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Dalla chemioterapia classica alla strategia multitarget

La terapia antitumorale negli anni si è rinnovata adattandosi alle nuove scoperte in campo oncologico in modo da aumentarne l’efficacia riducendone gli effetti collaterali. Si è partiti da una chemioterapia antitumorale classica fino ad arrivare alla moderna strategia multitarget, passando per la targeted therapy.

La chemioterapia antitumorale è stata la prima ad essere autorizzata per il trattamento del tumore; questa faceva, e fa tutt’ora, uso di un cocktail di farmaci scelti oculatamente che inibiscono la duplicazione del DNA con meccanismi diversi tra loro. Ha in generale un effetto citotossico su tutte le cellule dell’organismo, comprese quelle del tumore ed è in grado di bloccarne la crescita e, in certi casi, determinarne la regressione. È ancora usata per curare tumori non responsivi ad altre cure, oppure nell’ambito della chemioterapia adiuvante. In questo tipo di terapia sono utilizzati: agenti alchilanti, in grado di creare dei legami crociati tra le basi azotate del DNA impedendone la duplicazione. Alcuni esempi sono: la ciclofosfamide, i complessi del platino e le nitrosouree, antimetaboliti come il metotressato e il 5-fluorouracile, che fungono da false basi azotate e bloccano così la sintesi di DNA e interferiscono con la formazione dell’anello purinico/pirimidinico; antibiotici citotossici come le antracicline che riescono a legarsi al DNA tramite legami covalenti interferendo con la sua sintesi[90]. Il problema di questa terapia è che, avendo un meccanismo d’azione aspecifico, va a colpire tutte le cellule a rapido turnover, anche quelle sane dell’apparato gastrointestinale, della cute, delle mucose e il sistema ematopoietico. Causano una pletora di effetti collaterali notevoli come nausea e vomito, iperpigmentazione o fotosensibilizzazione, alopecia, neurotossicità periferica e centrale e problemi tardivi a livello cardiaco e renale.

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A causa degli imponenti effetti collaterali indotti e, alla luce delle nuove scoperte sui bersagli molecolari coinvolti nel tumore, negli ultimi decenni è stata sviluppata la

targeted therapy.

Questa terapia ha il vantaggio di colpire selettivamente un target che può essere un recettore di un fattore di crescita, un enzima, proteine favorenti l’angiogenesi e proteine della matrice extracellulare[90].

Dagli studi in modelli preclinici si è evidenziato come le cellule tumorali siano dipendenti da un singolo oncogene per la loro crescita e sopravvivenza, fenomeno conosciuto come “oncogen addiction” (dipendenza da oncogene). Si è pensato quindi di progettare delle molecole che andassero a inibire selettivamente la via alterata, in modo da ottenere un meccanismo d’azione pulito ed efficace, diretto esclusivamente sull’alterazione, il cosiddetto magic bullet, una pallottola magica in grado di colpire solo e soltanto il tumore.[90]

Non si sono ottenuti però i risultati sperati, solo alcuni composti dimostravano un’azione antiproliferativa duratura in grado di indurre una remissione nel tumore, come nel caso di imatinib, inibitore di BCR-ABL per pazienti con LMC (leucemia mieloide cronica) oppure l’anticorpo monoclonale trastuzumab per pazienti con cancro al seno Her-2 positivo.

Questa strategia presentava molti limiti, tra cui:

• l’identificazione in ogni paziente dell’oncogene da cui è dipendente la sua forma tumorale e l’ottimizzazione della molecola su di esso;

• il fatto che il cancro è una patologia che coinvolge la mutazione di più geni, che si traduce nell’alterazione di più pathways cellulari. Quindi, bloccare una singola via, non garantisce l’arresto della proliferazione tumorale in quanto ce ne saranno altre che sopperiranno alla mancanza;

• l’acquisizione di resistenza farmacologica dovuta all’instabilità genomica, che, causando continue mutazioni, permette di selezionare una variante di tumore resistente a quella specifica terapia, che riuscirà a proliferare a discapito delle popolazioni suscettibili[90].

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Nonostante questo, la targeted therapy ha dato il via allo sviluppo di nuove molecole antitumorali selettive, tra cui i più rappresentati sono gli inibitori di tirosina chinasi (TKIs)[91].

Per superare i limiti imposti da questo precedente tipo di terapia, si è passati da un modello single-target, a un modello multi-target che si basa sull’utilizzo di un composto o più composti (cocktail) in modo da agire contemporaneamente su più bersagli, secondo il modello esemplificativo in figura 11.

Figura 11: Passaggio esemplificativo da singolo target a multi-target [92]

Per metterlo in atto si possono percorrere due strade: utilizzare la terapia di combinazione cioè somministrando più farmaci (ciascuno dei quali agisce su un proprio target), oppure utilizzare un composto che agisca simultaneamente su più target (polifarmacologia).

