• Non ci sono risultati.

Teorie sull’immigrazione: il dibattito culturale e la percezione delle

Capitolo 2: L’immigrazione di massa in Israele 1948-52

3.1 Teorie sull’immigrazione: il dibattito culturale e la percezione delle

3.3 I piani di assorbimento di breve termine: la confisca delle case arabe e le

ma’abarot

3.4 I nuovi immigrati tra ma’abarot, moshavim, kibbutzim e moshvei ovdim (1950)

3.5 L’assorbimento visto dagli immigrati: l’esperienza dei campi e dei villaggi agricoli

124

3.1 Teorie sull’immigrazione: il dibattito culturale e

la percezione delle elites

L’‘aliyah di massa degli anni 1948-52 fu un evento che modificò profondamente la società israeliana e che sconvolse e rivoluzionò la vita di migliaia di ebrei sradicati dai propri Paesi di origine. Questi si trovarono a dover affrontare una nuova pagina della loro vita in una terra a cui erano moralmente, ideologicamente, politicamente o religiosamente legati, senza averne, però, alcuna conoscenza diretta. Troppo spesso tale periodo è stato studiato dal punto di vista delle istituzioni statali, delle politiche governative e degli equilibri tra le forze partitiche, meno dalla prospettiva degli immigrati, che pure furono i principali protagonisti del cambiamento in atto. Questo principalmente per due ragione: la prima è che i nuovi immigrati non rilasciarono numerose testimonianze dirette (memorie, diari, lettere e carteggi) attraverso le quali fosse possibile ricostruire la loro esperienza diretta degli eventi e dell’incontro con la società ospitante, la seconda risiede nel fatto è che i nuovi immigrati non furono capaci di esprimere una propria rappresentanza politica o culturale autonoma all’interno della società israeliana. Risulta, perciò, difficile per gli storici attribuire a singoli individui l’autorevolezza di rappresentare delle istanze collettive. É importante, perciò, al fine di restituire il più esaustivamente possibile le condizioni dell’incontro tra società israeliana e nuovi immigrati negli anni cinquanta, richiamare tanto le politiche statali disciplinanti l’immigrazione e l’assorbimento, quanto le risposte e le reazioni diversificate degli immigrati che si sono conservate, indipendentemente dalla rappresentatività degli individui o dei gruppi che le formularono. Negli anni cinquanta, dato il consenso generale che Israele fosse un Paese il cui scopo e finalità ultime rimanevano l’immigrazione di massa di quanti più ebrei possibili e l’eliminazione della diaspora, circolavano diverse teorie sull’assorbimento degli immigrati. Principalmente, esse si rifacevano alla scuola del sociologo Eisenstadt, allievo di Buber ed a capo del primo dipartimento di sociologia inaugurato in Israele presso l’Università ebraica di Gerusalemme. E per primo aveva formulato la teoria sulla modernizzazione della società israeliana. Egli si interessò, in modo comparativo, ai

125

processi di formazione e consolidamento statale e di modernizzazione interna, toccando inevitabilmente in Israele il tema dell’immigrazione di massa, che ne costituiva il banco di prova257.

La teoria della modernizzazione di Eisenstadt poggiava su alcuni assunti: primo, l’’aliyah di massa aveva avuto caratteristiche numeriche e qualitative difficilmente preventivabili dall’Yishuv: ad esempio, a molti ebrei orientali era mancata quella carica ideologica e pionieristica che avevano avuto le precedenti ondate migratorie dall’Europa, data la scarsa diffusione del sionismo nei loro Paesi di origine258; secondo, l’incontro tra “vecchi” e “nuovi” israeliani era avvenuto all’insegna dell’assorbimento e della modernizzazione dei nuovi immigrati: un obiettivo ritenuto necessario ai fini della loro integrazione; terzo, un’integrazione soddisfacente non imponeva ai diversi gruppi etnici di rinunciare alle loro peculiarità linguistiche o comunitarie, ma tali caratteristiche avrebbero dovuto conservarsi a dispetto di rivendicazioni etniche e conseguendo un’uniformità di base almeno in quelle sfere sociali -come la scuola, l’esercito e la cittadinanza- che avrebbero portato ad un’identità nazionale coesa259

.

