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Strategie di impegno e peculiarità isolana

La ricostruzione delle attività svolte dai gesuiti nell’isola attraverso la loro corrispondenza ha fatto emergere numerosi aspetti del loro operato e al contempo rivelato le differenti strategie che la Compagnia mise in atto nella gestione delle informazioni riguardanti la vita delle fondazioni sarde e la comunicazione verso l’esterno dell’isola. La scelta dell’autocensura sistematica rispetto ai temi inquisitoriali, il silenzio progressivo sulle questioni missionarie e sul clamore delle indie sarde che accompagnano l’assorbimento di tali attività nella routine operativa, raccontano di scelte programmatiche, ma anche delle caratteristiche peculiari della presenza dei gesuiti nel regno. Come accadde in altri casi sono state le caratteristiche del contesto a guidare lo svolgersi dell’azione pastorale dell’ordine e questo portò le comunità sarde ad essere talvolta distanti dai dibattiti che animarono le altre sparse nel mondo europeo e non. A ben vedere però ci si rende conto che pur trovandosi in un ambito periferico, a distanza dai centri europei più importanti e con grandissime difficoltà a tenere il passo con le novità della vita dell’ordine, i gesuiti isolani vissero per molti aspetti la stessa vita degli altri gesuiti sparsi almeno in Europa e recepirono pienamente le priorità della Compagnia in quel periodo.

La documentazione ha mostrato chiaramente quanto molte delle questioni emerse rispondano a pieno all’ordine del giorno dell’agenda della Compagnia nel resto del mondo. Tali riferimenti rimandano a problematiche quali la difficoltà ad armonizzare le spinte provenienti dalle diverse nazionalità presenti nell’ordine e il tentativo non sempre riuscito dei generali di tenere fede all’ideale di universalità che aveva animato i primi gesuiti; riconsegnano le spesso complesse

463

R. TURTAS, I gesuiti in Sardegna…, cit. p. 57-58.

464

A. RUNDINE, Inquisizione spagnola…, cit., pp. 89-96.

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Nella documentazione cinquecentesca non compaiono grandi riferimenti a queste tematiche. Rimane da riscontrare la presenza di riferimenti nella corrispondenza del Seicento. Se ci fosse un tale riscontro la comparsa seicentesca potrebbe confermare l’ipotesi di una maggiore vivacità di riflessione su temi teologici che nel Cinquecento non c’era.

dinamiche che si innestavano tra il centro e la periferia dell’ordine; raccontano l’articolato rapporto che la Compagnia instaurava con i governi nei vari contesti e la pesante presenza del papato romano; illustrano la crescente problematicità del governo interno dell’ordine attraverso la gestione dei meccanismi di comunicazione, delle situazioni critiche che via via emergevano in seno ad alcune comunità o attorno a temi di notevole spessore dottrinale, nel rapporto con il resto della Chiesa e con i governi.

Questa corrispondenza delle tematiche può mostrare da un lato il carattere relativo della perifericità delle fondazioni sarde, dall’altro la capacità del centro della Compagnia di tenere tutte le sue membra attorno ad una riflessione comune riguardo le vicende complessive dell’ordine e di trasmettere e coinvolgere le zone meno centrali nelle decisioni dei generali. In questo senso si può pensare che il progetto della unità del corpo con le membra, pur con le molte difficoltà legate alla organizzazione di una compagine così complessa, riusciva a dare alcuni frutti almeno nella misura in cui le riflessioni erano condotte attorno a tematiche comuni che toccavano nel vivo i gesuiti sparsi per il mondo. I recenti studi hanno di certo con gli anni contribuito a sgretolare l’immagine di un ordine monolitico, ma sembra plausibile sostenere accanto a questa condivisibile interpretazione, anche l’esistenza di un filo rosso di discussione comune che garantì, pur nelle posizioni talvolta molto contrastanti, una certa unità data dalla condivisione da parte dei membri dell’ordine di riflessioni intorno a temi comuni.

D’altro canto però la lettura che i gesuiti dettero del contesto sardo durante la loro permanenza contribuisce a mettere in luce in modo profondo anche quelli che furono gli elementi di specificità dell’azione dell’ordine nella realtà isolana.

