenze economiche del nostro tempo”. I principali sono: Fondi pensione, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, e fondi comuni speculativi detti anche

hedge funds. La loro attività è strettamente interconnessa a quella delle

banche e della finanza ombra per quanto concerne gli scambi di denaro e capitale e il loro mestiere consiste nell’investire soldi degli altri. A dimostrazione del loro peso, Gallino afferma che le loro strategie di

14 L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino

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investimento influenzano sia le grandi Corporation sia i bilanci degli Stati ma non solo, essi posseggono oltre la metà delle società quotate in borsa e hanno dunque un ruolo rilevante nel proporre e imporre politiche finanziarie e industriali. In generale, esse non si preoccupano delle conseguenze sociali degli investimenti che effettuano poiché il loro unico criterio guida è la massimizzazione a breve termine del rendimento finanziario. In uno dei suoi saggi più importanti, Con i

soldi degli altri, Gallino ha sottolineato che, nonostante gli investitori

istituzionali abbiano finalità statutarie diverse, siano vincolati dal rispetto di norme e regole diverse e si trovino a fronteggiare problemi diversi, essi sono accomunati da alcune strategie di base nel perseguimento di quattro scopi principali. In particolare, in primis, far sì che il capitale affidato loro dai risparmiatori conservi nel tempo il rendimento più elevato possibile e cresca oltre il tasso di inflazione. Come? Scegliendo quanto capitale investire in settori finanziari più sicuri ma la cui redditività è minore, come i titoli di Stato, o in settori più rischiosi ma più profittevoli come azioni e derivati. Ed emerge, come dagli anni Ottanta, siano aumentati gli investimenti in azioni ma anche gli investimenti alternativi quali fondi speculativi, fondi monetari, infrastrutture, imprese non quotate mostrando una propensione dunque per l’investimento di capitale in settori ad alto rischio. Un altro scopo da esse perseguito è quello di apportare delle modifiche dei servizi offerti ai risparmiatori tenendo conto di diverse variabili quali, per esempio, il costo e il rischio dei servizi proposti e le politiche regolative/de-regolative dei governi e delle organizzazioni internazionali. La strategia maggiormente adottata è il trasferimento, preventivamente calcolato, del rischio da banche, fondi comuni e fondi di investimento agli individui che sottoscrivono le loro quote

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attraverso strumenti finanziari complessi, come per esempio una Cdo, di cui parlerò più avanti, venduti in qualità di titoli o quote di un fondo ai singoli risparmiatori. Essi, inoltre, cercano di aumentare sempre di più il capitale in loro gestione e attirare nuovi sottoscrittori spingendo verso la privatizzazione dei beni pubblici e dei sistemi di protezione sociale. Infatti, come sottolinea il nostro autore, è stata proprio la pressione politica, economica e mediatica degli investitori istituzionali ad aver causato quella corsa alle privatizzazioni di aziende pubbliche e dei servizi pubblici quali l’acqua, i trasporti, l’energia, sistema sanitario e scuola pubblica. Infine, sempre in funzione dei propri obbiettivi cioè per aumentare il capitale di mercato delle imprese e il loro rendimento finanziario, essi puntano a favorire oppure ostacolare fusioni/acquisizioni di imprese e industriali e finanziarie. E sottolinea Gallino:

«Senza fondi pensioni e fondi comuni, ciascuno dei quali detiene in genere una quota azionaria ridotta di ciascuna impresa, si accordano regolarmente per far adottare dalle assemblee degli azionisti i provvedimenti che desiderano, dalla sostituzione dell’intero

management alla vendita in blocco della società»15.

Per capire però perché le banche hanno creato un sistema finanziario ombra, è necessario secondo Gallino, far riferimento ai principali strumenti finanziari utilizzati: derivati, Cdo, Cds.

