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La strategia del Mapai: tra immigrazione libera e immigrazione selettiva

Capitolo 2: L’immigrazione di massa in Israele 1948-52

3.2 La strategia del Mapai: tra immigrazione libera e immigrazione selettiva

Nel 1949 il Mapai aveva formato il primo governo, con l’inclusione dei partiti religiosi (Il Fronte Religioso Unito)291 e delle piccole formazioni dei Progressisti e dei Sefarditi, e l’esclusione del concorrente Mapam. Il partito aveva una propria agenda ben definita sia riguardo al governo che alla gestione dell’immigrazione. La sua capacità sarebbe stata valutata sulla base di tre principali indicatori: la tenuta del governo, la gestione dell’immigrazione di massa e la crescita economica del Paese. Le tre dimensioni erano intrecciate tra loro, perché, per mantenersi al governo, il Mapai aveva bisogno di stringere alleanze con le forze politiche che erano in grado di assicurare stabilità al Paese e di controllare direttamente le principali istituzioni politiche e sociali come l’Histadrut e l’Agenzia ebraica. Allo stesso tempo, una buona gestione dell’immigrazione sarebbe stata garantita dalla diffusione tra i nuovi immigrati di certi standard e dall’incremento delle loro condizioni di vita. Al fine di assicurare entrambe le dimensioni, perciò, puntare su un rapido sviluppo economico ed un innalzamento generale degli standard di vita, era assolutamente prioritario.

Per quanto concerne il dibattito sull’immigrazione, l’intenzione del Mapai era di non scontentare le forze politiche, nemmeno quelle minori, e di favorire un’integrazione rapida e spedita dei nuovi immigrati nel tessuto economico del Paese. L’immigrazione di massa rappresentava dunque una grande opportunità per il Paese: non solo essa rafforzava la sua base demografica, ma soprattutto forniva un’ingente manodopera ad un Paese con pressanti necessità di sviluppo, tra cui spiccavano la mancanza di infrastrutture viarie,

291 Il Fronte Religioso Unito era composto da quattro partiti, di cui due sionisti e due non. Essi

erano: Agudat Israel, Agudat Po’alei Israel, (entrambi non sionisti), ha-Mizrah, ha-Po’el ha- Mizrah (sionisti). Insieme, essi totalizzarono 16 seggi, di cui 10 assicurati dai partiti sionisti e 6 da quelli non sionisti. Per un approndimento sulla strategia e le differenze tra i partiti che componevano il Fronte Unito Religioso, si veda: Fund, Yosef, Perud o histafut: Agudat Yisrael mul ha-’Tsiyonut we Medinat Israel, Gerusalemme, 1999.

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marittime e di trasporto su rotaia, il progetto di irrigare e rendere area agricola il deserto del Negev, l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, l’opera di rimboschimento e trasformazione del paesaggio, la dispersione della popolazione oltre la fascia costiera e l’insediamento nel territorio con la fondazione di nuovi villaggi.

Per avviare lo sviluppo e contemporaneamente integrare centinaia di migliaia di immigrati, il bilancio del giovane Stato non era certamente sufficiente. Ben Gurion avrebbe voluto che fosse il governo a gestire la Grande ‘Aliyah su finanziamenti esteri delle agenzie e dei fondi ebraici, nonché dell’Organizzazione mondiale sionista, ma i finanziatori volevano anch’essi avere una voce nell’assorbimento, finanziando il trasporto degli immigrati nel Paese e gestendo i costi della loro immediata accoglienza. Fu così che l’Agenzia ebraica venne eletta a organo deputato a gestire l’immigrazione di massa attraverso i suoi vari dipartimenti (mentre un vero e proprio Ministero dell’Assorbimento non avrebbe visto la luce che nel 1968). Il vero problema, però, era che l’Agenzia ebraica non vantava alcuna esperienza in materia di assorbimento di immigrati. Essa aveva storicamente svolto funzioni fondamentali e assolutamente di rilievo nell’Yishuv, rappresentando di fatto l’esecutivo dell’autonomia ebraica in periodo mandatario, ma la sua attività si era concentrata sugli insediamenti, la colonizzazione della terra e, solo in un secondo momento, l’immigrazione e l’emigrazione clandestina.