257

Anche se il suo primo libro risale al 1954, le sue idee e quelle della scuola sociologica che si rifa a lui, erano dibattute e diffuse tramite le riviste scientifiche già dal 1950. La sua principale opera è: Eisenstadt, Shmuel .N., The Absorption of Immigrants, Routledge and Kegan Paul and Glencoe, Free Press, Londra,1954.

258

Qui naturalmente si impone un paragone con il periodo dell’Yishuv. La prima differenza, è una sostanziale differenza numerica nello scopo dell’immigrazione, e allo stesso tempo una proporzione molto più ampia di ebrei orientali nel totale, nonché una loro crescente proporzione sul totale della popolazione israeliana. (...) La maggiorparte di loro vedette in Israele la patria che era pronta a riceverli, un posto dove rifugiarsi e dove (ottenere) sicurezza, e fu pronta adattarsi ad una nuova realtà, ma non era imbevuta di valori sionisti. I temi sionisti (...) che attrassero di più gli immigrati, erano sopratutto (quelli declinabili in termini) nazionali e di sicurezza personale, piuttosto che quelli socialisti, pioneristici o rivoluzionari; i più particolaristi più di quelli universalistici (...) Infine, e strettamente legata alla questione fondamentale dell’assorbimento da parte della società ospitante, fu (...) che la cornice generale del’assorbimento non fu il risultato di un adattamento più o meno spontaneo degli ebrei orientali ad una realtà che era parzialmente loro estranea. Le condizioni furono create volontariamnete dai nuovi centri nazionali, con l’obiettivo dichiarato di assorbire i nuovi immigrati e forgiare una nazione comune. Fin dall’inizio, tutte le strutture- anche le ma’abarot- non furono segregate dal centro, ma incentivate da esso e orientate verso il centro, con le sue premesse, promesse e richieste che tracciavano un paragone continuo con loro (come termine di riferimento) e giudicavano il rendimento del “centro” alla luce di tali premesse e promesse.” (Eisenstadt, On Mizrahi Absorption, p.295)

259

Uno degli aspetti più rimarchevoli fu l’incoprorazione della maggiorparte dei gruppi di immigrati nelle strutture politiche e sociali di base della società isreliana. (Agli immigrati) furono accordati immediatamente i diritti politici e la partecipazione alle elezioni, essi furono ammessi (nei programmi di) educazione generale e incoraggiati a servire nell’esercito. Come risultato, la

126

Eisenstadt, in altri termini, era consapevole della sfida dell’integrazione ed anche dei limiti che essa si sarebbe dovuta porre, pena l’imposizione dell’uniformità a gruppi estremamente eterogenei per lingua, costumi ed abitudini sociali, alimentari e religiose. Tale ammissione, però, non contrasta con la necessità per lo stato di imporre un certo grado di omogeneità in quelle sfere della vita collettiva che definivano l’appartenenza di tutti i gruppi etnici alla nuova nazione che si era creata. Un nazione che, pur non apertamente e orientava la propria azione politica su alcuni principi fondamentali condivisi con le democrazie occidentali, come la parità tra i sessi e l’obbligo scolastico universale.

