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Spazi pubblici e beni urbani a fruizione collettiva

Come ampiamente analizzato nel capitolo precedente, gli studi sui c.d. urban commons si concentrano anzitutto sui beni urbani ad uso collettivo e dunque sulle strade, le piazze, i parchi, i giardini e gli altri beni che costituiscono gli spazi pubblici funzionali al benessere della comunità locale e alla qualità della vita urbana. Sono beni particolarmente esposti al rischio del degrado a causa della complessità dei problemi che coinvolgono le città, specialmente i quartieri più difficili dal punto di vista sociale, e delle scarse risorse finanziarie di cui dispongono gli enti locali per la realizzazione di nuovi beni pubblici urbani a fruizione collettiva, ma anche per la manutenzione e la vigilanza di quelli esistenti. Secondo quegli studi tale situazione comporta l’ulteriore rischio della sostituzione dei beni in questione con beni privati ad uso esclusivo o con beni privati aperti al pubblico, ma per usi (essenzialmente commerciali) ritenuti non del tutto fungibili con quelli propri dei beni pubblici urbani a fruizione collettiva e comunque non totalmente aperti a tutti299. Come già rammentato, l’ordinamento giuridico italiano riconosce il ruolo fondamentale dei beni urbani a fruizione collettiva non soltanto considerandoli, in quanto beni in proprietà di enti territoriali, beni pubblici e attribuendogli proprio in ragione della loro destinazione un regime proprietario differenziato, ma, ancor prima, stabilendo che la trasformazione e lo sviluppo della città debbono essere realizzati in modo che alla localizzazione dei beni-cose, di proprietà pubblica o di proprietà privata, costituenti gli spazi pubblici o di uso pubblico siano riservate aree in quantità sufficienti a soddisfare le corrispondenti esigenze dei cittadini.

In particolare, l’art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, “Legge urbanistica”, non si limita ad imporre al piano regolatore di individuare le “aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico e ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale” (c. 2, n. 4) e quelle “destinate a formare gli spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù” (c. 2, n. 3), ma, a seguito delle modifiche apportate dalla legge 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. legge ponte, perché, come è noto, intendeva definire un regime transitorio in attesa di una riforma della legge urbanistica), richiede

299 Sul punto rileva la già richiamata distinzione tra luogo pubblico e luogo aperto al pubblico: mentre il primo è accessibile a tutti, al secondo può accedere chiunque ma “in momenti determinati e con l’osservanza delle condizioni o limitazioni imposte da colui che esercita un diritto sul luogo stesso”, Cass. civ. Sez. I, 9 marzo 1990, n. 1930; per la dottrina vedi A. GARDINO CARLI, Riunione (libertà di), in Digesto Discipline Pubbliche, vol. XIII, Torino, Utet, 1997.

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altresì che siano osservati rapporti massimi tra “spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi” e “spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio”

(art. 41-quinquies, comma 8), rinviando la definizione di tali rapporti ad un successivo decreto ministeriale, poi effettivamente emanato come Dm 2 aprile 1968 n. 1444 “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967”.

Il decreto ha dunque fissato quei rapporti (c.d. standard urbanistici, standard speciali o vincoli ad operatività differita, in quanto rivolti anzitutto al pianificatore e dunque non immediatamente vincolanti per i privati300) tenendo conto del diverso carattere degli insediamenti (residenziale, industriale o commerciale-direzionale) e delle diverse zone territoriali omogenee in cui, sempre in attuazione della legge urbanistica del 1942, è diviso il territorio comunale.

L’approccio centralista, razionalista e quantitativo alla pianificazione della parte pubblica della città, per ragioni cui si farà riferimento nel prosieguo, non è sempre riuscito a garantire la concreta realizzazione degli spazi pubblici e delle strutture per attività di interesse collettivo pianificati. Gli standard urbanistici sono stati intesi dai pianificatori comunali come meri obblighi formali cui assolvere ai fini dell’approvazione degli strumenti urbanistici, spesso a prescindere dalle considerazioni circa la effettiva realizzabilità (ma anche la reale funzionalità) degli spazi pubblici e delle strutture previsti sulla carta.

