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Teoria positiva dell’ evasione: modelli economic

L’evasione fiscale, tradotta nella mancanza intenzionale di dichiarare l’attività economica imponibile, è pervasiva in molte economie ed è quindi oggetto di pratica ed interesse teorico.

L’importanza di creare una comprensione teorica del fenomeno evasivo può essere valutata solo attraverso la stima della portata reale dell’evasione stessa. Se quest’ultima costituisce un’attività rilevante all’interno dell’economia, diventa di primaria importanza creare un “modello economico” di potenziale utilizzo al fine di progettare strutture che riducono l’evasione al minor costo e di garantire che le politiche siano ottimali nel momento in cui essa si verifica.

Nelle pagine che precedono si sono già anticipati alcuni modelli economici e non che lasciano comunque spazio ad errori e stime poco attendibili, visto che l’evasione fiscale difficilmente si riesce a misurare con precisione nelle statistiche ufficiali.36

Uno dei primi studi pubblicati sull’evasione fiscale è l’analisi di Rey [1965] circa l’“Italian General Sales Tax”. Tale tassa è riscossa su tutti gli scambi di beni e servizi, con alcune eccezioni, e nel 1961 ha sollevato entrate pari al 4% del Pil.

L’imposta ha avuto diversi metodi di raccolta e grazie al più grande tra questi, il quale ha raccolto quasi due terzi delle entrate, Rey ha stimato un’evasione pari al 52,46% del rendimento effettivo; dato che rappresenta un grado significativo di evasione.37

Ancora, in un articolo che si è rivelato il punto di partenza di molti studi e riflessioni, Gutmann [1977] ha tentato di misurare il grado di attività economia non osservata negli Stati Uniti. Come già anticipato, sulla base della constatazione che le transazioni nell’economia sommersa sono sempre finanziate con denaro contante piuttosto che con assegno o carta di credito, Gutmann utilizza la crescita della moneta in circolazione rispetto ai depositi come un’unità di misura indiretta dell’attività inosservata. Tale procedura ha determinato una stima di 176 miliardi di dollari, dato in perfetto accordo con quello riportato dall’Internal Revenue Service nel 1979, il quale ha stimato redditi

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Myles, 1995, pp. 384 e sgg.

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non dichiarati nel 1976 tra 75 miliardi e 100 miliardi, corrispondenti rispettivamente al 7% e 9% del reddito dichiarato.

Applicando la stessa metodologia per il Regno Unito, Feige [1981] ha calcolato che, nel 1979, il settore non osservato produceva un Pil di £ 28 miliardi, che era pari al 15% del Pil misurato.38

Un approccio alternativo per la misurazione del “settore sommerso” nel Regno Unito è stato studiato da Pissarides e Weber [1989], il quale impiega i dati del Family Expenditure Survey (1982). Assumendo che il reddito e le spese del soggetto dipendente sono segnalati con precisione dal datore di lavoro, una stima della funzione di spesa delle relative famiglie offre il vero rapporto tra entrate e uscite; osservando la spesa di altri nuclei familiari, si arriva ad una stima del loro reddito e, di conseguenza, della loro evasione.

La stima finale è che l’economia non osservata è del 5,5 % del Pil.

Anche quando sono presi in considerazione i possibili gradi di errore, l’impressione che tali stime danno, è che l’attività economica non dichiarata, e quindi l’evasione fiscale, è una parte significativa dell’attività economica complessiva in molte economie occidentali.

Sebbene tali metodi impiegati siano imperfetti, sono tutti considerati al fine di dare un’interpretazione sintetica alle motivazioni che portano alla non compliance, e fatti derivare dal già citato studio di Allingham e Sandmo del 1972, in cui la decisione di evadere l’imposta viene inserita nel quadro di scelta in condizioni di rischio, dove l’agente economico razionale massimissa la sua utilità attesa perché considera il comportamento evasivo come una scommessa: la posta in palio è la ricchezza non versata al fisco.