La questione linguistica

Sul piano dell’azione pastorale una grande attenzione fu rivolta fin dall’inizio alla peculiare situazione dell’isola sul piano linguistico con l’esempio più rappresentativo di applicazione del principio dell’accomodamento. Il plurilinguismo dei contesti cittadini di Sassari e Cagliari e il rango differenziato occupato da castigliano, catalano e italiano agli occhi delle rispettive autorità cittadine, la totale prevalente diffusione del sardo nelle campagne e nei piccoli villaggi, furono situazioni ben chiare ai primi gesuiti giunti nell’isola che utilizzarono in modo dedicato le risorse umane presenti nelle diverse comunità, talvolta con il profondo sforzo di alcuni per imparare un nuovo idioma per poter operare nei contesti rurali predicando e confessando.

A Cagliari infatti si parlava in prevalenza il catalano, come d’altronde si faceva ad Alghero, lascito linguistico del ripopolamento attuato nel Trecento,466 mentre a Sassari coesistevano il sassarese, simile all’italiano, l’italiano stesso, il sardo, il corso e il castigliano.467 In effetti i centri urbani, e in particolare Cagliari e Sassari, annoveravano tra i loro abitanti non solo i rappresentanti ufficiali del potere regio, ma anche una fascia di popolazione di ceto medio alto di origine iberica che costituiva il gruppo linguistico catalano e castigliano. Erano inoltre presenti commercianti, artigiani provenienti dalla penisola italiana, in particolare liguri ma non solo, che nell’isola si erano stabiliti e conducevano le loro attività partecipando alla vita delle città. Mentre nel contesto urbano si registrava una maggiore varietà di lingue utilizzate, in ambito rurale la situazione era nettamente

466 A. ERA, Popolamento e ripopolamento dei territori conquistati in Sardegna dai catalano-aragonesi, in «Studi Sassaresi», 2 serie, VI (1928), fase. 2 pp. 63-81; G. MELONI, Alghero tra Genova, Arborea, Milano, Catalogna, Nuovi

documenti, in A. MATTONE, P. SANNA, Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo. Storia di una città e di una minoranza catalana in Italia. Atti del convegno (Alghero 30 ottobre - 2 novembre 1985), Sassari Gallizzi, 1994, pp. 59-

74; R. CONDE y DELGADO DE MOLINA, Il ripopolamento catalano di Alghero, in Ibid., pp. 75-103.

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ARSI, SARD. 13, 125r-126v. Sassari, 1 settembre 1561. Francisco Antonio al dottor Madrid (in particolare 125v). ”La lengua ordinaria de Cerdeña es la sarda como de Italia la italiana. En algunas villas empero usan la corça,

aunque también entienden la sarda. En la çiudad de Caller y del Alguer la ordinaria y común es la catalana, aunque también hay mucho de la sarda. En esta ciudad de Saçer algunas personas prinçipales hablan mediocremente la española, pero la común es sardo y corço, o italiano que le es vezino”.

più omogenea e vedeva la netta prevalenza del sardo. Per rivolgersi alle popolazioni rurali o a quelle subalterne delle città era obbligo l’utilizzo del sardo sia nella predicazione, che nell’insegnamento della dottrina cristiana ad adulti e bambini e probabilmente anche nelle confessioni. Alla luce di questo quadro linguistico i gesuiti vennero chiamati a differenziare le loro scelte in rapporto alla tipologia del ministero svolto e alle fasce della popolazione a cui si rivolgevano.

La scelta della lingua da usare nei ministeri non fu però un’opzione lasciata solo alle valutazioni dei religiosi alla luce di precise attenzioni pastorali o alle richieste dei contesti cittadini. Attorno a questo tema si coagularono forti interessi di tipo politico e culturale che dovettero tenere conto di una pluralità di fattori oltre a costituire, fin dai tempi dell’arrivo dei primi gesuiti nell’isola, una parte importante nel dibattito del rapporto tra il regno e la corona spagnola.

In primo luogo i gesuiti si trovarono a rispondere alle esigenze della corte viceregia che richiedeva, spesso insieme allo stesso arcivescovo di Cagliari, la presenza in città di validi predicatori di lingua spagnola. Altre richieste venivano avanzate dalla classe dirigente isolana, e in particolar modo quella sassarese che mostrò fin da subito un grande interesse verso l’utilizzo del castigliano.