L’assorbimento degli immigrati nel periodo mandatario non era stato oggetto di una vera e propria disciplina o di una strategia statale o parastatale: gli immigrati arrivavano in numeri ridotti e venivano assorbiti nel Paese secondo canali di affiliazione nazionale o anche attraverso il contatto e la militanza nei vari movimenti sionisti. Nel caso della

Grande ‘Aliyah, per le ragioni enunciate in precedenza, questo modello non era

replicabile. Innanzitutto, la creazione di uno stato aveva fornito all’Agenzia ebraica nuovi poteri e nuove possibilità di operare in modo integrato, in secondo modo, la quantità di immigrati condotta nel Paese in soli tre anni non aveva precedenti nella storia del Paese e gareggiava soltanto con l’immigrazione di massa nei primi anni del ‘900 negli Stati Uniti. Inoltre, i nuovi immigrati, o per essere arrivati allo stremo delle proprie forze, essendo a stento sopravvissuti nei campi di concentramento e sterminio, o originari di Paesi che non avevano nessuna o scarsa rappresentanza nazionale nell’Yishuv, non potevano essere abbandonati a sé stessi ed all’iniziativa personale o politica, così com’era stato fatto in

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passato. Essi presentavano una composizione sociale diversificata, inclusiva di bambini, anziani, malati anche persone affette da disabilità gravi.

Né, per altro, disinteressarsi del processo di assorbimento sarebbe stato nell’interesse dello stato e tanto meno del Mapai, che, invece, intendeva svolgervi un ruolo di tutto rilievo, il che voleva anche dire farsi carico del processo dallo sbarco nel Paese fino a che l’integrazione potesse dirsi conclusa soddisfacentemente (ovvero quando l’immigrato, secondo la formula generalmente adottata, fosse stato capace “di stare in piedi da solo”). L’Agenzia fronteggiò l’emergenza inaugurando un dipartimento al proprio interno deputato all’assorbimento, con funzioni di guida e consulenza per la prima accoglienza. Tale sezione era guidata da Giora Josephtal, una delle figure che più modellarono e influenzarono le politiche governative verso gli immigrati292. La Sezione si sarebbe poi rapidamente trasformata in un Dipartimento autonomo dell’Agenzia, con il compito di allestire i campi di prima accoglienza, dove almeno fosse offerta una sistemazione d’emergenza e le prime cure mediche. Venivano così inaugurati i primi campi di accoglienza, tra cui quello di Sha’ar ‘Aliyah nei pressi di Haifa, sarebbe stato il più grande e famoso293. Ancora in quei giorni, però, Josephtal osservava candidamente che “non esisteva un (vero) programma per l’assorbimento, né un budget, né esperienza294”, con

questo intendendo tanto a livello del governo che dell’Agenzia.

I campi si trovavano quasi tutti concentrati nella parte settentrionale del Paese, in particolare vicino al porto di Haifa che era l’unico approdo delle navi-passeggeri e cargo internazionali, e nel centro del Paese, che costituiva l’area più sviluppata e attrezzata. In tutto erano ventiquattro i campi nel marzo del 1949, ma di nuovi minori ne venivano

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Giora Josephtal era uno “yekke”, ovvero un ebreo tedesco, immigrato in Israele appena prima lo scoppio della Seconda guerra mondiale (1938). Fu mmbro dell’Esecutivo dell’Agenzia ebraica e a capo della sezione assorbimento, e poi Segretario generale del Mapai (1956-59) e ministro del lavoro (1959), degli alloggi e dello sviluppo-(1961).

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I campi di prima accoglienza erano stati allestiti nei vecchi accampamenti militari inglesi, le cui baracche erano ancora in piedi nonostante gli inglesi avessero cercato di smantellarli prima di doverli abbandonare. Si veda Segev, cit., p.124.

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Halpern, B., Wurm, S., The responsible attitude: life and opinions of Giora Josepththal., New York, 1967, p.18

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aperti continuamente per far fronte ai continui arrivi295. Si trattava di strutture recintate con filo spinato e quasi completamente isolate e impenetrabili dall’esterno, dal momento che vi si poteva accedere solo su permesso delle autorità del campo. Nei campi erano allestite tende e capanne di latta che potevano ospitare sia famiglie sia persone singole, e tende più grandi che svolgevano la funzione di sale-mensa o infermerie. Venivano serviti i pasti e fornite cure mediche e inizialmente si prevedeva che la durata del soggiorno di ogni immigrato non dovesse superare le sei settimane. Le previsioni delle autorità in materia, però, si rivelarono fin troppo ottimiste e già nel 1949 erano necessarie più di dodici settimane per trovare una sistemazione permanente ad ogni immigrato.

