• Non ci sono risultati.

TRA MITO E ANTIMITO Le radici dell’antimito

Il mito politico di Francesco Crispi non può considerarsi un blocco narrativo unico e granitico ma si articola diversamente a seconda dei luoghi, dei tempi, dei soggetti produttori e ricettori. Ne emerge un quadro variegato, all’interno del quale si rintracciano narrazioni di segno opposto a quelle fin qui esplorate, antimitiche potremmo dire, e dunque funzionali a un processo di de-legittimazione. Anche in questo caso occorre confrontarsi con uno scenario complesso in cui voci diverse, a volte in dissidio tra loro, definiscono più antimiti crispini. Seguendo l’assunto per cui Crispi volle rendersi il «concetto incarnato» dell’Italia, tali narrazioni controcorrenti hanno il potere di restituire “un’immagine altra della nazione” in un momento, quello della fin-de-siècle, in cui lo Stato liberale è attraversato da profondi conflitti, tra chi tenta a tutti i costi di mantenerne inalterati i confini e chi ne chiede l’estensione o mira, anche, a una decisa sovversione dello status quo.

Un primo centro di produzione della narrazione antimitica di Crispi è la Federazione Camillo Cavour, sorta alla fine degli anni Ottanta con lo scopo di coordinare le forze extra- parlamentari del moderatismo, che raccorda le varie associazioni costituzionali e i circoli monarchico-liberali: si tratta del «primo timido tentativo degli eredi della Destra storica di recuperare una propria autonoma fisionomia politica dopo gli anni del trasformismo»1. Ponendosi in aperta ostilità nei confronti della «megalomania» del governo, criticandone la degenerazione statalista, gli eccessi dell’autoritarismo e la politicizzazione sregolata dell’amministrazione statale, la Federazione Cavour contribuisce a definire una narrazione anticrispina. L’esperimento extra-parlamentare dei liberali mira infatti a «ridimensionare gli aspetti esorbitanti di un potere centralizzato, ora «feroce» ora «permissivo», e a recuperare la «dimensione diffusa dell’autorità»2 più consona all’ortodossia liberale. Nonostante la forza degli intenti, le spaccature interne e l’abbandono del gruppo rudiniano nel 1890, che sceglie di schierarsi col governo, producono un repentino declino del progetto e dunque, ciò che è più importante dalla nostra prospettiva, determinano una certa marginalità dei moderati nella campagna propagandistica contro il presidente del Consiglio3.

1 F. Cammarano, Il progresso moderato, cit., p. 63.

2 Ivi, p. 168. A. Gabelli, La libertà in Italia, «Nuova Antologia», 108, XXIV, 1 novembre 1889, pp. 9-10. 3 Sul piano della comune critica al crispismo, i moderati riscoprono una stagione collaborativa. La loro scarsa presenza in questa trattazione è pure conseguenza dell’incapacità o dell’indifferenza dimostrata nell’estendere gli stretti confini dell’associazionismo extra-parlamentare per coinvolgere più ampi settori dell’opinione pubblica. Cfr. F. Cammarano, Il progresso moderato, cit.

Altre voci risultano in questo senso più incisive: in particolar modo è necessario riferirsi agli ambienti dell’Estrema sinistra parlamentare ed extra-parlamentare, delle forze socialiste e degli anarchici. Sul finire degli anni Ottanta, quando le condizioni economiche si aggravano, la disoccupazione aumenta e i disordini si fanno più frequenti, si delineano i contorni dell’immagine negativa del primo ministro. Già nell’ottobre del 1887 Crispi riceve una lettera firmata «gli anarchici di Torino» che gli si rivolgono chiamandolo «pagliaccio voltafaccia»: «Voi e gli altri 507, sarete impiccati alla lanterna, il giorno della rivoluzione anarchica, che non sarà lontano»4, minaccia l’anonimo scrittore.

