• Non ci sono risultati.

Il superamento del modello Debenedetti: René Girard legge Tozz

IL DIBATTITO CRITICO OGG

IV.1 Il superamento del modello Debenedetti: René Girard legge Tozz

Negli anni Sessanta e Settanta il ruolo critico di Giacomo Debenedetti ha ricoperto una posizione centrale: da una parte ha anticipato gli studi sull'espressionismo tozziano, dall'altra ha dato il via a una serie di letture psicanalitiche tuttora analizzate (Gioanola, Petroni). La vera rottura sembra essere avvenuta solamente negli anni Novanta, anni in cui Luperini, Petroni, De Michelis o Saccone contestano la distinzione tra un “Tozzi bambino” e un “Tozzi adulto”, emersa ne Il romanzo del Novecento, proponendo una sostanziale continuità tra Con gli occhi

chiusi e Tre Croci; Bernardini Napoletano sceglie – valorizzando proprio l'aspetto sperimentale

negato da Debenedetti – Il Podere come opera-simbolo della modernità del senese. Rivoluzionaria la decisione di Saccone che privilegia la linea allegorica Bestie-Il podere-Con gli

occhi chiusi. Per Baldacci invece Tozzi è moderno poiché rifiuta le ideologie del primo

Novecento rivolgendosi all'“aideologico”; Luperini riconosce nel tentativo di una via allegorica in senso benjaminiano202 la vera nota innovativa tozziana: sottolinea l'insanabile frattura tra ordo

202 Il termine “allegoria vuota” viene coniato dal critico Walter Benjamin nel suo scritto fondamentale, Il dramma

barocco tedesco, realizzato tra il 1923 e il 1925. Il termine viene da subito accostato alle opere di Kafka. Anche

Lukács nella sua Estetica farà riferimento alle allegorie vuote ma caricandole di un significato decisamente opposto rispetto a Benjamin. L’allegoria vuota è un tipo particolare di allegoria che si distingue dall'allegoria tradizionale. È un'indicazione di senso che resta aperta e irrealizzata. Non comunica un significato positivo ma esprime un bisogno di significato che resta senza risposta. Per questo la critica del Novecento ha coniato la formula “allegoria vuota”. Le narrazioni kafkiane presentano immagini e situazioni che fanno forza su oscure figure allegoriche che si offrono a interpretazioni non univoche: Kafka rappresenta una vicenda per dire altro;

idearum e ordo rerum, a cui nemmeno la scrittura può porre rimedio. Insomma quello che

traspare è che la conoscenza della cultura di Tozzi raggiunta nell'ultimo decennio segna una vera e propria rottura con Debenedetti.

Se il merito dell'autore de Il romanzo del Novecento, e di quanti ne hanno seguito le indicazioni, resta quello di aver decretato la modernità del senese, ponendolo a pieno titolo tra i grandi del Novecento, – senza scordare oltretutto che l'interpretazione freudiana offerta da Debenedetti resta la migliore – tuttavia non capiremmo fino in fondo un romanzo straordinario come Con gli occhi chiusi se non ci interrogassimo sui modi in cui Tozzi rappresenta un mondo trasfigurato dal desiderio imitativo.

L'analisi proposta da Debenedetti ruota intorno al difficile rapporto tra Pietro e Domenico Rosi, il padre-padrone,203 che trova pieno significato nella scena della castrazione degli animali:

simboleggia la sua prevaricazione sugli altri maschi che vivono nel suo podere, a cominciare dal figlio. Proprio in questa scena, apparentemente secondaria, Giacomo Debenedetti ha intravisto