Le condizioni di vita nei campi non erano semplici, sia per il sovraffollamento che vi si veniva regolarmente a determinare, sia per le condizioni igieniche, ma anche perché i nuovi immigrati -ed in particolare i sopravvissuti della Shoah- risentivano delle condizioni di precarietà, ammassamento, dell’anonimato, delle limitazioni alla libertà individuale e dello spazio personale, che ricordavano loro le penose esperienze maturate nei campi di concentramento296. Gli immigrati dei Paesi arabi e islamici, invece, risentivano soprattutto delle condizioni metereologiche e della precarietà di una vita quotidiana incerta ma contemporaneamente immobile, dove i padri famiglia erano condannati all’ozio ed alla disoccupazione e impossibilitati a mantenere sé stessi e le proprie famiglie, e i lo figli non avevano accesso a scuole. Tutti i nuovi immigrati, inoltre, indipendentemente dall’origine, risentivano del problema del razionamento dei generi alimentari, dovuto alla scarsità degli approvvigionamenti, problema che iniziò ad emergere dall’agosto del 1949297

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295 La concentrazione più ampia di campi era in Pardes Hanna, che ne ospitava quattro, con una

poplazione di più di 15.000 persone. Dopo veniva Be’er Ya’acov con tre campi ed una polazione di diecimila persone e poi Hadera con una di 6.500. Altri campi di medie dimensioni erano operativi nei sobborghi di Haifa, Adit, Nethanya, Binyamina, Ra’anana, Beit Lid e Rehovot. La fonte d questo paragrafo è rinvenibile in HaCohen, Dvora, Immigrants in turmoil: Mass Immigration to Israel and Its Repercussions in the 1950s and After, Syracuse University Press, New York, 2003.

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Un sopravvissuto dell’Olocausto ebbe a dire: “..per otto anni abiamo mangiato con migliaia di persone in lunghe tavole: quattro anni in un campo di concentramento, tre in un campo per rifugiati interni e ora in un campo in Israele. I miei bambini non hanno mai saputo cosa sia una casa.” (Abrams, Charles, “Israel grapples with its housing crisis: the new state’s number one problem”, Commentary, Aprile 1951, p.347)

297 Sul problema della scarsità dei generi alimentari nei campi, si veda il verbale dell’Esecutivo

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Eppure in tali campi, nonostante le proteste contro gli uffici dell’Agenzia ebraica che avevano sovente luogo, l’atmosfera psicologica era ancora positiva, perché era diffusa la convinzione che si trattasse di un’esperienza a termine, che si sarebbe presto chiusa per lasciare il passo ad un’occupazione stabile ed un alloggio permanente.

Se le autorità israeliane avevano puntato sull’immigrazione di massa, non avevano però saputo quantificare quante migliaia di persone sarebbero arrivate nel Paese, e soprattutto a quale ritmo: la popolazione si sarebbe raddoppiata e senza che le autorità predisponessero di un piano accurato per gestirla298. Nel corso dell’anno 1949, che registrò un’impennata massima degli arrivi (pari a 240.000 persone), si raggiunsero punte anche di mille immigrati al giorno: un carico ingestibile, che andò a pesare e condizionare gravemente le condizioni già difficili prevalenti nei campi299.

L’emergenza si sarebbe ulteriormente accentuata nei due anni successivi, con l’arrivo rispettivamente di altre 170.000 e 175.000 persone nel 1950 e nel 1951. Le proteste organizzate spontaneamente nei campi attrassero l’attenzione dei giornali, che fecero da cassa di risonanza di quello che avveniva in aree altrimenti remote e nascoste all’opinione pubblica del Paese. Il quotidiano indipendente Ha’aretz, quello della sinistra comunista

Ha-Mishmar e quello del partito revisionista Herut Ha-Mishkaf, concorsero tutti nel

criticare le misure adottate dall’Agenzia ebraica nei campi, e, indirettamente, la politica del Mapai sull’immigrazione.

Per esempio, Ha-Mishmar diede notizia della manifestazioni di protesta organizzata nel campo di transito di Netanya, che avrebbe dovuto ospitare 1.100 persone e invece ne

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L’abolizione delle restrinzioni sul’immigrazione era stato uno degli obiettivi centrali della politica sionista, ma fino a un momento relativamente precedente, non vi fu una pianificazione per realizzarla. Soltanto quattro mesi prima l’indipendenza, nelle due date del 14 e del 21 gennaio, venne convocato un sottocomitato del Comitato Centrale del Mapai (chiamato a) formulare le politiche di immigrazione e assorbimento da implementare dopo il 15 maggio. Alla base della discussione vi era la convinzione che sarebbero arrivati 150.00 immigrati in due anni, mentre solo uno o due dei partecipanti pensò nei termini di 250.000, nessuno ebbe il coraggio di predire che mezzo milione di persone sarebbe arrivato entro la fine del 1950” (Stock, Ernest

,

Chosen instrument, The Jewish Agency in the first decade of the State of Israel, Herzl Press, NY, 1988, p. 74) Si veda anche il documento: Mapai, Resoconto dell’incontro del comitato sull’immigrazione e l’assorbimento, 14 e 21 gennaio 1948, Archivio del Partito laburista di Israele, Bet Berl.

