• Non ci sono risultati.

LE PROSPETTIVE TEORICHE NELLO STUDIO DELLE IMPRESE FAMILIAR

3.2. L’Agency Theory

3.2.1. Teoria dell’Agenzia e governance familiare

Per i teorici dell’AT (Jensen e Meckling, 1976) le imprese familiari - nelle quali la proprietà e la gestione aziendale non sono separate, ma piuttosto coincidenti - costituiscono una peculiare struttura di governance capace di eliminare o quanto meno ridurre i costi derivanti dai problemi di agenzia (Fama e Jensen 1983).

In tale prospettiva, le caratteristiche tipiche della proprietà familiare sono state ritenute un rimedio ai problemi derivanti dalla proprietà diffusa tipica delle grandi imprese (Daily e Dollinger, 1992; Anderson e Reeb, 2003; Villalonga e Amit, 2006). Nei diversi studi condotti (tra i primi si ricordano quelli di Jensen, Meckling, 1976; Fama, Jensen 1983; Morck et al., 1988) vengono posti in luce i seguenti principali aspetti che connotano tali imprese.

In positivo:

1) il fatto che la famiglia sia “personalmente” coinvolta nella proprietà e nella gestione fa sì che gli obiettivi degli agenti convergano maggiormente con quelli della proprietà e che quindi minore sia la possibilità che i primi assumano comportamenti opportunistici;

2) la “peculiarità” delle relazioni personali che intercorrono tra gli agenti, che essendo proprietari rivestono anche il ruolo di principali, genera una spinta al controllo ed all’impegno reciproco, cosiddetto “commitment”.

In negativo:

1) il cumulo sulla medesima persona o gruppo familiare della qualifica di agente e principal, può creare un entrenchment effect33 a favore di manager familiari

scarsamente efficienti e con effetti penalizzanti per l’impresa;

2) l’impedimento per il mercato di esercitare il dovuto controllo sull’operato dei manager in ragione della forte concentrazione della proprietà nella mani della famiglia.

Le ricerche empiriche condotte secondo la prospettiva dell’AT hanno concentrato principalmente la loro attenzione sull’analisi delle relazioni che intercorrono tra proprietari e manager e, in modo secondario, i rapporti tra azionisti di maggioranza e di minoranza (Chrisman et al. 2005, Arosa et al. 2010), definite da Villalonga e Amit (2006), come agency problem I e agency problem II.

Con riguardo all’agency problem I (relazione owner-manager), la letteratura dominate evidenzia che quando la proprietà è concentrata in mano a uno o pochi azionisti aventi anche un ruolo attivo nel management aziendale, il sistema di governance risulta più efficiente (Jensen, Meckling, 1976; Shleifer, Vishny, 1997). Di conseguenza, un forte coinvolgimento da parte dei membri della famiglia all’interno dell’impresa è potenzialmente in grado di attenuare i rischi di comportamenti opportunistici, di favorire la convergenza degli interessi (Fama, Jensen, 1983) nonché di ridurre i conflitti tra le differenti categorie di soggetti (Becker, 1974; Daily, Dollinger, 1992; Einsenhardt, 1989). La concentrazione della proprietà nelle mani di un unico soggetto, pertanto, dovrebbe ridurre i costi di agenzia, favorendo la convergenza d’interessi degli azionisti con quelli dei manager,                                                                                                                

33 L’entrenchment effect, si sostanzia in comportamenti opportunistici a danno delle minoranze

sia attraverso una maggiore efficienza ed efficacia nel monitoraggio dei manager, sia mediante il diretto coinvolgimento dei familiari-azionisti nella gestione. Si ritiene pertanto che grazie alla condivisione della proprietà, i membri familiari godano di alcuni diritti di controllo sugli assets dell’impresa e usino questi diritti per esercitare una determinata influenza sui vari processi decisionali che riguardano la gestione dell’organizzazione (De Massis et al., 2015).

Per quanto attiene, invece, al problema d’agenzia che caratterizza la relazione che sussiste tra azionisti di maggioranza e di minoranza – c.d. agency problem II – si è sostenuto che quando i membri della famiglia sono proprietari di una rilevante quota di capitale sociale, può verificarsi che gli stessi sfruttino la loro posizione di controllo per ottenere benefici personali piuttosto che massimizzare il valore complessivo dell’impresa oppure per abusare della propria posizione con l’obiettivo di ottenere dei vantaggi a spese degli altri azionisti non familiari (Myers, 1977; Smith & Warner, 1979; Worck et al. 1988; Gòmez-Mejia et al., 2001).

Tanto che alcuni studiosi (Morck, Shleifer e Vishny, 1988) hanno sostenuto che il valore dell’azienda sia negativamente correlato alla quota di proprietà detenuta dalla famiglia-manager-proprietaria in quanto la stessa, disponendo di quote rilevanti di diritti di proprietà, è in grado di stabilire chi e con quali funzioni – ed a prescinderne dallo specifico grado di abilità e competenze - occuperà le posizioni di vertice del management. Tanto che Anderson e Reeb (2003) sostengono che la proprietà familiare influisca sui costi di agenzia della relazione owner-owner.

Applicata alle imprese familiari, la teoria dell’agenzia stima che il sistema di relazioni intra-familiari dovrebbe costituire una collegialità con orientamento univoco in termini di motivazioni e obiettivi (Eisenhardt, 1989; Parson, 1986). Contrariamente a queste argomentazioni, tuttavia, altri studi suggeriscono che le imprese familiari non sempre possono essere considerate una forma organizzativa omogenea e compatta.