La presenza di tali richieste è testimoniata dalla lettera che il p. Piñas ricevette da Roma nel 1567 in cui si raccomanda al gesuita di usare lo spagnolo perché così ha chiesto Antonio Bellit, governatore di Sassari:

“Se avisa que se procure hablar en español, que así lo pide el señor don Antonio Bellit, y se intiende que es orden del rey”.468

A conferma di questa pressione nei confronti del centro dell’ordine una lettera che da Roma venne mandata allo stesso Bellit, con la conferma della sua richiesta dell’adozione del castigliano nei collegi dei gesuiti. La risposta del generale è abbastanza chiara:

“Mucho me consuela V. md. con el cuydado que tiene de que la Compañia haga su officio á mayor servicio y gloria de Christo N. S. […] las quales cosas me ponen á mi particular obligación de servir á V. Md. , como en lo que al presente nos avida del ablar en español en esa isla los nuestros se procurará, porque escrivo á esos padres que, en todo lo que buenamente se puederen acomodar á que en essa parte se satisfaga á la orden dada de los reyes y util de la yglesia, muestran quanto deseamos ayudar á estos fines, predicando, leyendo, y ablando en español. Digo quanto buenamente se pudieren acomodar, porque no siempre los lectores, ni aun quizá los predicadores, se podrán proveer de España, estando tan lejos aquellas provincias [..]”.469

In questo scenario è chiara l’aspirazione dei principales sassaresi ad usare la lingua del sovrano e al contempo emerge anche il loro interesse che l’istruzione impartita nei collegi dei gesuiti dell’isola seguisse la stessa linea:

“Acerca de los lectores, lo que my afficionadamente muestra dessear toda la ciudad es que huviesse uno para mostrar de leer y scrivir, assi por que los muchachos desde pequeños fuessen deprendiendo la doctrina y virtud que los grandes non tienen, como tambien por saber la lengua española, que aqui aman que la suya propria”. 470

468

MHSI, Sanctus Franciscus Borja…, cit., v. IV, Lettera n. 566, pp. 453-454. Roma, 2 aprile 1567. La lettera è tratta a sua volta da ARSI, EPISTOLAE ITALIAE 1565-1567, 319.

469

MHSI, Sanctus Franciscus Borja…, cit., v. IV, lettera n. 567, pp. 454-455. Roma, 2 aprile 1567. La lettera è tratta a sua volta da ARSI, Epistolae Italiae 1565-1567, 319v-320r.

470

Queste due richieste si inseriscono molto bene nella descrizione della classe dirigente isolana che il gesuita Francisco Antonio fornisce in una lettera conservata in ARSI, SARD. 13, 25r-26v. Sassari, 5 marzo 1560. Francisco Antonio a Laynez. In particolare 26r.

Che i sassaresi avessero interesse a dimostrare la loro fedeltà al sovrano continuava ad essere vero anche qualche anno più tardi come dice in maniera molto efficace il padre Guido Bellini:

“Alla venuta del P. Provincial [Cordeses] li giurati della città con il governatore, han fatto instantia che si proceda al modo di Spagna in ogni cosa massime nel predicar, et la causa di questa instantia par che proceda per alcuni respetti antichi dubitano non essere molti accetti al re, onde cercano di far chel re conesca che li sono fideli, et pero alcuni principali, mossi da un mero fumo si sforzano in pubblico di parlar castigliano benché malamente, et con molti errori.” 471

Queste aspirazioni e le pressioni del sovrano spagnolo attraverso notabili di governo, si inseriscono nel complesso processo di integrazione del regno di Sardegna all’interno del sistema polisinodale della monarchia iberica. L’isola aveva un ruolo marginale che si era sempre più indebolito con la perdita di centralità strategica all’indomani delle nuove scoperte e lo spostamento oltre il mediterraneo degli interessi del governo iberico. Filippo II però non rinunciava al regno al centro del mediterraneo tenendo fede all’antico giuramento del re d’Aragona “de no desmembrar nada de

aquella corona” quando per due volte la prima nel 1573, la seconda qualche anno dopo, rifiutò di

cedere l’isola ai Savoia in cambio di una parte del loro ducato.472 Col tempo infatti, i rapporti tra regno e corona avevano assunto un nuovo carattere legato alla progressiva accoglienza delle élites locali all’interno del sistema di governo. Nel corso del Cinquecento i discendenti sardi dei notabili catalano-aragonesi che avevano conquistato potere con affari feudali ed economici tra Tre e Quattrocento, si affacciavano ad incarichi propriamente di governo, fenomeno che andava di pari passo con la formazione di un ceto di letrados autoctoni che venivano coinvolti nelle responsabilità di amministrazione del regno e di un ceto urbano composito e dinamico. L’utilizzo del castigliano era ritenuto un segno di lealtà al sovrano e al contempo costituiva il primo passo nel tentativo di affrancarsi dalla condizione di classe dirigente autoctona sottoposta al controllo dei funzionari spagnoli, guadagnando così posizioni di maggiore prestigio.