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ospitava 3.200300, mentre Ha’aretz riportava la notizia di una manifestazione di duecento disoccupati di Ramle che avevano condotto la loro protesta fin nel cuore di Tel Aviv, affinché le loro richieste fossero portate all’attenzione nazionale, sfilando di fronte a tutte le sedi dei dipartimenti dell’Agenzia ebraica deputati all’immigrazione, agli alloggi ed all’assorbimento. Un’altra manifestazione riguardò i disabili per l’erogazione di servizi sanitari e cure mediche nei campi, una più violenta ebbe luogo ad Haifa, nel campo di Tel Hanan301. Ha-Boker, il giornale dei Sionisti Generali, tradizionalmente critico nei confronti degli scioperi, dava notizia che la polizia aveva fatto quindici feriti tra i disoccupati che protestavano di fronte alla Knesset nel luglio del 1949 al grido di “pane e lavoro”. Essi si erano assemblati di fronte al Parlamento sollevando cartelli in ebraico e francese302, che riportavano le seguenti invocazioni: “Dateci lavoro, oppure dateci il permesso di uscire dal Paese.” Il cronista riportava che, quando la polizia era intervenuta per sgombrare i manifestanti, essi avevano gridato agli agenti “Gestapo” e “Hitler”, ma che il capitano aveva dato ai suoi uomini esplicito ordine di non replicare agli insulti e di portare avanti lo sgombero303. Addirittura, nel settembre del 1949 vi era stato un fallito attentato alla Knesset da parte di un nuovo immigrato (mizrahi) iraniano, sebbene il gesto non fosse stato motivato da intenti politici. ma piuttosto da un disagio psichico personale304.

Nel 1951, quando il regime di austerità era stato già abrogato, si ebbe una manifestazione di massa irachena nella ma’abara di Sakieh, nei dintorni di Tel Aviv, durante la quale per la prima volta i nuovi immigrati iracheni parlarono apertamente di “discriminazione di razza” nello Stato ebraico. La manifestazione si tenne davanti ai locali dell’Agenzia ebraica e gli immigrati sfilarono e si accamparono di fronte all’edificio lamentando di

300 Ha-Mishmar, 16/3/49. 301 Ha’aretz, 28/4/49. 302

E’ indicativo che i cartelli fossero scritti anche in francese: sia perchè evidentemente si trattava di immigrati recentemente pervenuti nel Paese, sia perché testimonia della loro provenienza quasi certamente dai Paesi del Maghreb.

303

Ha-Boker, 27/7/49, ISA, serie C 1/9,file n.22706.

304 “Abraham Tsfati, il ventiquattrenne che, l’ultimo giorno di sessione della Knesset, ha tentato

tramite un attentato di “colpire” il pubblico in Israele. (..) Ha dichiarato che egli non voleva attentare alla Knesset , ma suicidarsi (in segno di protesta) finché Gerusalemme non sia la capitale dello stato di Israele e il Tempio possa essere ricostruito.” Zfati ha avuto un’infanzia difficile, ed è uno dei cinque bambini di Tehran.” (Yahdut hadashot, “Nach dem Attenatsversuch in der Knesseth”, 14/9/49, ISA, C 1/8, file n. 22706.)

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esser stati relegati a cittadini di seconda classe, i cui bisogni e richieste venivano trattate con condiscendenza piuttosto che prese sul serio. Il pretesto per la manifestazione era stata la mancata rappresentazione degli ebrei iracheni nel consiglio locale della loro ma’abara di appartenenza, nonostante essi costituissero la maggioranza netta della popolazione del campo. L’episodio rese evidente il fatto, però, che le richieste provenienti dalle manifestazioni e dai presidi non riguardavano più soltanto la sopravvivenza, ma cominciavano anche a investire il tema del lavoro e delle relazioni intercomunitarie all’interno del Paese305

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Non erano, dunque, scarsi gli episodi di ribellione e protesta nei campi, che pure così poco sono filtrati nella consapevolezza storica del Paese, il quale ha tramandato l’immagine di una massa informe di immigrati passivamente in attesa di un destino deciso sulle loro spalle.