I primi sociologi israeliani furono, perciò, particolarmente coinvolti dal tema, che era al tempo oggetto di un più esteso dibattito pubblico sui giornali e di un’ accesa contesa tra le forze politiche in parlamento. L’influenza di tale tema , però, sarebbe stata limitata se le teorie sociologiche sulla modernizzazione fossero state confinate all’accademia .esse, invece, furono adottate come parametro di riferimento dal governo, particolarmente su richiesta di Ben Gurion. Il primo ministro era solito, infatti, coinvolgere intellettuali, esperti e professionisti esterni all’esecutivo, per dirimere ed analizzare questioni difficilmente affrontabili dal solo Parlamento, in assenza di una qualsiasi tradizione governativa cui rifarsi. Si era dunque andata consolidando la prassi che il governo potesse consultare ed avvalersi degli accademici dell’Università ebraica- allora la sola istituzione di educazione superiore presente nel Paese, insieme al Technion, quest’ultimo esclusivamente dedicato alle materie scientifiche- per ottenere consulenze su diversi aspetti dell’azione politica. La scuola sociologica, perciò, produsse un paradigma teorico che fin dal suo primo concepimento era orientato all’applicazione pratica e intendeva rispondere ad un bisogno sociale concreto e pressante, all’insegna dell’urgenza.

Le teorie dei sociologi vennero poi semplificate dall’establishment politico, che le traspose in un approccio ed un piano di intervento organico e lineare. L’approccio ideologico fu ispirato al principio di “fusione delle diaspore” (mizug galuyot), sostenuto

maggior parte di loro accettò almeno alcuni dei simboli fondamentali della società israeliana, specialmente quelli relativi ad una nuova nazione ebraico-israeliana, quelli di lealtà verso lo Stato e di una forte identificazione con la sua dimensione di sicurezzza, nonché la sottoscrizione degli aspetti formali del suo sistema politico democratico.(ibidem, p.296).

127

dall’onesta convinzione che il superamento dell’eredità e dei costumi delle diaspore costituisse un fatto esclusivamente positivo260 e che i nuovi cittadini israeliani sarebbero nati dall’esperienza del lavoro agricolo e manuale, dalla rivitalizzazione dell’ebraico, dalla mentalità socialista e pioniera, dall’incontro e dalla fusione di tutte le comunità in una nuova “razza locale”, i sabra, senza più alcuna specificità tribale.

Tutti i nuovi immigrati avrebbero goduto di diritti politici e civili a pochi mesi dall’arrivo, nonostante le ovvie disuguaglianze iniziali. Esse sarebbero state imputabili alle differenti condizioni di partenza ed ai differenti gradi di familiarità con il sistema israeliano degli immigrati al loro arrivo, ma colmabili nello spazio di una generazione. Lo Stato d’Israele avrebbe promosso l’uguaglianza tra tutti i cittadini e realizzato dei programmi di educazione per tutti i nuovi immigrati che necessitassero di maggiore assistenza per colmare il divario iniziale. Il principio-guida alla base dell’intervento statale sarebbe stato l’assimilazione261

di tutti i cittadini ad un modello, quello del sabra appunto, che si riteneva esemplificare le virtù civiche e morali espressione della società veterana262. Un rapporto del comitato di assorbimento esplicitava lo scopo che l’intervento statale si

260

Secondo la celebre espressione di Ben Gurion, “Sono ebrei ed israeliani prima di tutto e, come tali,da ognuno di loro (dei nuovi immigrati, ndr) ci si aspetta che si scordi da dove arriva, così come io mi sono dimenticato di essere polacco.” (Ben Gurion, “Carrying the burden of the State, Molad, n.3, 1949.)

261

Per “assimilazione” si intende: “un processo, nel quale lo Stato si occupa di gestire l’etnicità, cerca di cancellare identità ad esso concorrenti o almeno di relegarle in una posizione di importanza secondaria. Il successo di questa iniziativa permette allo Stato di legittimarsi come estensione politica della nazione, cercando di far corrispondere i confini politici e quelli culturali. Tuttavia, il progetto assimilativo non è indifferente agli interessi di una classe sociale particolare, perché lo stato, dipendente su una soddisfacente accumulazione capitalistica, agisce anche come un fattore di promozione della coesione sociale, che (punta) a ridurre le tensioni di classe. La coesione sociale promossa dallo stato (a sua volta) fornisce una matrice per garantire (a quella stessa classe con cui si identifica lo stato) attraverso la costruzione e la rappresentazione dell’interesse generale. Sostituendo categorie dissenzienti come classe ed etnia con categorie che aspirano all’universalità, come la nazione, lo Stato è in grado di mantenere e legittimare le condizioni critiche per l’accumulazione ed il profitto, e, a sua volta, è dipendente dall’accumulaizone privata per mantenre le sue capacità.” (Ben-Porat, Guy, “The ingathering: Reasons of state, logic of capital and the assimilation of immigrants in Israel 1948-1960, Immigrants and Minorities, n. 22, 2003, p.66.)