Quest ultimo approccio è risultato il migliore ed ha portato allo sviluppo di molti nuovi composti, tra cui gli inibitori multichinasici, in grado di agire su più proteine chinasi contemporaneamente[91, 93].

I vantaggi che si ottengono con la polifarmacologia sono notevoli:

1) Una molecola che agisce simultaneamente su più bersagli ha spesso dimostrato un’efficacia superiore rispetto a un composto altamente selettivo;

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2) Un singolo agente con un’attività duale ha un profilo farmacocinetico e di sicurezza molto più prevedibile rispetto alla somministrazione di più molecole; 3) La combinazione di più principi attivi può portare un effetto sinergico positivo

ma anche negativo e questo limita le combinazioni di composti;

4) La somministrazione di un singolo composto garantisce che esso sia presente in tutti i tessuti allo stesso momento, in modo tale da agire su tutti i pathways; 5) Si possono mitigare le interazioni farmaco-farmaco utilizzandone uno solo

invece che due o più; inoltre l’uso di cocktail di farmaci influisce negativamente sulla compliance del paziente e complica la posologia.

In ogni caso ci sono anche degli svantaggi nell’utilizzo della terapia multitarget. L’alto potenziale terapeutico di un farmaco multitarget va di pari passo con la sua capacità di indurre tossicità nell’organismo, in quanto può instaurare interazioni dannose con dei target al di fuori del suo bersaglio primario. Questo deve essere attentamente valutato in fase di sviluppo di un farmaco indagando i meccanismi d’azione che esso potrebbe possedere[93].

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Inibitori di tirosina chinasi nella terapia antitumorale

In seguito alla scoperta delle mutazioni a carico delle tirosina chinasi nel tumore che regolano la maggior parte delle vie proliferative e angiogeniche, sono stati progettati numerosi farmaci inibitori di tirosina chinasi. Essi si dividono in due grandi categorie: le piccole molecole inibitori di tirosina chinasi (TKIs) e gli anticorpi monoclonali (mAbs).

TKIs: meccanismo d’azione

Sono in genere piccole molecole in grado di inibire l’attività di molte tirosina chinasi, come raffigurato schematicamente in figura 12.

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I TKI agiscono sul dominio catalitico dell’enzima dove si lega l’ATP e che risulta altamente conservato in tutti i sottotipi.

Il dominio chinasico di una proteina tirosina chinasi consiste in una struttura bilobata con il legame Mg-ATP situato nell’inflessione tra i due lobi. Il lobo N-terminale è costituito principalmente da foglietti β e da un’α-elica: mentre il lobo C-terminale più grande è principalmente formato da α-eliche. I due lobi sono uniti da un linker che include il motivo cerniera (hinge motif) e il motivo convesso[94].

La tasca catalitica è composta da due regioni: la tasca anteriore che contiene i principali siti di legame dell’ATP e la tasca posteriore che contiene elementi importanti per la regolazione dell’attività chinasica. Queste due regioni condividono il confine formato dai foglietti β8, la parte N-terminale del segmento di attivazione (segmento-A), che

include il motivo DFG, e foglietti β3 sul lato opposto. Tra la parte anteriore e quella

posteriore è presente una “porta” formata dei residui in β5 (Phe in CDK2) e una lisina

β3 (Lys33 in CDK2), l’accesso alla tasca posteriore è controllato da un residuo

amminoacidico e, nel caso sia treonina o alanina consente l’ingresso di piccole molecole, mentre amminoacidi più grandi come fenilalanina, leucina o metionina bloccano il loro ingresso: questa costituisce la regione accessibile ai solventi[94]. La lisina β3 risulta conservata in tutte le chinasi e adotta numerose conformazioni in

differenti complessi di proteina chinasi; è importante per la loro funzione perché aiuta ad ancorare il fosfato α e β dell’ATP. In particolare il legame ATP-lisina viene stabilizzato dalle interazioni ioniche tra questo residuo e il glutammato catalitico. Il segmento-A nel lobo C e il segmento αC nel lobo N-terminale sono due elementi fondamentali per la regolazione dell’attività catalitica.

Il segmento A contiene il motivo DFG, il loop di attivazione (A-loop), il loop P+1 e altri elementi strutturali secondari. In uno stato completamente attivo il segmento A adotta una conformazione aperta, il loop A è posizionato lontano dal centro catalitico e funge da base di attracco per il legame con il substrato[94].

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• la catena laterale dell’aspartato di DFG sia diretta verso il sito di legame dell’ATP: in questa conformazione è richiesto che l’aspartato cheli il Mg2+ al

fine di aiutare ad orientare correttamente il fosfato-γ per il suo trasferimento; • l’anello aromatico della fenilalanina sia posizionato nella tasca posteriore,

stando in contatto con αC: questo facilita la formazione del legame ionico metallico tra lisina e glutammato.