ma questo altro è indecifrabile. Mentre Benjamin valuta positivamente l'allegoria vuota Lukács valuta negativamente lo scrittore boemo: nell'allegoria vuota ci sarebbe infatti, a suo parere, una resa all'insignificanza e alla crisi. Nel romanzo Il Processo, il tribunale invisibile che condanna il Signor K. è il corrispettivo allegorico delle violenze burocratiche e coercitive di una Legge che schiaccia e colpevolizza senza giustificazione; nella Metamorfosi il personaggio di Gregor Samsa sembra rappresentare nel disagio che vive con la propria famiglia, la quale ormai gli dimostra il suo totale disgusto, e nel loro rapporto conflittuale il disagio delle nuove generazioni nell'accostarsi ai nuovi rapporti sociali, ormai del tutto mutati. «Kafka rappresenta il testimone più sensibile e acuto del nostro disagio, l’interprete drammatico dei nostri più radicati malesseri intellettuali e morali, lo scrittore forse in cui ogni uomo contemporaneo ritrova quel senso di sradicamento e di estraneità, quel sentimento di insicurezza e di angosciosa vertigine che sembrano caratterizzare oggi il nostro precario modo di vivere» (REMO CANTONI, Franz Kafka e il disagio dell'uomo

contemporaneo, Milano, Unicopli, 2000). E come non associare questo concetto alle bestie di Tozzi? Esse non

esprimono alcuna verità, sono presenze marginali che compaiono quasi per caso, senza una motivazione funzionale alla narrazione. Sono apparizioni del tutto inattese che provocano un effetto di straniamento, di rottura, di shock, producendo lo stesso effetto, appunto, di allegorie vuote.

203 L'atteggiamento castrante nei confronti del figlio, «del prodotto degenere che egli vuole rendere simile a sé» si esplicita nella sentenza di Domenico: «E dire che aveva avuto intenzione perfino di mettergli il suo nome, tanto doveva assomigliargli, appartenergli!» (M.A. BALDUCCI, Il nucleo dinamico dell'imbestiamento, cit., p. 150). Si

ricordi inoltre il famoso ritratto espressionistico del padre di Tozzi proposto da Giuliotti: «Allora era vivo suo padre; un quintale e mezzo d'uomo, con certe mani che, se le chiudeva, diventano magli e un'antica rinomata trattoria alle proprie dipendenze dove, una volta, mangiando la pasta asciutta, mi ricordo d'essermi trovato in bocca, assai bel lessato, un moscone» (DOMENICO GIULIOTTI, Tizzi e fiamme, Firenze, Vallecchi, 1932, p. 71). Il

corpus tozziano ci propone molti esempi dell'archetipo paterno, seguendo però i canoni di una tipologia

costante. Da Domenico Rosi in Con gli occhi chiusi a Giacomo Selmi ne Il podere, anche altre novelle mostrano un padre dal carattere duro e sanguigno, insieme a un odio belluino e immotivato nei confronti del figlio.

uno dei cardini su cui poggia l'intero romanzo; secondo il critico si ripete simbolicamente in Pietro l'autoaccecamento compiuto da Edipo: come è noto, nel mito greco il figlio del re di Tebe Laio e di Giocasta si acceca per espiare l'uccisione del padre e il matrimonio incestuoso con la madre. Con questo atto perpetra su se stesso, con le proprie mani, la mutilazione inflittagli dal padre quando lo ha destinato a vivere tra i pastori, inconsapevole delle proprie origini regali. Nel caso di Pietro, la mutilazione consiste nell'inettitudine, esibita in ogni manifestazione della vita pratica come negazione dei valori paterni: Pietro, scrive Debenedetti, «offre al padre il triste, irritante, sconcertante spettacolo della propria vita mutilata, incapace, impotente, proprio per vendicarsi, per fargli scontare la mutilazione a cui è stato sottoposto».204 Domenico vorrebbe

infatti che il figlio si realizzasse secondo un modello stabilito da lui, di uomo pratico, forte, tenace, prepotente, che è riuscito ad affermarsi con un'attività di sua proprietà e che riesce a godersi i piaceri della vita, specie quelli sensuali e fisici, senza compromettersi troppo.