262 “Le idee di rinascita nazionale dell’Yishuv erano incentrate su tre elementi: l’uomo ebraico, la

terra di israele e la lingua ebraica. Tutti e tre erano nutriti da un curriculum educativo che enfatizzava lo studio dell’agricoltura, della natura e della geografia locale, della storia della nazione, chiamata Iedi’at ha-Aretz – Conoscere il Paese, così come una conoscenza intima del Paese (ottenuta) attraverso trekking a piedi attraverso di esso.” (Porat, cit., p.73, che cita Zerubavel, Ya’el, Recovered Roots: Collective Memory and the Making of Israeli National Tradition, Chicago, 1994, p.28.)

128

sarebbe dovuto porre: “(Solo quando i nuovi immigrati si sentiranno) parte reale ed indivisibile della nazione israeliana, solo allora, essi accetteranno i doveri che ogni società impone. (..) Devono avvertire l’orgoglio, non l’inferiorità. Devono sentirsi pari cittadini, in diritti e doveri, e devono considerare la ma’abara come un’unità sociale a cui i capi della nazione fanno riferimento nei loro discorsi263”. Anche Ben Gurion si espresse in materia con termini chiari: “Dobbiamo sradicare le barriere geografiche, culturali, sociali e linguistiche che separano i diversi segmenti della società e trasmettere una lingua, una cultura, una (sola) fedeltà, nuove regole e nuove leggi.264”

A questo scopo, Eisenstadt e gli altri sociologi della prima generazione ritenevano che lo Stato non dovesse mostrarsi neutrale rispetto al processo di assorbimento degli immigrati, ma anzi svolgere un ruolo attivo in questo campo, che accelerasse il processo di integrazione dei nuovi cittadini. Tale accelerazione avrebbe potuto essere ottenuta più speditamente combattendo le differenze etniche, minimizzandone l’importanza ed adottando un’enfasi ideologica che puntasse sulla costituzione di un’unità etnica futura (melting pot), piuttosto che sul ricordo e la memoria collettiva di costumi e tradizioni diverse (com’erano quelle della diaspora). L’educazione e, in particolar modo, le scuole statali non religiose e i programmi di alfabetizzazione dei nuovi immigrati portati avanti dall’esercito, dovevano rivestire un ruolo di primo piano in questo processo. Gli immigrati, e specialmente quelli di provenienza dai Paesi arabi ed islamici, erano percepiti come dei “contenitori vuoti” a cui impartire nozioni, non soltanto di lingua ebraica, ma anche sulla cultura occidentale ed i suoi assunti fondamentali. Ove per conseguire un’acculturazione più spedita fosse stato necessario imporre in qualche misura delle abitudini diverse e in contrasto con le tradizioni maturate nei Paesi di origine, tale imposizione sarebbe stata giustificata dall’obiettivo rivoluzionario che la società sionista si poneva, quella di creare “uomini nuovi”, dei cittadini israeliani da una massa eterogenea e poco coesa di ebrei della diaspora. Un rapporto governativo del 1950 citava: “Non possiamo assorbire (i nuovi immigrati, ndr) in Israele senza rivoluzionare le (loro) vite umane. Dobbiamo rompere con il loro stile di vita, cambiare le loro abitudini, le loro

263 Comitato di assorbimento governo-Agenzia ebraica, ISA file n. 6161/242105.

264 Citazione di un discorso di Ben Gurion, Israel State Yearbook- Annuario dello Stato di Israele,

129

lingue e costumi. Dobbiamo produrre questo cambiamento almeno nei giovani, che sono i costruttori, i difensori e i cittadini del futuro Stato di Israele”265.