Il derivato, ormai in uso da molti secoli, è un contratto tra due parti che prevede che l’una vende e l’altra acquisti una certa quantità di merce, a una certa data, a un determinato prezzo. Questo tipo di titolo

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garantisce sia il venditore sia l’acquirente dal rischio di variazioni sfavorevoli di prezzo che si possono verificare nell’intervallo di tempo dato nel contratto. Viene chiamato derivato perché il valore del titolo deriva, appunto, da quello di un’entità sottostante che è la merce oggetto di compravendita. Fino a quando la funzione originaria del derivato venne rispettata, tutto bene. Il problema insorse dopo il 1971 con l’eliminazione del cambio fisso tra dollaro e oro e le innovazioni introdotte dalle banche a causa delle quali il derivato, da strumento assicurativo, divenne sempre più speculativo e l’entità sottostante iniziò ad essere non più un’entità materiale (la merce appunto). Le banche hanno attuato una trasformazione dei derivati moltiplicando a dismisura i sottostanti il titolo che sono passati da alcune decine ad alcune migliaia, figurando tra essi qualsiasi cosa tra cui tassi di interesse, corso di singole azioni, prezzo di alcune merci, esito di eventi sportivi. I derivati possono essere considerati, per questo motivo, tra le principali cause di instabilità del sistema finanziario. Da considerare, altresì, che negli ultimi vent’anni si è assistito a una crescita esponenziale dei derivati in circolazione che tuttavia possono essere “scambiati al banco” tra privati, da qui la designazione di tali titoli Otc cioè over the counter, al di fuorì della borsa e della regolamentazione in merito e detenuti dalle banche senza l’obbligo di registrarli in bilancio. Assolutamente indicativo è che nel 2008 i derivati Otc in circolazione superavano i 683 trilioni di dollari su un totale di 765 trilioni di derivati e i maggiori proprietari di essi erano proprio le banche.

Procedendo nell’analisi dei fattori costituenti il sistema finanziario attuale Gallino parla dei derivati Cdo, Collateralized debt obbligation.

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Non bisogna farsi ingannare dal termine “obbligazione” che viene normalmente identificato come un titolo di debito per l’emittente e un titolo di credito per l’acquirente che solitamente vale qualche centinaio o migliaio di dollari o euro. Infatti, esse valgono in media 1-2 miliardi e possono essere definite come dei portafogli contenenti alcune centinaia di titoli di debito, nel caso dei Cdo semplici, a parecchie migliaia nel caso di Cdo al quadrato. Ora, dal momento che in una singola Cdo sono ricompresi titoli di credito facenti capo in origine a migliaia di persone o società diverse, si verifica che, tra tutte, ci sarà una maggioranza A che alla scadenza ripagherà per certo il debito, una minoranza B che non è sicuro che lo ripagherà e una minoranza più piccola che presenta un elevato rischio di insolvenza. Un terzo tipo di derivati, tra i protagonisti di questa crisi, sono i Cds,

Credit default swaps, che rappresentano una protezione del credito dal

rischio di insolvenza. Di questi non è possibile stabilirne l’esatto ammontare, in quanto soggetti a una regolazione blanda poiché considerati contratti tra privati. Possono essere considerati di fatto forme di assicurazione, pur se rientrano in pieno nel sistema della finanza ombra. Tra il settembre e l’ottobre 2008 il sistema finanziario globale rischiò di andare in frantumi e se riuscì a salvarsi è stato solo grazie all’immissione di trilioni di dollari da parte degli Stati sia negli Usa quanto nell’Ue.

L’aspetto curioso, per non definirlo il più grave, sottolinea il nostro autore, è che questo sistema è sfuggito di mano persino ai suoi stessi creatori che in quel biennio non riuscirono più a rintracciare la collocazione di alcune centinaia di trilioni di derivati “scambiati al banco”. Inoltre, è praticamente impossibile per banche e fondi che li

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acquistano o li vendono, stabilire a fondo il loro contenuto in quanto complicatissimi se guardiamo alla loro struttura matematica.