Ciò che tuttavia maggiormente interessa nell’ambito di questa parte del lavoro è verificare se e in che misura le norme sugli standard urbanistici costituiscano la base sulla quale i cittadini possano intervenire in giudizio a tutela di loro interessi inerenti agli spazi pubblici e, pertanto, almeno indirettamente, a tutela di loro interessi a fruire dei beni pubblici in cui tali spazi si concretizzano.

300 Sugli standard urbanistici vedi infra. In dottrina, vedi in particolare: S.BINI, Determinazione delle opere di urbanizzazione e degli standard, in Urb. App., 2011; E.BOSCOLO, Il piano regolatore comunale, in S.BATTINI,L.

CASINI,G.VESPERINI,C.VITALE (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, Utet, Torino, 2013; E.BOSCOLO, Standard e poteri regionali, in Riv. giur. urb., n. 3-4, 2014; P.CERBO, Commento all’art. 41-quinquies della legge 17, agosto 1942, n. 1150, in S.BATTINI,L.CASINI,G.VESPERINI,C.VITALE (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, Utet, Torino, 2013; L.FALCO, Gli standards urbanistici, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1978; L.FALCO, I “nuovi”

standards urbanistici, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1987; G.FARRI, Gli standard urbanistici, in A.GAMBARO,U.

MORELLO (diretto da), Trattato dei diritti reali, vol. IV Proprietà e pianificazione del territorio, Giuffrè, Milano, 2012;

F.PAGANO, Gli standards urbanistici strumento della politica dei servizi, in Riv.giur.ed., n. 1, 1996; F.SALVIA, Standard e parametri tra regole di pianificazione e disciplina dell’edificabilità, in E.FERRARI (a cura di), L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato, Milano, 2000.

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Prima però di giungere ad esaminare la giurisprudenza in merito, appare necessario ricostruire ed approfondire il tema degli standard urbanistici anche e proprio al fine di comprendere le connessioni con il tema dei beni pubblici a fruizione collettiva, oggetto principale del presente lavoro.

1.1. Gli standard urbanistici relativi agli spazi pubblici tra governo del territorio e livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali

Il decreto ministeriale n. 1444/1968 è stato, e tuttora continua ad essere, punto di riferimento importante per la pianificazione degli spazi urbani da riservare alla fruizione collettiva. Le Regioni, infatti, per lungo tempo si sono limitate a recepire nelle loro leggi urbanistiche il sistema degli standard dettato dal decreto del 1968 – a volte anche innalzando i parametri quantitativi - e soltanto di recente alcune di esse hanno cominciato a prevedere una propria, autonoma disciplina.

In effetti, a seguito del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni operato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 “Modifiche al titolo V della parte II della Costituzione”, il “governo del territorio”, nel cui ambito il tema di cui si discute deve essere ricondotto, è materia di legislazione concorrente e pertanto spetta alla legislazione dello Stato la sola determinazione dei principi fondamentali301. Tra questi si ritiene rientri quanto meno l’obbligo di cui all’art. 41-quinquies, c. 8, di osservare negli strumenti urbanistici “un rapporto equilibrato tra insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici e di uso collettivo onde garantire ovunque quelle esigenze minimali per una convivenza che voglia dirsi civile”302, che pertanto deve

301 Sul punto è stata evidenziata la corrispondenza tra le aree destinate a spazi pubblici, attività collettive, verde pubblico e parcheggi di cui al Dm del 1968 e la maggior parte delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria di cui all’art. 46, commi 8 e 9 del Dpr 6 giugno 2001, n. 380, “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, vediG.PAGLIARI, Corso di diritto urbanistico, V edizione, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 89-90.

Secondo tale ricostruzione gli standard urbanistici costituirebbero in buona sostanza lo “strumento di quantificazione”

delle opere di urbanizzazione, voce della materia “governo del territorio” di competenza legislativa concorrente, per cui l’elenco delle opere di urbanizzazione non potrebbe che essere di competenza del legislatore regionale.

302 Vedi P. URBANI, S. CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, V ediz., Giappichelli, Torino, 2013, p. 90. Sul punto il giudice amministrativo ha assunto posizione diversa, considerando come principi fondamentali non solo l’art. 41-quinquies ma anche le disposizioni di cui al Dm n. 1444/1968, vedi da ultimo Tar Lazio, sez. II quater, sent. 20 gennaio 2016, n. 610, nella quale si legge: “non si può non evidenziare che l’ambito territoriale tendenzialmente esteso all’intero territorio nazionale delle previsioni in tema di standards urbanistici ed edilizi di cui al cit. art. 41 quinquies L. 1942 n. 1150 e relativo Dm 2.4.1968, n. 1444, il carattere di inderogabilità di tali previsioni (salvo specifiche eccezioni da essa stessa previste o relative alle Regioni a Statuto speciale), e la finalità da esse perseguita (volta ad assicurare un livello minimo di qualità urbana in un contesto storico pregresso caratterizzato da forti carenze di standard urbanistico e da edificazione massiva che dette, fra l’altro, luogo ai c.d.