Infatti, per La Porta, Lopez-de-Silanes e Shleifer (1999), le family business devono affrontare problemi di agenzia che sono costosi da risolvere e che possono arrecare disfunzioni organizzative interne. Addirittura, Chrisman, Chua, e Litz, (2004) sostengono che ritenere che la struttura di governance delle imprese familiari sia

maggiormente efficiente non rispecchi la complessità del sistema di relazioni che caratterizza la famiglia e conseguentemente l’impresa da questa gestita.

Al fine di descrivere una delle principali caratteristiche delle relazioni che si verificano all’interno delle imprese familiari in letteratura si è ritenuto far uso del termine “altruismo” (Ward, 1987).

Detta definizione allude all’atteggiamento ispirato al benessere collettivo ed al sostegno reciproco, con conseguente minor rischio di assunzione di comportamenti opportunistici, tipico dei membri della famiglia che a vario titolo risultano coinvolti nell’impresa (Jensen, Meckling, 1976; Parson, 1986; Eisenhardt, 1989; Corbetta, Salvato, 2004).

In tale contesto i componenti della famiglia incrementano la conoscenza reciproca e quella dell’impresa, sviluppano un senso di lealtà e un forte commitment verso la continuità dell’impresa (Sciascia, 2011).

Tale concetto, secondo la classica lettura positiva, costituisce un elemento proprio dell’impresa familiare in grado di ridurre i costi di agenzia in ragione degli effetti positivi derivanti dal sostegno reciproco, dai legami familiari e dall’unicità di visione.

Di tutt’altro avviso Schulze, Lubatkin, e Dino (2001) secondo cui l’altruismo è comunque fonte di costi di agenzia, pur se diversi da quelli in precedenza individuati da Jensen e Meckling (1976) tanto che, diversamente da questi, affermano che la proprietà familiare non sembra rappresentare il modello di governance “ideale” che spesso le viene attribuito.

Ad esempio, Gomez-Mejia et al. (2001), sulla base dei risultati ottenuti nel proprio lavoro, ritengono che l’altruismo sia fonte del problema di agenzia owner-manager. Chrisman, Chua and Litz (2004), in assonanza con quanto affermato da Schulze et al. (2001), sostengono che le imprese familiari sono tutt’altro che immuni alle disfunzioni collegate ai costi di agenzia derivanti dall’altruismo.

Ciò in quanto l’altruismo può rivelarsi tanto estremo ed asimmetrico da produrre effetti svantaggiosi per l’impresa.

Tale fenomeno, definito anche il “dark side” dell’altruismo, consiste nel porre in essere o nel consentire condotte dannose per la sopravvivenza dell’impresa riassunte

nei concetti di: free riding –ossia il comportamento volto ad evitare lo svolgimento di determinate mansioni; opportunistic behaviours – ossia l’adozione di comportamenti aventi un fine meramente individuale; shirking – il disinteresse alla gestione e lo sperpero di risorse dell’impresa.

Infatti, Schulze et al. (2003a) dimostrano come l’altruismo, nelle accezioni negative quali free riding, comportamenti opportunistici, incrementi i costi di agenzia derivanti sia dalle relazioni owner-manager che owner-owner.

Degno di nota è il lavoro di Carney (2005) il quale sostiene che, l’unificazione tra proprietà e controllo, tipica delle imprese familiari genera tre propensioni dominanti: la parsimonia, la personalità, e il particolarismo, le quali sono elementi distintivi che differenziano le imprese familiari da altri modelli di governance e che consentono di ridurre i costi di agenzia.

La parsimonia: viene definita come la convergenza di incentivi che contemporaneamente riducono i costi d’agenzia e producono efficienza ed indica la tendenza verso un’attenta conservazione e una idonea allocazione delle risorse. La propensione alla parsimonia deriva dal fatto che le imprese familiari nell’assumere decisioni strategiche sono condizionate dall’ interesse alla conservazione del patrimonio familiare. Solitamente le persone hanno una attitudine maggiormente prudente nel impiego del proprio denaro rispetto a quello altrui. Ceteris paribus, la sovrapposizione di proprietà e controllo attenua i classici problemi di agenzia in quanto gli interessi dei manager-proprietari nella ricerca di opportunità di crescita e nel contenimento dei rischi coincidono. Questa convergenza d’interessi riduce la tendenza all’opportunismo caratteristica tipica delle organizzazioni in cui la proprietà e il controllo sono divisi (Jensen, Meckling, 1976). Da ciò si può dedurre che le imprese familiari hanno un grosso incentivo ad assicurarsi che il capitale sia impiegato con scrupolo (parsimonia) e usato efficacemente (Brickley, Dark, 1987). Il personalismo: è l’unificazione della proprietà e del controllo che consente di concentrare nella persona del manager proprietario o della famiglia il potere organizzativo. Infatti, è questa personalizzazione di autorità che permette alla famiglia di plasmare il business secondo la sua propria visione.

Il particolarismo deriva dalla personalizzazione ed è conseguenza della tendenza del proprietario-manager di intendere l’impresa come il suo “business”. Ciò consente

alla famiglia di ispirare le proprie decisioni non solo in base a criteri economici bensì, adottare criteri decisionali fondati su criteri di altra natura.

La propensione alla parsimonia, al personalismo e al particolarismo, che caratterizza la governance familiare, può potenzialmente rendere quest’ultima più o meno efficace ed efficiente, conseguentemente può condizionarne le scelte strategiche aziendali quali: le politiche di indebitamento e/o investimento, i processi di internazionalizzazione e di d’innovazione, ecc. Tutti ciò per altro producendo effetti anche sulla capacità di creazione di valore nell’impresa.