Per l’attività catalitica è necessaria la conformazione DFG-in.

La conformazione DFG-out è adottata dalle chinasi inattive e prevede che l’anello aromatico della fenilalanina si posizioni nel sito di legame dell’ATP e l’aspartato sia posizionato nella tasca posteriore[94].

Dalle analisi cristallografiche della proteina chinasi [96] si è costruito il modello farmacoforico del sito di legame dell’ATP illustrato in figura 13.

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Questo sito è localizzato nella hinge region ossia la regione cerniera che si trova tra i due lobi e prevede 5 siti di interazione[98]:

1) Regione dell’adenina: è una regione idrofobica capace di instaurare legami a idrogeno tra l’azoto 1 e 6 dei gruppi amminici dell’adenina e l’NH e il gruppo carbossilico della proteina. Molti potenti inibitori sfruttano almeno uno di questi legami a idrogeno, mimando le interazione adenina-chinasi;

2) Regione dello zucchero: caratterizzata da un’elevata idrofilia nella maggior parte delle chinasi. Instaura un legame a idrogeno tra un gruppo ossidrilico del ribosio e un residuo amminoacidico polare del lobo C, generalmente serina, aspartato, glutammato, glutammina. Un eccezione è data da EGFR che presenta un residuo di cisteina, questa peculiarità è stata sfruttata per lo sviluppo di inibitori selettivi di EGFR;

3) Regione del fosfato: contiene residui polari altamente conservati. Qui vi troviamo il G-loop, ricco in glicine e l’α-elica. Il G-loop è caratterizzato da un’elevata mobilità in grado di adattarsi al composto che occupa il sito attivo, interagendo con i fosfati α e β dell’ATP. L’ α-elica invece contiene dei residui di glutammato, lisina e aspartato e cationi bivalenti che interagiscono con i fosfati di ATP e la aiutano ad orientarsi correttamente per la catalisi;

4) Regione nascosta o hydrophobic region I: costituisce una regione non impegnata nel legame con ATP. È caratterizzata da un’alta variabilità dipendente dal tipo di chinasi, ha il compito di selezionare particolari molecole in base alla loro dimensione, in particolare la posizione P20 è occupata da grossi amminoacidi e funge da “porta molecolare”;

5) Regione accessibile al solvente o hydrophobic region II: caratterizzata dalla presenza o assenza di glicina in posizione 26, questo causa una differente conformazione della proteina tra la regione cerniera (hinge region) e l’inizio della coda C-terminale. Costituisce una fessura permeabile ai solventi, non è

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impegnata nel legame con l’ATP, ma può essere sfruttata per ottenere una maggiore affinità con il ligando[98, 96].

I TKI in clinica

Gli inibitori di tirosina chinasi sono suddivisi in due grandi gruppi in base all’interazione con il sito di legame per l’ATP: inibitori di tipo I e inibitori di tipo II

Inibitori di tipo I: sono tutte quelle molecole che si legano all’interno e attorno alla

regione occupata dall’anello adeninico di ATP. Si legano solo allo stato attivo dell’enzima richiedendo quindi una conformazione ben specifica, la DFG-in. Questi inibitori sono in grado di formare circa 1-3 legami a idrogeno con i residui della hinge

region nel dominio chinasico. Questi legami a idrogeno vanno a mimare ciò che

normalmente forma il sistema eterociclico dell’adenina[97].

Gli inibitori di tipo I non occupano solamente la regione dell’adenina, ma si espandono anche alle regioni vicine come le regioni idrofobiche I e II, la regione del ribosio e quella legante il fosfato. L’ulteriore interazione con altre zone dell’enzima diverse dalla regione dell’ATP, determina lo sviluppo di legami deboli, i quali determinano la selettività di un inibitore verso l’una o l’altra tirosina chinasi[97].

Inibitori di tipo II: Richiedono che la proteina chinasi sia nella conformazione DFG-

out, perché occupano un sito idrofobico adiacente al sito di legame per l’ATP creato dalla conformazione del loop di attivazione, in cui un residuo di fenilalanina del motivo DFG si sposta di 10 Å rispetto alla conformazione attiva. Si viene a creare così una tasca idrofobica addizionale chiamata “sito allosterico”. In genere, sono molecole con un’attività cellulare molto alta, presumibilmente per il loro meccanismo d’azione che prevede il riconoscimento della conformazione DFG-out che ha una minore affinità per l’ATP. Lo studio cristallografico delle interazioni tra inibitori di tipo II e la proteina chinasi hanno rivelato che interagiscono con la proteina formando dei legami a

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idrogeno tra il ligando e i residui amminoacidici nel sito allosterico, in particolare con l’acido glutammico dell’αC-elica e l’ammide dell’acido aspartico del motivo DFG [97].