‘quartieri dormitorio’), costituiscano indici significativi - quanto meno - del carattere di principi generali della materia

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guidare l’espressione della potestà legislativa e regolamentare spettante alla Regione ex art. 117, c. 3, Cost.

Ciò premesso, fino a quando le Regioni non provvedono a ridisciplinare la materia, il dm n.

1444/1968 continua ad essere di fatto la fonte che regola il rapporto tra spazi privati e spazi pubblici303, ponendo un limite alla discrezionalità amministrativa dell’autorità comunale pianificatrice304.

Del resto, soltanto di recente il legislatore statale – in buona sostanza prendendo atto dell’assetto costituzionale vigente dal 2001 – ha esplicitamente riconosciuto alle Regioni ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano il potere di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”305.

urbanistica, poi ricompresa nel ‘Governo del territorio’ in base al nuovo testo dell’art. 117 Cost., e come tali vincolanti (ai sensi dell’art.1 comma 3 della legge n.131 del 2003: ‘Nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti’) per le regioni a statuto ordinario”.

303 Vedi in merito. G.PAGLIARI, Corso di diritto urbanistico, V edizione, Giuffrè, Milano, 2015, p. 84. Nello stesso senso P.URBANI,S.CIVITARESE MATTEUCCI, op. cit., p. 90.

304 Così P.URBANI,S.CIVITARESE MATTEUCCI, op. cit., p. 91.

305 Così l’art. 2 bis del già menzionato Dpr n. 380/2001, come integrato dalla legge 9 agosto 2013 n. 98 in sede di conversione del Dl 21 giugno 2013 n. 69, “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”(c.d. “Decreto del fare”). In effetti l’art. 2 bis, diversamente da quanto indicato nella rubrica “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati”, non riguarda soltanto i c.d. standard edilizi (norme sulle altezze e sulle distanze tra fabbricati), ma anche le disposizioni su spazi e destinazioni urbanistici. La disposizione mette dunque insieme norme riguardanti profili che giurisprudenza e dottrina hanno considerato come distinti ed afferenti a diverse materie: mentre, come detto, gli standard urbanistici sono riconducibili alla materia di competenza concorrente “governo del territorio”, gli standard edilizi, in quanto direttamente incidenti sulla proprietà, rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile. Ciò premesso, per quanto specificamente concerne gli standard urbanistici, l’art. 2 bis ha dato luogo a diverse interpretazioni. Parte della dottrina ritiene infatti che la norma sia “priva di un contenuto autenticamente innovativo, limitandosi a prendere atto del quadro costituzionale vigente”, E.

BOSCOLO, Standard e poteri regionali, cit., p. 456; altri ritiene invece che la norma debba essere interpretata nel senso che “alle Regioni non spetta un potere di ridefinire in generale gli standard urbanistici, prevedendo ciascuna regole specifiche ed autonome, quanto la possibilità di derogare alle regole generali stabilite dal Dm 1444 solo in presenza di peculiari situazioni giustificatrici, nell’esercizio di una discrezionalità che trova il suo limite nella necessità di garantire l’ordinato assetto del territorio ed il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, comma 1, Cost.) ed il cui vaglio di costituzionalità non può che passare attraverso una valutazione di ragionevolezza della scelta operata dal legislatore”, A.DI MARIO, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il

“decreto del fare”, in Urb. app., 11, 2013, p. 31; altri, infine, sostiene che l’art. 2 bis attribuisca alle Regioni ed alle

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In effetti le Regioni, specialmente a seguito del riconoscimento esplicito del loro ambito di competenza, si sono avviate verso la definizione di propri autonomi standard urbanistici306.

Province autonome di Trento e Bolzano un potere di deroga dei soli limiti di distanza tra i fabbricati (standard edilizi) e non anche degli standard urbanistici, A.SCONOCCHIA BIFANI, Deroghe alle distanze fra costruzioni alla luce del d.l.