Nella stessa direzione di consolidare i rapporti con la corona erano andate le richieste, in parte linguistiche, avanzate nel 1560 dai tre stamenti durante il parlamento del viceré Madrigal. In questa occasione si chiedeva di sottrarre i francescani presenti nell’isola dalla dipendenza dei superiori residenti in Italia ponendoli sotto l’obbedienza delle province aragonesi473, e in secondo luogo si

chiedeva la traduzione in catalano o in sardo dei testi italiani dei brevi di alcune città. Le richieste di carattere linguistico si legano in modo forte con l’importante questione della riforma degli ordini

471

ARSI, SARD. 14, 206r-207v. Sassari, 2 settembre 1569. Bellini a Borja. In particolare 206v.

472

Sul processo di transizione che portò ad un maggiore inserimento del regno di Sardegna all’interno del complesso dei regni iberici si veda MANCONI F., The Kingdom of Sardinia a province in balance between Catalogna, Castille and Italy in T. DANDELET, J. A. MARINO, (ed. by), Spain in Italy, Brill Leiden Boston, 2007; F. MANCONI, L’«ispanizzazione» della Sardegna: un bilancio in M. BRIGAGLIA, A. MASTINO, G. G. ORTU, Storia della Sardegna, 1. Dalle origini al Settecento, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 221-237; dello stesso Manconi si veda la rielaborazione più recente e organica in F. MANCONI, La Sardegna al tempo degli Asburgo. Secoli XVI-XVIII, Nuoro, Il Maestrale, 2010.

473

Nel marzo 1561, tramite il suo ambasciatore a Roma, faceva richiesta al papa Pio IV di un breve che lo autorizzasse ad attuare tale riforma. Si voleva affidare la riforma di ciascuna provincia a due vicari generali o provinciali degli Osservanti di Castiglia. Si richiedeva inoltre che i superiori degli ordini fossero originari dei regni della Corona. Questa richiesta venne respinta dal papa, ma Filippo II non si arrese e chiese comunque di avere un ruolo di rilievo nella riforma degli ordini religiosi presenti nei suoi regni. Non solo pretendeva di nominare i membri dell’organo che avrebbe dovuto procedere alla riforma, ma voleva anche arrogarsi il potere di intervenire contro i religiosi che si fossero opposti alla riforma. Il papa respingeva le proposte spagnole anche perché con la riapertura del Concilio di Trento aveva in progetto di affrontare questo tema. Le decisioni prese dal concilio non furono gradite ai prelati spagnoli ivi presenti e tanto meno al sovrano spagnolo che riteneva le misure adottate inefficaci a risolvere il problema. In definitiva le proposte di Filippo II vennero respinte sia per la protesta del re di Francia, sia per quelle dei superiori degli ordini stessi. Migliore fortuna avrebbero incontrato sotto Pio V che era intenzionato ad attuare la riforma in una direzione maggiormente gradita al sovrano iberico.

religiosi che nel contesto generale spagnolo aveva mosso i primi passi agli inizi degli anni Sessanta del Cinquecento. L’intento del re spagnolo era di sottrarre i monasteri maschili e femminili, presenti nei regni sottoposti alla sua giurisdizione, al controllo di superiori stranieri che a suo dire non potevano intervenire efficacemente in un contesto a loro estraneo, collocando le fondazioni alle dipendenze delle province iberiche e dando superiori spagnoli. Il progetto del sovrano trovava appoggio in alcuni strati della società dei suoi regni. Nel caso sardo ad esempio si facevano pressanti le richieste del viceré, degli stamenti, della stessa città di Cagliari che si schieravano dalla parte del sovrano,474 nonostante i richiami del papa alla prudenza e alla moderazione nel 1569.475 I frati presenti nell’isola cercarono di opporsi al progetto del sovrano e raccolsero testimonianze e documenti che avrebbero confermato che prima di allora erano sempre stati legati all’obbedienza italiana. Ai francescani si unirono anche i benedettini, i carmelitani, i cappuccini, i serviti, gli agostiniani, i frati predicatori, i camaldolesi. Alla fine, nel 1583, però Filippo II ottenne il consenso della congregazione generale dei Minori che stabiliva il passaggio dei conventi sardi sotto l’obbedienza spagnola.476 Le pressioni esercitate dal sovrano per accentuare il carattere linguistico iberico dei collegi dell’isola ebbero una certa consonanza con la scelta del generale a favore del loro passaggio sotto il controllo della provincia aragonese con l’adozione della lingua castigliana. Le spinte della corona e l’assenso del centro dell’ordine collaborarono nella direzione di sottrarre i territori della corona, quelli sardi compresi, da interferenze non spagnole contribuendo nel caso della Sardegna alla progressiva ispanizzazione culturale che si realizzerà nel corso del Seicento.

