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Prima della Seconda Guerra Mondiale i paracadute erano stati prodotti soprattutto con seta giapponese e altri materiali dal peso leggero. In seguito il rifornimento di questi materiali venne meno e si dovette urgente- mente trovare una soluzione, tra cui l’utilizzo del nylon. L‘impresa americana DuPont, nel 1939, produsse tutto il nylon possibile, tuttavia durante la guerra il rifornimento fu scarso. Per questo motivo il Dipartimento per la Produzione Militare del Governo Americano istituì una commissione speciale per lo studio delle fibre artificiali ed in particolare del poliestere prodotto in Inghilterra. Mentre la DuPont era completamente impegnata a fabbricare nylon, si decise di dare l‘incarico alla Eastman Chemical Company che divenne la prima produttrice di poliestere. Nel 1941 il poliestere fu impiegato per la prima volta nella produzione di fibre e negli anni cinquanta il mate- riale denominato «Trevira» o «Dralon» divenne subito un simbolo nell‘industria tessile.

Questo materiale appena scoperto caratterizzò l‘industria dell‘abbigliamento per molti anni. Gli anni Cinquan- ta e Sessanta furono l‘era di pullover multicolori, pantaloni facili da trattare e camicie che non si stiravano. Se il PET, resina termoplastica della famiglia dei poliesteri, era stato inventato nel 1941,per usi principal- 1.2 - Carbonated Soft Drinks

per l’industria alimentare e gli enormi vantaggi nel renderlo un materiale adatto per contenere liquidi. Da qui l’invenzione della bottiglia di plastica in polie- tilene tereftalato (PET) nel 1973.

Evoluzione

Negli anni Sessanta le aziende produttrici di bibite gassate erano costrette a confezionare le loro bevande in bottiglie di vetro, e non nelle più economiche e leggere bottiglie in polipropilene, un polimero termoplastico dai molteplici impieghi.

E’ la fase in cui esiste sostanzialmente un’unica bottiglia di vetro, un’unica forma standardizzata che si fa supporto per etichette che si piegano alle strutture comunicative delle singole marche, in un’unica concessione sul piano della comunicazione comportava l’inserimento del marchio a rilievo sul corpo della bottiglia.

Quest’ultimo era un segno che garantiva l’appartenenza del contenitore al marchio impresso all’interno del circuito chiuso di riutilizzo dell’imballaggio, secondo la formula del vuoto a rendere. Andò affermandosi, al contrario, il vuoto a perdere, espressione usata anche in senso figurato per indicare una cosa senza un particolare valore, che nessuno intende riprendersi.

La scoperta di Wyeth avviene quasi casualmente durante un esperimento domestico. L’inventore, curioso delle proprietà del nuovo materiale,riempì di ginger ale una bottiglia di detersivo vuota, allora realizzata in polipropilene, e la ripose in frigo. Durante la notte la bottiglia si gonfiò a dismisura, tanto da scoppiare: le frizzanti bollicine della bevanda, effetto dell’addizione di anidride carbonica, produssero una pressione che il polipropilene non poteva contenere. Wyeth, non convinto della bontà del materiale finora utlizzato, risolse definitivamente il problema impiegando, al posto del polipropilene, il PET, le cui

fibre venivano allungate e quindi rese più resistenti alle deformazioni indotte dal contenuto gassoso, grazie all’uso di uno speciale stampo4. Si può considerare questa la fase iniziale di sperimentazione sul PET che portò verso la metà degli anni ‘70 alla distribuzione sempre più massiccia nel mercato, un passaggio cruciale per l’evoluzione del settore beverage. Un’innovazione che trasformò poco a poco l’intera gamma dei contenitori per bevande contribuendo a ridisegnarne le shape.

Il compito di determinare l’identità del contenuto non doveva più essere interamente delegato al progetto grafico dell’etichetta, ma iniziava a riguardare anche la forma, trasformata in elemento centrale della struttura comunicativa complessiva, in un momento segnato dall’incremento dei consumi, dalla crescita esponenziale delle marche e dal rafforzamento delle identità.

L’invenzione della bottiglia in PET rivoluzionò il settore degli imballaggi, condizionando anche i consumi. Alleggerire i contenitori permise di creare confezioni più grandi, capaci di accogliere una maggiore quantità di prodotto: un implicito incoraggiamento al consumo casalingo di bevande gassate e liscie.