L’accento posto sui giovani, poi, conteneva un’ambiguità di fondo. Da un lato, infatti, esso tendeva ad esaltare un aspetto centrale, come il ruolo positivo che l’educazione avrebbe potuto svolgere nel facilitare una soddisfacente e paritaria integrazione delle nuove generazioni anche di mizrahim, dall’altro, però, le autorità si prefiggevano esplicitamente l’obiettivo di “strappare” tali giovani dalle culture e, entro limiti più ridotti, anche dalle famiglie d’origine, ritenute responsabili del ritardo e delle resistenze culturali dei giovani “orientali” nell’assorbimento. La cultura giovanilistica, inoltre, era favorita perché in linea con gli obiettivi di rivoluzione culturale tanto individuale che sociale, nonché con quelli alla base dell’ideologia pioniera “della frontiera” e della colonizzazione come sacrificio di sé per il bene comune.

Lo Stato avrebbe dovuto sostenere la coesione sociale anche allo scopo di rendere la nazione compatta contro i propri nemici, che altrimenti avrebbero speculato sulle sue divisioni interne. Israele, in altre parole, non poteva permettersi tempi lunghi d’integrazione ed assorbimento dei nuovi immigrati, né dal punto di vista economico, né tanto meno dalla leva militare

Il fatto che le idee e gli assunti declinati scientificamente dai sociologi fossero poi più largamente diffusi nella società e tra le elites politiche e culturali, è dimostrato da vari scritti di intellettuali, giornalisti, professori universitari di varie discipline, dirigenti dell’Agenzia ebraica e di altre istituzioni statali, che ne condividevano apertamente le premesse. Un esempio tra tutti è un articolo del gennaio-febbraio 1950 di Saul Adler, professore universitario all’Università ebraica e medico, che scrisse un importante articolo intitolato “un esperimento in sociologia”. Il riferimento era all’aliyah di massa ed ai problemi completamente nuovi che essa poneva. Nel testo, egli toccò alcuni punti centrali dell’incontro tra veterani e nuovi immigrati in corso in Israele e, con pretese di oggettività e scientificità, enucleò i nodi che la società israeliana avrebbe dovuto affrontare e sciogliere negli anni immediatamente futuri. É interessante riprodurne alcuni estratti per

265

130

comprendere il linguaggio e le argomentazioni adottate dalle elites culturali dell’epoca circa l’immigrazione di massa.