In alcuni casi scoppiarono anche scandali legati a investimenti e scelte sbagliate o speculazioni sulle condizioni dei campi compiute da dirigenti e istituzioni. Nell’aprile del 1949, ad esempio, destò scalpore- e se ne ebbe eco sui giornali- il fatto che invece di costruire in loco capanne per immigrati, fossero stati importati prefabbricati in legno dalla Svezia, ovviamente a costi molto più ingenti. In particolare, tale operazione aveva prestato il fianco agli attacchi dei Sionisti Generali e di altre forze politiche nei confronti del Mapai, accusato di costituire un’elite irresponsabile e privilegiata che speculava sui bisogni degli immigrati306. Il fatto era risultato particolarmente impopolare in tempi di crisi, in cui era stata dichiarato e imposto un regime di austerità che costringeva i cittadini al razionamento anche dei generi alimentari di prima necessità307.

305 Schechtman, cit.,p.18. 306

Sulla questione che sono stati portati prefabbricati dalla Svezia. (...)Il deputato Sarlin (Sionisti Generali) “(...)Gli immigrati hanno caldo d’estate nelle capanne e pioggia in autunno. Vi sono anche difficoltà dettate dal governo: come nell’importazione di prodotti tessili dall’estero e di prefabbricati dalla Svezia: perchè li hanno portati? Per aumentare la disoccupazione?”(...) Qualcuno tra i giornalisti ha risposto: “I prefabbricati sono stati portati dala Svezia (solo) per dare a qualcuno la giustificazione per compiere viaggi all’estero”.(Yediot Ahronot, 18/4/49, ISA, serie C1/9, “Meri Vilner, “Ba’al Me-Zafon-Coscienzioso ”).

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Aumentano i prezzi di 24 generi alimentari”, titolava la prima pagina di Ha’aretz del 29/4/49. Il programma di austerità fu lanciato dal ministro per le Riserve e il razionamento Dov Yosef il 25 aprile del 1949. Il Ministro si era prefisso l’obiettivo di calmierare l’inflezione crescente che aveva comportato continui rialzi nell’indice del costo della vita. Per controllare i prezzi, il Ministero

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Si era registrato, infatti, un picco di inflazione dal 1947 al 1949. Nella primavera del 1949, la bilancia commerciale israeliana toccò un picco negativo, essendo eccessivamente sbilanciata a favore delle importazioni e avendo accumulato un deficit tale che il Paese non riusciva quasi più a pagare gli approvvigionamenti di materie prime e quelli alimentari, in cui era in larga parte dipendente dall’estero. L’economista Ben Hazman scrisse in merito della crisi che “non vi era un modo per risolvere i problemi economici, ma solo un piano. Poiché vi era scarsezza di moneta, vi era anche scarsezza negli approvvigionamenti e tale scarsezza comportava un regime di austerità e razionamento, tanto nel campo dei generi alimentari, che in quello dei bisogni delle varie industrie.308” La scarsezza di moneta causava mancanza di liquidità per l’acquisto dall’estero di beni primari come materie prime, armi ed alimenti dalle cui importazioni Israele era allora dipendente: il Governo dovette di conseguenza ridurre il volume complessivo delle importazioni, causando inflazione sui prezzi dei prodotti disponibili in quantità minori sul mercato interno.

Il piano di austerità era contestato sia dal Mapam che dai Sionisti Generali, anche se per ragioni opposte: il primo temeva che avrebbe diminuito i salari e impedito la loro crescita; il secondo partito, invece, credeva che il piano avrebbe ostacolato l’iniziativa privata e penalizzato le classi medie. Nel frattempo, mentre il governo cercava di accentrare l’economia e imporre un tetto alle importazioni ed ai consumi, fioriva parallelamente il mercato nero, dove si potevano trovare tutti i prodotti a prezzi maggiori, (ma) senza il bisogno di coupon, né filtri della burocrazia309.

Il regime d’austerità creava numerose tensioni, e in più di un’occasione il primo ministro Ben Gurion dovette dichiarare che “l’austerità non è un fine in sé stessa. (..) (soprattutto se) l’austerità e la diminuzione dei prezzi non sono utilizzate per aumentare la produzione, ma per ridurla..” Ben Gurion mostrava una qualche criticità nei confronti del piano, che veniva principalmente attribuito ed identificato con il ministro delle finanze Dov Yosef. Su di lui, personaggio inviso ai nuovi immigrati, circolavano varie barzellette

annunciò che da quel momento in poi il governo avrebbe pianificato la distribuzione di cibo e anche altri beni. (Israel Economic Bulletin, seconda metà dell’aprile 1949, pp.10-11)

308 Ben Natan, N., “Zané-L’austerità”, Moled, vol. 3 (gimel), ap. 14, Maggio 1949, p.74. 309

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umoristiche,come la seguente: “Dov Yosef torna a casa per il pranzo e la moglie gli mette