In breve tempo le bottiglie in PET soppiantarono quelle in PVC, usate già agli inizi degli anni Settanta per l’acqua minerale non frizzante: il PET si dimostrò più resistente e sicuro.

In questi anni anche i quotidiani iniziarono ad interessarsi al

confezionamento di acqua, latte o bevande. I produttori annunciarono l’adozione della nuova bottiglia, ma al tempo stesso parte dell’opinione pubblica si chiese se i contenitori in plastica non rilasciassero sostanze dannose, specialmente dopo la notizia di sequestri cautelativi di acque minerali, gravi perché: «non è sotto accusa il contenuto della bottiglia, ma la bottiglia stessa»5.

Nella prima fase di inserimento nel mercato delle bottiglie in PET, del nuovo imballaggio prevalsero valori quali la leggerezza, l’infrangibilità, la possibilità di realizzare grandi formati per contenere i costi.

Fu una fase di affermazione nella quale l’attenzione era rivolta ai valori funzionali, mentre quelli estetici, così come quelli comunicativi ed ergonomici non erano oggetto di particolare interesse progettuale. Sul piano prettamente formale le nuove bottiglie realizzate in materiale plastico si presentavano come massicci e tozzi cilindri con una capsula a ‘campana’, molto simili ad una tanica per acqua6.

La tecnologia prodottiva dell’epoca non prevedeva parison nè studi per limitare le doformazioni del contenitore sotto sforzo.

5: Livio Burato, Sono all’esame della Sanità le acque minerali sequestrate, “La Stampa”, 15 agosto 1975 6: Vedere immagine 2

Negli anni ‘80, però, il termine marketing cominciò ad imporsi sem- pre più nelle decisioni strategiche delle compagnie imbottigliatrici. L’attenzione per la cura del packaging e delle campagne pub- blicitarie era obbligatoria per la buona strategia di marketing. Da qui la ricerca di soluzioni ottimali per il controllo della forma, le tecnologie più efficienti per le macchine di imbottigliamento e una strategia improntata sulla massiccia propaganda, grazie a campagne pubblicitarie colossali.

I livelli di vendita delle più grandi compagnie di imbottigliamento fece si che queste riuscirono non solo a dividersi fette importanti di mercato, ma anche che riuscirono a far confluire a sè alcuni altri brand minori.

Uno degli esempi virtuosi è il gruppo oggi conosciuto come Pepsico, nato Pepsi-Cola negli anni Settanta, che controlla alcuni nomi fra i più importanti nel panorama internazionale come Acquafina, 7Up, Mirinda, Montain Dew e molti altri.

Il marketing, unito alle sempre più efficienti scoperte tecniche sulla produzione e lavorazione del PET, spinsero verso una sempre più importante ricerca di forme nuove per le bottiglie e di una evoluzione costante del design del packaging, come è possible osservare dalle immagini a lato in cui si confrontano i packaging della Pepsi da 0,5 litri nella sua evoluzione formale e tecnica. Il nuovo Millennio non portò solamente l’attenzione al design bottiglia, ma anche alla sua dismissione.

Se, infatti, le plastiche ricavate dalla lavorazione del petrolio non si potevano distruggere era necessario allora limitarne la produzione, riusando magari quelle esistenti. Il recupero degli scarti rappresentò una prima soluzione e il lessico dell’ecologia diventò così sempre più presente nella vita quotidiana: riciclaggio, raccolta differenziata, biodegradabile, compostabile furono parole

7:Ford ricicla bottiglie, Corriere della Sera del 12 giugno 1993 8: Le immagini di queste pagine rappresentano sommariamente l’evoluzione delle bottiglie di Pepsi dagli anni ‘70 fino ad oggi.

a cui corrisposero nuove abitudini, nuove priorità, nuove mete.

Dagli anni Novanta le multinazionali e i centri di ricerca di tutto il mondo misero a punto metodi sempre più efficaci per trasformare il rottame plastico in materiale riutilizzabile industrialmente. Gli sviluppi applicativi di queste sperimentazioni vennero accolti con entusiasmo dall’opinione pubblica. Un esempio, in questo caso, è quello del “Corriere della Sera” che annunciava nel 1993 un’iniziativa della Ford: ‘Dalla gazzosa ai fari: ov- vero, come trasformare una bottiglia di plastica in componenti per auto’7. Non si tratta dell’ultima frontiera del riciclaggio, ma di un nuovo processo già operativo in alcuni stabilimenti Ford degli Stati Uniti. Un esempio di come il packaging si stava lanciando verso il nuovo Millennio.

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