Proprio per questo motivo, tutti gli inibitori di tipo II di prima generazione possiedono un’affinità di legame che deriva principalmente da una combinazione di interazioni idrofobiche e formazione di legami a idrogeno con il sito allosterico creato dalla conformazione DFG-out; infatti contengono almeno un paio di donatori-accettori di legami a idrogeno e una coda idrofobica. La maggior parte ha una “testa” che si estende fino alla regione dell’adenina e forma un legame a idrogeno con il residuo della regione cerniera, che non contribuisce molto all’affinità di legame della molecola.

Successivi studi cristallografici hanno portato allo sviluppo degli inibitori di tipo II di seconda generazione che si differenziano dai precedenti in quanto possiedono in più una “testa” in grado di interagire con la hinge region e funzionare in modo analogo agli inibitori di tipo I. In questo modo, partecipa attivamente all’affinità di legame dell’intera molecola[97].

TKIs più comunemente utilizzati

Imatinib e nilotinib: (figura 14 e 15) sviluppati per la prima volta nella cura per la

leucemia mieloide cronica (LMC). Sono inibitori di tipo II con una struttura abbastanza grande che permette loro di legare sia il sito allosterico che la regione ATPasica. Nella LMC troviamo una chinasi BCR-Abl che è una forma alterata di tirosina chinasi, questi composti riescono a legarsi alla conformazione inattiva della proteina, inoltre, il sostituente O-metilico garantisce selettività verso questa chinasi[99, 100]. Mentre il nilotinib agisce esclusivamente su Brc-ABl[101], imatinib è in grado di inibire anche altri recettori quali: PGFRα e PGFRβ, Kit, SCF, DDR-1 e DDR-2 e CSF-1R e quindi si posiziona tra gli inibitori multichinasici.[102]

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Figura 14: Imatinib [103] Figura 15: Nilotinib

Erlotinib (figura 16): inibitore del EGFR di tipo I. Possiede il gruppo farmacoforico

4-anilinochinazolinico che si lega con i residui nella regione cerniera del dominio di legame dell’ ATP, e un anello fenilanilinico m-sostituito con un gruppo elettron- attrattore (un acetilene in questo caso) che aumenta l’affinità attraverso il legame con i residui della tasca posteriore dell’enzima[99].

Gefinitinb (figura 16): possiede lo stesso gruppo farmacoforico di erlotinib, ma con

dei sostituenti alogenati in meta e in para all’anello fenilanilinco.

Erlotinib e gefitinb sono impiegati nel trattamento di molte forme tumorali, tra cui il cancro al polmone non a piccole cellule, cancro alla mammella e vescica.[99]

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Lapatinib: (figura 17) Condivide con i precedenti il gruppo farmacoforico, ma ha un

sostituente in 4’ più ingombrante sull’anello fenilanilinco, come il gruppo m- fluorobenzilossico. Questo fa sì che si limiti il suo accesso alla conformazione inattiva di EGFR, ma si espanda il suo spettro d’azione anche agli HER2 in quanto riesce ad occupare la tasca lipofila nella sua conformazione inattiva.[105]

Figura 17: Lapatinib [106]

Sunitinib (figura 18): è un inibitore di tipo II e può inibire VEGFR in entrambe le sue

conformazioni, attiva e inattiva. La porzione indolinonica gli conferisce elevata affinità per la tasca idrofobica all’interno del dominio di legame per l’ATP[99]. È un inibitore multichinasico in grado di agire principalmente su tutta la famiglia di recettori VEGFR, ma anche su PDGFRα, PDGFRβ e c-Kit.

È impiegato nella terapia del carcinoma renale avanzato, nei sarcomi gastrointestinali e nei tumori pancreatici neuroendocrini[105].

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Sorafenib (figura 19): simile al precedente, ma agisce solo sulla forma attiva del

VEGFR. È dotato anch’esso di attività multichinasica: agisce infatti su: VEGFR2 e VEGFR3, c-KIT, FLT-3, PDGFR-beta, BRAF e CRAF. È utilizzato nel carcinoma epatocellulare, delle cellule renali e nel carcinoma differenziato della tiroide[102].

Figura 19: Sorafenib [108]

Pazopanib (figura 20): rappresenta un inibitore multichinasico in grado di agire su tutti

e 3 i sottotipi recettoriali di VEGFR, inoltre agisce anche su PDGFR α e β, e il recettore c-Kit. È utilizzato in clinica per il trattamento del carcinoma renale e il sarcoma dei tessuti molli[109].

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CAPITOLO 4: INTRODUZIONE ALLA PARTE

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