21 giugno 2013, n. 69, in Riv. giur. edil., 2, 2014, p. 26.

306 Tra di esse vedi, ad esempio, la Regione Umbria, la cui legge 21 gennaio 2015, n. 1 “Testo unico governo del territorio e materie correlate”, all’art. 246 rinvia a norme regolamentari la disciplina delle “dotazioni territoriali e funzionali minime per spazi pubblici di interesse generale e privati di interesse pubblico, destinati ad attività e servizi collettivi, a verde e a parcheggi, necessari ad assicurare le condizioni per la sostenibilità ambientale e la qualità edilizia ed urbanistica degli insediamenti e delle attività produttive e per servizi, tenendo conto degli abitanti serviti e dell'utenza rispetto ai quali sono riferiti, nonché dei requisiti di qualità prestazionale dei servizi medesimi”. Il regolamento 18 febbraio 2015, n. 2, approvato in attuazione del predetto art. 246 della lr n. 1/2015, all’art. 85 con riferimento ai nuovi insediamenti residenziali prevede comunque una dotazione territoriale e funzionale complessiva minima di spazi pubblici pari a 18 mq per abitante; la Regione Liguria, la cui legge 2 aprile 2015 n. 11, di modifica della legge urbanistica regionale 4 settembre 1997 n. 36, rinvia ad un regolamento della Giunta la definizione, in riferimento alle diverse situazioni insediative esistenti ed ai nuovi insediamenti previsti dai piani territoriali e urbanistici, delle dotazioni territoriali e funzionali per spazi pubblici o vincolati all’uso pubblico di interesse generale o locale, destinati ad attività e servizi collettivi; la Provincia autonoma di Trento, la cui legge 4 agosto 2015, n. 15

“Legge provinciale per il governo del territorio” rinvia al regolamento urbanistico-edilizio provinciale la definizione dei rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi nonché dei criteri per il dimensionamento e la localizzazione degli stessi spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (art. 59). Ancora prima, la Regione Lombardia, con la legge 11 marzo 2005, n. 12, “Legge per il governo del territorio”, ha abbandonato la logica razionalistica, astratta e parametrica su cui si è fondato il Dm n. 1444/1968 per approdare ad una diversa soluzione di infrastrutturazione del territorio. Il “piano di governo del territorio” comunale (art. 7) si compone infatti, oltre che del

“documento di piano” e del “piano delle regole”, del “piano dei servizi”. Quest’ultimo (art. 9) si volge ad assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica ed aree a verde e corridoi ecologici, partendo da una valutazione, anche della qualità, della fruibilità e dell’accessibilità dell’esistente per individuare le necessità di sviluppo e di integrazione (con individuazione delle modalità di intervento e quantificazione dei costi) per soddisfare le esigenze, oltre che della popolazione stabilmente residente e di quella da insediare, anche di quella gravitante sul territorio (per motivi di lavoro, studio, fruizione dei servizi, turismo). La legge lombarda, pur disponendo (art. 103) la disapplicazione del Dm n. 1444/1968 (fatto salvo il rispetto della distanza minima tra fabbricati), assicura comunque in relazione alla popolazione stabilmente residente e a quella che si prevede si insedierà “una dotazione minima di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale pari a diciotto metri quadrati per abitante” (art. 9, comma 3), vedi in particolare E.BOSCOLO, Le regole dell’urbanistica in Lombardia, Giuffrè, Milano, 2006, nonché ID., Il piano regolatore comunale, in S.BATTINI, L.CASINI,G.VESPERINI,C.VITALE (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, Utet, Torino, 2013, pp. 275-280.

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D’altro canto occorre rammentare che la dottrina307 e il giudice amministrativo308 hanno avanzato anche l’ipotesi che gli standard urbanistici possano rientrare nella materia di potestà legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost., denominata

“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, dal momento che essi sono alla base del processo che “dovrebbe condurre alla concreta formazione delle opere ed all’infrastrutturazione degli spazi pubblici, essenziali per garantire la coesione sociale mediante un moderno sistema di welfare municipale” e sono dunque strumento principe per la realizzazione del welfare urbano e del principio di eguaglianza di cui all’art. 3, c. 2, Cost.309.