Pietro, gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico un senso d'avversione: ora lo considerava, magro e pallido, inutile agli interessi; come un idiota qualunque! Toccava il suo collo esile, con un dito sopra le venature troppo visibili e lisce; e Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono come di una colpa. Ma questa docilità che sfuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico. E gli veniva voglia di canzonarlo.205

L'atteggiamento castrante di Domenico si manifesta materialmente nei confronti delle bestie, psichicamente nei confronti del figlio. Identificandosi inconsciamente con gli animali offesi, Pietro non apre gli occhi perché è paralizzato dal padre:

Psicologicamente, ha subito la lesione che il cane Toppaha subito materialmente. E gliene sono derivati, psicologicamente, effetti analoghi a quelli del cane che «abbassava la coda tra le gambe e ringhiava quando altri cani gli si avvicinavano». Umiliazione, timore e rivolta.206

204 G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, cit., p. 237.

205 F. TOZZI, Con gli occhi chiusi, cit., p. 80.

206 G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, cit., p. 255. «Toppa era morto di vecchiaia. Lo trovarono una

mattina di febbraio, sotto il carro; nell'aia. Il gelo lo aveva attaccato mezzo ai mattoni; e la pancia, quando Carlo gli ci picchiò la pala che doveva adoprare per sotterrarlo a un olivo, suonò come un tamburo. Era stato, dopo la castratura, piuttosto cattivo: quando non voleva esser toccato, prima si allontanava; e poi se non

Pietro, dunque, punisce il padre subendo tutto con gli occhi chiusi; altrettanto avviene, con involontario sincronismo, nei romanzi e nei racconti di Franz Kafka, i cui personaggi sono vittime di un potere prevaricante e oscuro.

L'immagine della prorompente virilità di Domenico traspare anche dalla metafora del cibo, dall'immagine della grottesca avidità nel saziarsi, trasformando la «gioia, l'abbondanza, le virtù rifocillanti in aggressiva forza e potenza vitale».207 È indubbio che le scene che ritraggono il

pasto del padre siano tra le più agghiaccianti oltre che rivelatrici di quei misteriosi atti che emergono inconsapevolmente e che caratterizzano l'intera specie umana. La tavola diventa emblema della potenza di Domenico, della quale però Pietro non è in grado di fruire poiché gli ricorda costantemente il suo stato di regredito, di umiliato. Le descrizioni del padre durante i pasti ci fanno pensare a una specie di «sacerdote dell'eros gastronomico»; questo è uno degli emblemi psicologici che ritroviamo nella celebre Lettera kafkiana: il padre ama profondamente il cibo che per lui diventa sintomo e conseguenza dell'eros nel significato pieno della parola. Il disgusto provato dal giovane Kafka è sicuramente una proiezione del sentimento del figlio per il genitore, oltre che verso l'implicazione sessuale contenuta in quell'atto.

Nessun critico di Tozzi ha però sinora utilizzato in modo sistematico le chiavi interpretative proposte da René Girard nel 1961 in Menzogna romantica e verità romanzesca.208

Eppure, guardando alla storia del romanzo italiano del Novecento è difficile pensare a un esempio migliore di Con gli occhi chiusi, per trovare conferme dell'efficacia esplicativa di quella teoria.

smettevano, si avventava digrignando i denti. [... ] Da piccolo, a pena slattato, Domenico lo legò al ferro del pozzo; e, quando guaiva, gli assalariati avevano l'ordine di pigliarlo a calci. […] Obbediva soltanto a Domenico e a Giacco; degli altri aveva soltanto timore, quando non gli veniva voglia di mordere; come fece una volta a Ghisola che gli era salita a cavallo» (F. TOZZI, Con gli occhi chiusi, cit., pp. 97-98).

207 G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, cit., p. 251.

208 RENÉ GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, trad. it. a cura di Leonardo Verdi-Vighetti, Milano,

Girard introduce un meccanismo del desiderio umano completamente nuovo e sulla base di questo analizza grandi opere della tradizione romanzesca europea. Supera la visione lineare del desiderio, che collega il soggetto all'oggetto e che non spiegherebbe la comparsa di sentimenti quali invidia e gelosia, ma individua uno schema triangolare che si fissa per imitazione del desiderio di qualcun altro: di qui il modello triangolare soggetto-modello-oggetto.