“Le barzellette sugli “Yekke”, sui “Galiziani”, sui “Franchi, sui ”Sabra”, egli scrisse, “sono talvolta gentili ed altre crudeli, ma sono sempre l’espressione di una sociologia popolare cruda che riconosce che siamo un popolo socialmente eterogeneo. La maggior parte delle nazioni “civilizzate” è composta da un numero di componenti etniche differenti, che col tempo si mescolano in un massa più o meno omogenea. (...) In contrasto con questo modello si trovava Gerusalemme prima della Seconda guerra mondiale. Prendiamo un esempio estremo. Due uomini, un ebreo curdo ed uno aschenazita, lavorano nello stesso cantiere. Entrambi sono membri dell’Histadrut e percepiscono lo stesso salario. Hanno lo stesso obiettivo nella vita, (ovvero), vivere in Israele, e parlano la stessa lingua, l’ebraico, sebbene con intonazioni diverse. A parte ciò, differiscono in tutto. Si consideri ad esempio la loro attitudine verso il genere femminile, un criterio particolarmente utile per le classificazioni sociologiche in Medio Oriente. Per l’aschenazita, l’idea che sua moglie abbia pari diritti è assiomatico; per l’ebreo curdo, questa (stessa) idea non è soltanto rivoluzionaria, ma rivoltante, e l’attuale generazione di ebrei curdi a Gerusalemme non lo permetterà. L’aschenazita si rallegra alla nascita di una figlia, il curdo esprime la sua frustrazione apertamente e può anche rimproverare sua moglie per la sua incapacità di partorire un figlio maschio. L’Aschenazita manda sua figlia scuola e (aspira) anche al suo conseguimento di un’istruzione superiore; il curdo non permette a sua figlia di conseguire un’istruzione superiore e, a volte, nemmeno quella elementare. Io conosco personalmente casi in cui padri curdi hanno severamente proibito alle proprie figlie di imparare a leggere e scrivere. (Sarà interessante vedere come la comunità curda reagirà alla nuova legge sull’istruzione elementare obbligatoria). Altre differenze lampanti sono riscontrabili. L’aschenazita, a differenza del suo collega, legge i quotidiani, compra libri, partecipa a incontri (quasi tutti politici) e, in generale, si dedica ad attività definite, in un certo senso, “culturali”. Tutto questo non implica un giudizio etico, perché sia l’aschenazita che il curdo in questione possono essere due uomini ammirevoli, ma esemplifica come i gruppi (etnici) differiscono fondamentalmente nei loro costumi sociali e nella loro mentalità, anche se vivono e lavorano insieme.266”.

266

131

Adler, come molti altri, non reputava di nutrire dei pregiudizi nei confronti di altri gruppi etnici, ed in particolare nei confronti degli ebrei dei Paesi arabi ed islamici. La sua concezione della classificazione dei diversi Paesi (e delle rispettive comunità nazionali) in moderni e premoderni, era parte della cultura europea dell’epoca e a stento riconoscibile come un limite culturale, nella percezione di coloro che pure erano considerati intellettuali. Egli, infatti, insisteva sul fatto che “il termine Paesi “arretrati” non fosse assolutamente denigratorio, ma implicasse semplicemente che, per varie ragioni, tali Paesi non avevano adottato metodi economici ed industriali moderni”267

. In altri termini, non si trattava di un giudizio etico o morale, ma di una constatazione oggettiva del livello di sviluppo, soprattutto materiale, raggiunto da altre nazioni e valutato secondo i tradizionali canoni eurocentrici ispirati ai criteri del positivismo. Era sotteso, però, a questo giudizio che si voleva poco moralizzante, il corollario che spettasse ai veterani “educare” i nuovi immigrati alla modernità, traghettandoli, nello spazio di una generazione, attraverso due secoli di sviluppo europeo verso l’adozione della modernità, tanto nella vita pubblica che in quella personale e familiare. Solo una volta che la generazione presente, quella degli immigrati “orientali”, avrebbe lasciato il passo alla successiva, sarebbero emersi anche tra le loro fila i nuovi cittadini di Israele. L’espressione pubblica di tale pensiero dominante non era nemmeno mitigata nel dibattito ufficiale, tanto esso era ammesso nella sua apparente innocenza. Il “grande esperimento” dell’‘aliyah di massa rappresentava una prova delle capacità di trasformazione dello stato di Israele e delle sue istituzioni di una massa informe di nuovi immigrati che dovevano, in una corsa contro il tempo, recuperare il più velocemente possibile l’arretramento a cui le condizioni dei Paesi di origine li avevano costretti.

Era questa una posizione condivisa anche dagli intellettuali e dagli esponenti della destra revisionista. Tra questi, spiccava Joseph B. Schechtman, che, sebbene personalmente non avesse mai vissuto in Israele, influenzò enormemente le posizioni del partito Herut nei confronti degli immigrati dei Paesi arabi ed islamici e l’atteggiamento dell’Agenzia ebraica e dell’Organizzazione sionista mondiale, nei cui rispettivi esecutivi ricoprì vari