2.3: La deregolamentazione della finanza: alla base della crisi.

Tutti questi strumenti finanziari, da soli, non avrebbero comunque potuto tramutare la finanza globale senza l’abolizione, a partire dagli anni ’80, delle regole precedentemente in vigore e la sostituzione con delle nuove regole a favore dello sviluppo dei mercati finanziari. La crisi non avrebbe, dunque, assunto i caratteri attuali senza la tanto famosa deregulation intendendo con essa, sottolinea Onado, non quella che “mirava ad aumentare la concorrenza e a creare condizioni più favorevoli per i clienti delle banche”16 se badiamo al senso che normalmente si attribuisce a questo termine ma la deregolamentazione che ha portato alla liberalizzazione dei movimenti di capitale. E aggiunge Gallino:

«La finanziarizzazione del mondo (…) è stata l’opera somma, il grande muro eretto con il denaro altrui che la classe capitalistica

16 M. Onado,I nodi al pettine: la crisi finanziaria e le regole non scritte, Laterza, Roma 2009, pp.

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transazionale ha realizzato tra gli anni Ottanta del XX secolo e il primo

decennio del XXI.»17

Per difendere e gestire questo muro di denaro, la classe transnazionale ha intrapreso negli anni una serie di azioni politiche, leggi e normative dei mercati, a partire da quelli finanziari. È stato l’intreccio tra denaro, corporation banche e politica a far sì che la finanza assumesse il peso che ha oggi, causando enormi disastri sull’economia reale. Ciò perché, se è vero che le leggi son fatte dai politici nazionali, è pur vero che le

normative economicamente rilevanti, nascono da accordi

internazionali quali Bretton Woods, Basilea 1 e 2, GATS, WTO o da organismi sovranazionali europei come la Commissione Europea i quali spingono i politici nazionali ad emanare leggi che rispecchiano i loro interessi. Come? Principalmente grazie allo sviluppo di lobbying non sempre palesi e attraverso contributi finanziari non sempre trasparenti a partiti e uomini politici. Non bisogna però pensare, afferma Gallino, che quest’ultima sia attribuibile esclusivamente a banchieri, economisti e politici americani e poi imitata o subìta dagli europei. Negli Stati Uniti la liberalizzazione dei movimenti di capitale ha preso vita smantellando una delle leggi più importanti emanate durante la presidenza di Roosevelt, la seconda legge Glass-Steagall. Essa era stata emanata per vietare alle banche e alle istituzioni finanziarie di eccedere nell’attività speculativa a tal punto che questa superasse la funzione di sostegno all’economia reale, primaria e fondamentale, com’era d’altronde accaduto prima della crisi del ’29. Per evitare ciò, la legge prevedeva la separazione tra banche commerciali e banche di investimento; vietava di collocare fuori

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bilancio sia attivi che passivi; ostacolava gli scambi dei derivati al di fuori delle borse a fini speculativi; frenava fusioni e acquisizioni che ingigantissero eccessivamente gli enti finanziari. Tuttavia nel novembre del 1999 essa fu abolita e sostituita dalla legge Gramm-Leach-Bliley la quale rese possibili le operazioni espressamente vietate dalla precedente legge. Si trattava di un provvedimento che fondamentalmente eliminava il divieto alle banche commerciali di effettuare investimenti speculativi. In altre parole, in un solo giorno si tornò indietro di oltre 60 anni. Come ha sottolineato anche il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz, con il quale il nostro autore si trova su più punti concorde, dietro alla decisione delle banche di svolgere attività ad altissimo rischio specialmente dopo l’abrogazione del Glass-Steagall Act, vi era la consapevolezza che le grandi banche fossero diventate troppo grandi per fallire, e queste lo sapevano bene: «Sapevano che se si fossero trovate nei guai, il governo sarebbe andato loro in soccorso. E questo valeva anche per le banche che non avevano un’assicurazione dei depositi, come le banche di investimenti. In secondo luogo, i responsabili delle decisioni –cioè i banchieri- erano mossi da incentivi perversi che incoraggiavano comportamenti miopi oltre all’assunzione di rischi eccessivi. Non solo sapevano che la banca sarebbe stata salvata qualora si fosse trovata in difficoltà, ma anche che sarebbero rimasti ricchi comunque, anche se la banca fosse stata