Di fronte a tale rischio si presentano 3 possibili scenari:

- Se il contribuente è neutrale al rischio la disutilità attesa da un controllo è pari al prodotto della sanzione per la probabilità del controllo;

- Se il soggetto economico è avverso al rischio la disutilità attesa da un controllo è superiore al prodotto della sanzione per la probabilità di essere scoperto;

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- Se, infine, il contribuente è amante del rischio la disutilità attesa è inferiore al prodotto della multa per la relativa probabilità di essere sottoposto ad accertamento.

Se c’è neutralità al rischio, il contribuente guarda semplicemente all’ammontare atteso delle imposte da pagare:

E[t] = t[y(d)] + (1+ ) p [t (y) – t[y(d)]

dove:

- p: probabilità di essere controllati e sanzionati - y: reddito vero

- t(y): imposta da pagare su reddito vero - y(d): reddito dichiarato

- t[y(d)]: imposta da pagare su reddito dichiarato y(d) y, t[y(d)] t(y)

- : sanzione proporzionale all’imposta evasa

In questo caso il contribuente confronta il profitto atteso dall’evasione con il profitto certo nel caso di non evasione.39

Nell’ipotesi di onestà il soggetto dovrebbe pagare t(y). Pertanto, il contribuente sceglie di evadere se:

E[t] t(y)

t[y(d)] - t(y) + (1+ ) p [t(y) - t[y(d)] 0 t[y(d)] - t(y)] x [1 – (1+ ) p] 0

dato che t[y(d)] - t(y) 0 la disuguaglianza è verificata se e solo se:

[1 - (1+ ) p] 0 (1+ ) p 1

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p 1/(1+ )

In questo caso il contribuent evade tutto il reddito se la probabilità e/o la sanzione sono troppo basse.

Viceversa il soggetto sceglie di dichiarare tutto il reddito se [y(d) = y] se p (1+ ), mentre è indifferente tra evadere e non evadere se p = 1/(1+ ).

Inoltre, se consideriamo al possibilità di non neutralità al rischio, la scelta se e quanto evadere dipende da 4 fattori:40

1. la probabilità del controllo; 2. l’entità della sanzione;

3. l’attitudine del contribuente verso il rischio; 4. il reddito del soggetto e le aliquote d’imposta

Secondo le previsioni del modello, pertanto, dovrebbe risultare una correlazione negativa all’evasione all’aumentare dell’entità della sanzione e della probabilità che il soggetto assegna ad un controllo fiscale; allo stesso tempo, maggiori redditi aumentano le possibilità di evasione [e ciò è confermato dalla comune tendenza dei paesi occidentali ad avere shadow economies crescenti nel tempo, come rilevato in Schneider e Enste, 2000)].

Uno dei problemi cruciali associati a tale teoria fu quello di determinare sotto quali condizioni il contribuente decide di passare da uno stato di non evasione ad uno di evasione positiva. Tale condizione, banalmente, è che il valore atteso della penale sia minore del valore dell’imposta.

Ciò tuttavia evade una condizione comune: quella della presenza di una maggioranza di cittadini onesti che, pur potendo, pagano le imposte dovute.

Nonostante le apparenze, il modello appena esaminato, mina fortemente alcune delle credenze base, portando ad un minore effetto disincentivante delle penali. Innumerevoli altre considerazioni possono essere avanzate operando modifiche al modello, ad esempio considerando il legame tra evasione e lavoro nero (a questo punto la decisione e quindi anche il paradigma modellistico andrebbe spostato verso un equilibro

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domanda-offerta di lavoro in cui entrambe le funzioni di utilità di lavoratori e datori di lavoro sono influenzate dalle ore di lavoro regolare, in nero e riposo, ognuna caratterizzata da diversi redditi); gli effetti di differenti distribuzioni della ricchezza, considerando che a maggiori redditi corrisponde una tendenza maggiore all’evasione; la reinterpretazione nel caso in cui l’evasore sia un’impresa; gli effetti sociali ed i rischi di “contagio” che appaiono al superamento di una certa soglia. Purtroppo, in conclusione, molti dei tentativi accademici si sono conclusi in prescrizioni generiche ed in pochissimi principi applicabili alla politica economica: più elementi vengono considerati, cioè più ci si spinge ad un disegno fedele della realtà, più il numero di trade-off e di rumore aumenta, rendendo le conclusioni non generalizzabili o persino ininterpretabili.