Del resto, con riferimento ad altre disposizioni del Dm n. 1444/1968, e precisamente a quelle relative alla disciplina delle distanze fra fabbricati (c.d. standard edilizi) di cui all’art. 9 dello

307 In merito, P.URBANI,S.CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, cit., p. 90.

Vedi inoltre la posizione di E.BOSCOLO, Standard e poteri regionali, cit., p. 456-457, il quale, dopo aver affermato che

“la disciplina degli standard urbanistici appartiene a pieno titolo al governo del territorio”, conclude “In definitiva, in carenza di un atto statale ai sensi dell’art. 117, II comma, lett. m), Cost. (…) di determinazione di livelli essenziali minimi delle dotazioni territoriali in termini strumentali rispetto ai livelli delle prestazioni del welfare urbano, l’unico principio generale pare essere la necessità che degli standard siano normativamente previsti, indipendentemente dalla fonte normativa, nazionale o regionale, onde garantire sul territorio la necessaria infrastrutturazione ed una forma di regolazione tesa al contemperamento delle diverse esigenze e dei diversi interessi che hanno il territorio quale terminale e che entro lo spazio urbano debbono trovare un bilanciamento ed una sintesi che ripropone la centralità del piano urbanistico”.

308 Vedi da ultimo la sentenza Tar Lazio, sez. II quater, 20 gennaio 2016, n 610. In tale sentenza il giudice amministrativo, dopo aver rammentato che l’art. 41 quinquies della legge n. 1150/1942 (come modificata dalla legge n. 765/1967) e il Dm n. 1444/1968, emanato su delega della stessa disposizione di legge, costituiscono “disposizione normativa sovraordinata agli strumenti di pianificazione urbanistica”, afferma – diversamente da quanto sostenuto dalla dottrina già menzionata - che con tale disposizione sarebbero stati introdotti “standard urbanistici ed edilizi inderogabili volti ad assicurare un determinato livello minimo di civiltà urbana su tutto il territorio nazionale, (salvo difformi previsioni relative alle Regioni a Statuto speciale)”. Ciò premesso il Tar Lazio sottolinea, peraltro, che

“rimane aperta la questione (…) se la predetta previsione di legge debba ascriversi nell’ambito della potestà legislativa esclusiva di cui al comma secondo, lett. m, dell’art. 117 della Costituzione che ha riservato a tale potestà legislativa la ‘m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale’, o, invece, debba raccordarsi al terzo comma del medesimo art. 117 Cost. che ascrive alla legislazione concorrente Stato – Regioni ordinarie il ’governo del territorio ... ‘, nell’ambito della quale ‘ ... spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato’”.

309 Al riguardo vedi E.BOSCOLO, Standard e poteri regionali, cit., in particolare p. 445 e p. 457, il quale, come già richiamato, sottolinea che “in carenza di un atto statale ai sensi dell’art. 117, II comma, lett m), Cost (…) di determinazione di livelli essenziali minimi delle dotazioni territoriali in termini strumentali rispetto ai livelli delle prestazioni del welfare urbano, l’unico principio generale pare essere la necessità che degli standard siano normativamente previsti, indipendentemente dalla fonte normativa, nazionale o regionale …”.

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stesso decreto, la Corte costituzionale ne ha affermato l’inderogabilità ad opera della normativa regionale (salvo apposita previsione statale) in quanto rientranti nella materia “ordinamento civile” di competenza legislativa esclusiva dello Stato310.

1.2. Gli standard urbanistici relativi agli spazi pubblici nel decreto ministeriale n. 1444/1968 Nel dettaglio, il decreto ministeriale n. 1444/1968, in attuazione dell’art. 41 quinquies della legge n. 1150/1942, dopo aver definito le zone omogenee in cui il piano regolatore deve ripartire il territorio comunale, stabilisce i rapporti massimi che gli strumenti urbanistici devono assicurare tra spazi destinati ad insediamenti residenziali o produttivi (industriale o commerciale-direzionale) e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi.

L’obiettivo della previsione è quello di evitare che l’interesse privato al massimo sfruttamento edilizio delle aree prevalga sull’interesse generale degli abitanti e dei frequentatori della città al godimento ed alla fruizione di spazi di uso collettivo e sociale.