Il provvedimento preso dal generale Borja a metà degli anni Sessanta del Cinquecento imponeva l’uso del castigliano non solo all’interno delle comunità di Sassari, maggiormente disordinata da questo punto di vista, ma anche nell’insegnamento impartito nelle scuole e nella predicazione. Le motivazioni della scelta si legavano al passaggio dei collegi sardi sotto il controllo ufficiale della provincia aragonese e con la conseguente necessità di provvedere con più facilità le fondazioni sarde di gesuiti che fossero in grado di svolgere i ministeri in castigliano.

Prima della notizia di questo provvedimento i gesuiti presenti nell’isola non avevano fatto riferimenti espliciti alla lingua utilizzata nei collegi per l’insegnamento. Le Costituzioni indicavano la necessità di adottare e quindi di imparare, se fosse stato necessario, la lingua utilizzata dalle popolazioni presso cui si operava in modo tale da usarla nelle lezioni.477 Inoltre gli insegnamenti tenuti nei collegi dell’intera Compagnia si inserivano necessariamente nel contesto formalizzato degli studi che non permetteva grandi libertà, anche se al col tempo si era ritenuto opportuno l’utilizzo di lingue volgari al posto del latino per spiegare i contenuti dell’insegnamento ad alunni che non vi avrebbero potuto accedere in altro modo.478 Nel caso del collegio di Messina, ad

esempio, fu lo stesso Nadal a tenere in considerazione la possibilità di insegnare utilizzando le lingue volgari visto che erano spesso le lingue materne degli alunni. Accettò così l’idea ad esempio

474

La questione è trattata in G. M. RUIU, La chiesa turritana…, cit., pp. 43-47. Ruiu non cita la richiesta del 1560 avanzata durante il parlamento Madrigal che viene invece segnalata dal Turtas in R. TURTAS, La questione

linguistica…, cit., pp. 239-240.

475

La lettera è riportata in D. SCANO, Codice diplomatico delle relazioni tra S. Sede e la Sardegna, II, Cagliari, Arti grafiche B. C. T. 1941, pp. 357.

476

I documenti riguardanti questa disputa ma che si riferiscono agli anni ’70 del Cinquecento si trovano sempre in D. SCANO, Codice diplomatico…, cit., II, pp. 372-381.

477

Costituzioni, Parte IV. Capitolo VIII in M. GIOIA (a cura di), Gli scritti di Ignazio di Loyola, Torino, Utet, 1977, pp. 515-516; Costituzioni, Parte IV, Capitolo XII Materie di insegnamento nelle università della Compagnia: Quando si

farà un piano per la formazione, in un collegio o università, di soggetti da inviare tra i Mori o i Turchi, sarà indicato l'arabo o il caldeo; o l'indiano per andare tra gli Indiani; e così delle altre lingue, che potranno essere più utili in altri paesi, per cause somiglianti; Cfr. anche M. GIOIA, Gli scritti…, cit., pp. 527-528.

478

Sulla composizione del corpo insegnante nei collegi sardi R. TURTAS, La questione linguistica…, cit., pp. 238- 239. Sull’utilizzo delle lingue romanze nell’insegnamento alcuni esempi in G. CODINA MIR, Aux sources de la

di insegnare il latino nelle lingue volgari per permettere agli alunni di non imparare a memoria ma di comprendere i contenuti dell’insegnamento.

I primi padri inviati nell’isola si trovarono quindi davanti al problema della scelta della lingua più indicata per i collegi di Sassari e di Cagliari, vista la varietà linguistica delle due città isolane. L’impresa risultava complicata non solo nell’individuazione della lingua propria del luogo, ma