I citati “casi di Roma” dell’8 febbraio 1889 costituiscono un momento decisivo per l’analisi dell’antimito, definitosi negli ambienti da cui diparte la protesta sociale. È all’inizio del 1889 che viene fatto arrivare dalla Francia, subito sequestrato, un volantino diffuso dagli «anarchici di tutta l’Italia»: sulle due pagine a stampa del manifesto, alla difesa dell’anarchia, «l’aspirazione più sublime e grande che il cervello umano abbia giammai concepita», si unisce una critica aspra al «capo banda dei ministri dei bancarottieri e degli affaristi». Non si risparmiano critiche alla vita privata del premier accusato di avere «Achilli con livrea e cocchi» e «Line» che «spendono 20 mila lire in un abito»5.

Sotto il suo beato regno si arrestano in massa degli onesti cittadini in tutte le città d’Italia pel semplice motivo non di pensarla come don Ciccio; si buttano in prigione; gli si fanno fare dei mesi ed anche degli anni di carcere preventivo, e quando pare piacerà a sua Eccellenza, si fa il processo e si pronuncia magari, un non farsi luogo a procedere. Questo barbaro sistema è impiegato dal nostro vigliacco governo per mascherare spudoratamente di liberalismo la corrotta giustizia dell’oggi. Non si ha il coraggio di condannare quelli che non sono reazionari, ma poi con un mezzo sleale e codardo si fa subire egualmente una grave pena sotto forma di carcere preventivo.

L’attacco degli anonimi anarchici, pur investendo l’intero sistema borghese, è diretto al «modo infame di agire dell’autocratico governo di Crispi», definito il «più triste fra i tiranni»:

Voi avete accusato gli anarchici di essere un’associazione di malfattori. Ma che siete voi, se non il capo di una banda di malfattori, che cominciando dal ministero stende le sue fila nel parlamento e nel paese? […]. Volete che ve lo diciamo? Voi rivoluzionario d’ieri, voi già repubblicano intransigente – voi che levavate la voce contro i cortigiani del borbone, del papa, del D di Modena e dell’Austria – voi siete divenuto il più abietto cortigiano d’Europa. La vostra viltà ci fa ribrezzo. E voi medesimo

4 Lettera del 28 ottobre 1887, ACS, Pisani Dossi, b. 1, fasc. 10.

5 Qui l’insulto si rifà contemporaneamente alla pretesa bigamia di Crispi per cui il plurale del nome proprio “Line” si riferisce ai suoi tre matrimoni e anche alle presunte abitudini dispendiose della moglie di Crispi.

frugando dentro di voi non potete non riconoscervi abietto e disprezzabile6.

La propaganda libertaria, che va incontro a severa censura, e dunque soffre di una limitata possibilità di circolazione, non rimane isolata. Già l’anno successivo alcuni contributi a stampa definiscono il governo Crispi come «peggiore di tutti i dispotici»7 «che a tirannia fa pur del rossore»8. Anche in questo caso, si citano i fatti di Roma del 1889: sono le manifestazioni operaie verificatesi nella capitale – scrive un autore – ad aver permesso a Crispi di «rinnegare i suoi principi liberali» per «stringere – (come suol dire il Signor Dittatore) – i freni e fare… il colpo di stato»9.

Nello stesso anno, a queste voci di protesta, risponde l’opuscolo di un siciliano che difende l’agire del governo in risposta a «l’elaterio della Statolatria ossia del socialismo» e incita Crispi a proseguire con decisione per raggiungere la «vittoria più difficile»10 contro coloro che chiedono allo Stato la tutela del diritto del lavoro.

Come si vede, già nel corso del primo governo si definiscono due immagini: quella del titano salvatore da una parte, corrispondente, in gradi diversi, a quella coscientemente diffusa da Crispi, e quella del dittatore, che avrà larga fortuna negli anni successivi. È infatti durante l’ultimo mandato che tale scontro di narrazioni risulta più evidente, frutto di un inasprimento dei conflitti politici e sociali che investono l’Italia e segno della capacità polarizzante del premier siciliano fuori e dentro le aule del potere.