In particolare l’art. 3 del Dm stabilisce che, per gli insediamenti residenziali, i rapporti massimi tra gli spazi ad essi destinati e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, “sono fissati in misura tale da assicurare per ogni abitante – insediato o da insediare – la dotazione minima inderogabile (complessiva), di mq 18” di spazi pubblici e destinati ad attività collettive, con esclusione delle sedi viarie. Lo stesso articolo 3 riferisce i predetti 18 metri quadrati a diverse utilizzazioni specifiche: mq 4,50 di aree per l’istruzione (asili nido, scuole materne e scuole dell’obbligo), mq 2 di aree per attrezzature di interesse comune (religiose, culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative, per pubblici servizi ed altre);

mq 9 di “spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade”311 e mq 2,5 di aree per parcheggi.

Se dunque l’art. 7 della legge urbanistica del 1942 distingue le aree a destinazione pubblica

310 Sul tema, vedi Corte costituzionale, 8 giugno 2005, n. 232, 11 maggio 2011, n. 173, 7 maggio 2012, n. 114, 16 gennaio 2013, n. 6, 10 marzo 2014, n. 46 e, più di recente, 6 luglio 2016, n. 178.

311 Sull’art. 3 del Dm, la sentenza Tar Abruzzo, sez. Pescara (sez. I), 7 aprile 2008, n. 378 sottolinea che, “il Dm 2 aprile 1968, n. 1444, nel determinare e nell'individuare gli spazi pubblici riservati a verde pubblico ed a parcheggi, prevede espressamente all'art. 3, che tali spazi debbano essere ‘effettivamente utilizzabili’, ‘con esclusione di fasce verdi lungo le strade’. In altri termini, gli spazi pubblici in questione debbono essere localizzati in modo tale da consentire una loro piena utilizzazione da parte della generalità degli utenti: cioè, per un verso, le aree destinate a verde pubblico attrezzato debbono avere una dimensione tale da poter essere proficuamente utilizzate dalla generalità degli utenti per il gioco e per lo sport e non debbono risolversi in ‘spazi di risulta’ esclusivamente posti a servizio dei fabbricati, per altro verso le aree destinate a parcheggio pubblico debbono essere localizzate in modo tale da consentire alla generalità dei cittadini di accedervi”. Su tale sentenza vedi A.DI MARIO, Il verde urbano avanti il giudice amministrativo, in Urb. app. n. 8, 2008.

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o collettiva tra quelle da “da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico e ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale” (c. 2, n. 4) e quelle “destinate a formare gli spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù”, facendo in tal modo intendere che le aree a spazio pubblico (di uso pubblico) siano – come in effetti insegna la teoria urbanistica312 - quelle non impegnate (o quantomeno non impegnate in misura significativa) da edifici, opere ed impianti, l’art. 41-quinquies introdotto successivamente nella stessa legge e il relativo decreto attuativo si concentrano maggiormente sugli usi pubblici e collettivi specifici cui le aree devono essere destinate. In questo caso, però, i testi normativi impiegano il termine spazi sia per indicare aree da occupare con edifici a destinazione collettiva (strutture scolastiche, sanitarie, religiose, culturali, etc.) sia per riferirsi ad aree da approntare per determinati usi, ma destinate a rimanere prevalentemente libere da edifici; inoltre, anche con riferimento a queste ultime, distinguono, non del tutto chiaramente, “spazi pubblici”, “spazi riservati …. a verde pubblico”, “spazi pubblici attrezzati a parco, per il gioco o per lo sport” (oltre che “spazi riservati … a parcheggi”).

Ancora con riferimento agli insediamenti residenziali, il decreto ministeriale stabilisce poi norme specifiche e differenziate sulle “quantità minime di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (art. 4), in base alle diverse zone territoriali omogenee ed alle differenti situazioni obiettive. In particolare con riferimento alle zone A (agglomerati urbani di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o porzioni di essi) e B (parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A), in cui non è facile rinvenire aree disponibili, salvo operazioni di ristrutturazione, la dotazione minima complessiva di spazi pubblici e destinati ad attività collettive è dimezzata a 9 mq per abitante (art. 4, comma 2, ultimo periodo).