lasciata al suo destino di fallimento. E avevano ragione.»18

La deregolamentazione venne applicata anche in Europa ma, tanto negli Usa quanto nell’Ue, gli intrecci e le strette interrelazioni personali, ideologiche e organizzative tra finanza e politica, tra cariche

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pubbliche e private non hanno fatto sperare né tantomento fanno sperare in una riappropriazione da parte della politica di un potere e un’autonomia superiori a quelli che nel frattempo ha ottenuto la finanza. Secondo Onado, come anche Gallino ha sottolineato più volte: «Il problema fondamentale non sono le regole abolite, ma quelle che non sono mai state scritte per adeguare la normativa finanziaria a una realtà che stava cambiando con la velocità della luce. La crisi è

infatti venuta essenzialmente dai prodotti della nuova finanza»19. Una

liberalizzazione così sfrenata ha distrutto senza alcun dubbio l’economia, afferma Gallino, perché si è preoccupata di sviluppare i mercati finanziari e non i mercati reali.

«La de-regolazione dei movimenti di capitale ha consentito alle istituzioni finanziarie ogni sorta di sregolatezza, poiché gran parte delle loro attività diventa invisibile alle autorità di sorveglianza, vuoi per la complessità dei prodotti che le prime inventano, vuoi perché grosse quote di questi ultimi circolano fuori bilancio, essendo considerati contratti privati, tipo i derivati scambiati” al banco” senza

alcun intermediario»20.

Inoltre per citare un altro premio Nobel per l’economia Paul Krugman, il cui pensiero si trova sulla stessa lunghezza d’onda del nostro autore, «la deregulation ha creato un classico caso di “rischio morale”, in cui i soci delle casse di risparmio avevano tutto l’interesse ad adottare un comportamento altamente rischioso. Dopotutto, ai depositanti non importava nulla di quello che faceva la banca: erano assicurati contro

19 M. Onado, Op. cit., p. 18. 20 L. Gallino, Op. cit., p. 16.

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le perdite. Di conseguenza al banchiere conveniva sempre concedere prestiti a tassi di interesse elevati a clienti di dubbia solvibilità, quasi sempre immobiliaristi. Se le cose andavano bene, la banca avrebbe incamerato lauti profitti. Se andavano male, il banchiere poteva sempre andarsene con le tasche piene. Se usciva testa vinceva lui; in caso di croce perdevano i contribuenti»

2.4: La finanziarizzazione del mondo e il problema del capitalismo dei mercati finanziari.

La crisi è dunque anche una conseguenza della finanziarizzazione del mondo perseguita a partire dagli anni ‘80 in cui, in seguito al rallentamento della produzione di massa incentivata dal sistema fordista, le imprese hanno reagito investendo nei mercati finanziari. Gallino parla di alcuni “aspetti salienti della finanziarizzazione del mondo” e cioè in primis “l’assunzione della massimizzazione del valore per l’azionista” per cui bisogna guardare in primo luogo le quotazioni dei titoli della propria società in borsa piuttosto che gli aspetti salienti riguardanti il fatturato, l’occupazione, le vendite e così via. Assolutamente evidente risulta anche lo sviluppo, all’interno delle imprese industriali, di divisioni specializzati che offrono a famiglie e imprese ogni tipo di servizi finanziari. Inoltre egli fa riferimento anche alla privatizzazione della previdenza, della sanità, della scuola, delle

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