L’art. 4 prende poi in considerazione i casi in cui si dimostri l’impossibilità di raggiungere le quantità minime di spazio, anche nella misura ridotta, dettando specifiche norme. Per quanto concerne le zone A, nei casi di indisponibilità di aree idonee ovvero di ragioni di rispetto ambientale e di salvaguardia delle caratteristiche, della conformazione e delle funzioni della zona stessa, l’amministrazione competente deve precisare come siano altrimenti soddisfatti i fabbisogni dei relativi servizi ed attrezzature. Per le zone B, qualora non vi siano aree idonee, gli spazi vanno individuati “entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle adiacenze immediate”

ovvero su “aree accessibili tenendo conto dei raggi di influenza delle singole attrezzature e della organizzazione dei trasporti pubblici”. Per le zone C, che sono le parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, la quantità minima deve, al contrario, essere assicurata integralmente;

312 Si rinvia qui nuovamente a F. PURINI, Spazio pubblico, in Enciclopedia italiana, cit., ove emerge che lo spazio pubblico, dal punto di vista fisico-materiale, è anzitutto un vuoto, ma un vuoto, liberamente accessibile, che mette in comunicazione le diverse parti ed aree della città e i suoi cittadini.

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sono però stabiliti, da un lato, parametri quantitativi inferiori per nuovi complessi insediativi a bassa densità fondiaria e per piccoli Comuni, dall’altro, parametri quantitativi maggiori per zone contigue ad aree con particolari connotati naturali, storico-artistici o archeologici313.

Infine l’art. 4 stabilisce parametri quantitativi specifici anche per le zone del territorio destinate ad usi agricoli (zone E) e per quelle destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale (zone F)314. Per queste ultime è prevista, tra l’altro, una dotazione di 15 mq/abitante per parchi pubblici urbani e territoriali.

Il decreto (art. 5) fissa standard urbanistici anche per gli insediamenti industriali, nel qual caso gli spazi pubblici e destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi sono commisurati alla superficie complessiva adibita ad uso produttivo o commerciale/direzionale.

Nel complesso i parametri stabiliti dal dm del 1968 sono intesi come standard minimi che l'amministrazione comunale, ferme restando le variazioni consentite dal decreto stesso, è obbligata a rispettare potendo tuttavia incrementare la quantità di spazi ad uso della collettività315

313 L’art. 4, c. 3 del dm n. 1444/1968 fissa in 12 mq per abitante la quantità minima di spazi pubblici (latamente intesi) in caso di nuovi complessi insediativi con densità fondiaria inferiore a 1mc/mq e, in generale, per i Comuni nei quali la popolazione prevista non superi i 10 mila abitanti. La stessa disposizione prevede inoltre una dotazione superiore (15 mq ab.) di spazi attrezzati a parco, per il gioco e per lo sport nei casi in cui le zone C siano contigue o in diretto rapporto visuale con particolari connotati naturali del territorio (quali coste marine, laghi, lagune, corsi d'acqua importanti; nonché singolarità orografiche di rilievo) ovvero con preesistenze storico-artistiche ed archeologiche.

314 Per quanto concerne le zone F vedi la precisazione di L.MAZZAROLLI, Piano regolatore generale, in Digesto discipl. pubbl., 1996, con aggiornamento a cura di M.P.GENESIN (2011), par. 9. L’Autore sottolinea infatti che l’utilizzo del termine zona in questo caso risulta improprio in quanto non fa riferimento ad aree afferenti ad una zona territoriale omogenea ma agli “spazi sui quali vengono localizzate opere e impianti pubblici o di pubblico interesse, di cui è parola al n. 4 dell'art. 7 della legge urbanistica (nella formulazione conseguente alla novella del 1968)”.

315 Si consideri, però, che secondo la giurisprudenza, mentre gli atti di programmazione delle aree per attrezzature e servizi pubblici in misura minima, ai sensi dell’art. 41 quinquies della legge n. 1150/1942 e del Dm 2 aprile 1968, sono atti dovuti al fine di realizzare i rapporti di legge tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o destinati ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2002, n. 6109), il superamento dei minimi, ove raggiunga particolare consistenza, deve essere adeguatamente motivato.

In proposito, vedi anche Tar Molise, Campobasso, Sez. I, 22 dicembre 2005, n. 1219: “Com'è noto, in giurisprudenza (cfr. C.di S IV Sez. 25.7.2001, n. 4078), si è affermato che in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell'Amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali - di ordine tecnico-discrezionale - seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni. Tra le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali è stata indicata dalla giurisprudenza anche quella del superamento degli standards minimi di cui al Dm2 aprile 1968, ancorché con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni