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Traduzione dei passi in dialetto romagnolo

Nel documento Giulio Cesare Croce autore plurilingue (pagine 189-199)

[1-3] È possibile Bartolina traditrice / (che) tu sia disposta di farmi dannar? / Che

otterrai poi quando lo spirito sarà in malora? [7-9] Ah speranzina, non m’abbandona- re, / che ti assicuro, sebbene sono un poveraccio, / che sono di una razza che si fa stimare.

[13-15] Ma possa pur esser mangiato dai cani, / se ti lascio fino a che sto in questo mon-

do! / O guarda ora se mi conosci bene! [19-21] Orsù, per un po’ rinuncia a contrastare / e non mi far entrare in confusione, / ché tu sai ch’io son il Diavolo dalla riva. [25-36] Deh scemetta che sei, ora se non fosse / che ti porto rispetto, ti mostrerei eccome / quel che so fare, che ti butterei giù l’uscio. / Anche tu sai quel che feci l’altro giorno, / s’io feci fuggir tuo padre e tuo fratello, / ed ero solo, che non c’era nessuno con me. / Ora ti prometto, se posso trovarli da qualche parte, / che voglio legarli tutti e due come due castroni / e voglio cavargli il cuore e le budella. / Allora si vedrà se ti darò poi delle canzoni, / che fino a che non faccio così / non risolveremo le nostre questioni. [61-96] Oh potta che non voglio dire della zia Martina, / e chi ti ha detto a te queste meraviglie, / furfanta disgraziata poverina? / Tu ti menti per la gola, e dici bugie! / O potessi io aprirti con questa martinella, / che caverei io le api da dentro il coviglio. / Guarda questa sciagurata decimella, / che avrà dato ad intendere ai cristiani / che sono uno di quelli che porta la barella! / E chi mi avesse visto menare le mani, / l’altra notte ero io da solo contro due bravi / che mi venivano addosso come due cani! / E se non mi arrivava una stoccata sul capo, / li mangiavo di certo tutti e due / e li sminuzzavo come un trito di rape. / Ma cascai in terra, e loro non ne vollero di più / così che andarono via e io restai. / Ho forse abbandonato il mio onore? Dimmelo tu! / Anche un’altra volta fui assaltato / da uno con una spada e una rotella, / che lo sa tutta la gente in che modo l’ho trattato. / Oh ascolta ancora questa, cattivella, / che fui assalito da dieci una mattina, / che venivano gridando: «Ammazza, spacca, spacca!». / Diedi di piglio alla mia falciolina, / e mi ti cacciai tra loro da disperato, / è ben vero che poi me la ruppero sulla schiena. / Io ne ho fatte tante che a dirti il vero, ohimè, / ognuno sa, sa se son bravo, sa se sono animoso, / tranne te che non ne vuoi saper, e che non lo sai. / Ora se mi può capitare davanti quel tignoso / di tuo fratello, o qualcuno dei tuoi parenti, / gli voglio mostrare chi è vituperoso. / E a te, catti- vella, ti voglio cavare i denti / appena ti posso sorprendere fuori di casa, / e ti voglio far provare tutti quanti gli stenti. [112-117] O poveretto che sei, tirati qua, / non pensare che io ti stimi un bagattino, / prendi questa stoccata! e poi vattene a casa. / Oh, non è andata

a segno, diamine d’ormesino!, / son certo che non ti valeva la camiciola, / il corsaletto, lo zecchino, neanche il piastrino. [121-129] Ohimè la gola, la pancia e la testa, / fatevi da parte, o là! che sono spacciato! / Non più, non più, che la festa è finita. / Sono sbasito, sono morto, me sciagurato, / che otterrai ora, maledetta Bartolina, / che mi volevi per morto, e morto mi avrai? / Voglio andare, che vedo che grondo sangue / e Dio sa se arri- verò fino a casa, / sarò morto di certo domattina.

Note di commento

[*] Per → Bravata ‘azione arrogante’, ‘atteggiamento provocatorio per millante-

ria’(cfr. GDLI II 361). Già Bruno Migliorini notava il termine: «L’aggettivo bravo so- stantivato viene a indicare un “uomo manesco” (Giannotti), con “la coltella a cintola” (Doni): figura caratteristica della vita di questo tempo [sec. XVI], spesso rappresentata nelle scritture; sono di quest’età anche bravare, bravata, bravura» (Migliorini 1968: 396 e n.). Per → Babino si tratterà di un nome ‘parlante’ esemplato sulla forma emiliano orientale (bolognese) babèo ‘sciocco’ (LEI IV.56.11); cfr. anche Caffarelli – Marcato (2008 I 121), s.v. Babbini/-o e Babini/-o (varianti di Babbini/-o) in cui la forma risulta diffusa in Toscana, in Liguria e nella Romagna (Cesena e Forlì in particolare). Per il to- ponimo → Cavodicuol: il Guerrini dice: «Cavodicuol dovrebbe essere Capo di colle, o

Capocolle vicino a Forlimpopoli sulla via che va a Cesena. Almeno in dialetto ha il nome

che gli dà il Croce» (in Guerrini 1879: 339). In una secentesca Historia locale si trova menzionato – con riferimenti dal XII al XVI sec. – un Capo di Colle nei pressi di For- limpopoli (cfr. Vecchiazzani 1647: 99, 186, 207). Dal punto di vista linguistico: regolare l’esito sonoro v da -p- intervocalica (cfr. Rohlfs 1966-69: § 207); interessante il ditt. uo < o (< cŏlle(m)) potenzialmente interpretabile come esito metafonetico indotto da -i e

dunque pl. cuoll ‘colli’, ma sing. col ‘colle’ (cfr. almeno Rohlfs 1966-69, § 114) se non è un dittongo puramente ipercaratterizzante. Il romagnolo, infatti, si caratterizza rispetto al bolognese per la presenza di dittonghi metafonetici che in bolognese entrano a partire dal XIII-XIV secolo e si evolvono in vocali lunghe alte secondo la trafila ié/uó > íe/úo (per riposizionamento dell’accento sul primo elemento del dittongo) > íǝ/úǝ (per indebo- limento del secondo elemento del dittongo, ridotto ad appendice in iato) > ī/ū (per cadu- ta dell’appendice), riflesse in grafia solitamente da <ie/uo>, <ia/ua>, <î/û> (cfr. Filippo- nio 2013: 64n e Rovinetti Brazzi 1989: 30) [1-3] → tradtora: ‘traditrice’: le forme in -tora risultano (anche in Toscana) più popolari di quelle in -trice (Rohlfs 1966-69, §1146). L’uso crocesco della forma era già stato notato da Bruna Badini, in particolare nella Barzeletta nova e ridicolosa, Bologna, Bonardi, 1592 (Badini 1978: 100); → da-

ner: con scempiamento e palatalizzazione di -á- (< damnāre). In questo caso si ha la

convergenza sul medesimo esito da parte sia del bolognese, sia del romagnolo: in en- trambi i dialetti, infatti, la palatalizzazione di a tonica intercetta tutte le a lunghe primarie (cioè in sillaba libera protoromanza). Nel solo romagnolo, invece, la palatalizzazione ha contesti più ampi, anche ti tipo secondario, come nel sing. chent al v. 122 (sull’allunga- mento secondario tipicamente emiliano ed emiliano orientale cfr. Filipponio 2012: 85- 86); per → puo’ ‘poi’ si noti che l’esito uo < ŏ è attestato dalla seconda metà del sec. XIV al XVIII come riflesso di dittongazione libera e metafonetica (Foresti 2010: 123; sulla questione si veda anche Filipponio 2015: 323-324); → quant: oscillazioni

Foresti [Dialetti italiani 2002: 381] (che la riferisce all’Appennino modenese); si ricordi che la forma dell’articolo determinativo è contraddistinta da un altissimo tasso di varia- zione in Emilia Romagna, dove si alternano i tipi “u/e’/al”. [5] → lievati: ma ai vv. 37, 38 «levati», sull’alternanza tra i due tipi si veda la postilla di Ornella Castellani Pollido- ri in Castellani Pollidori 2004: 27-28. [6] → farò farti: si noti la posizione del clitico nel costrutto causativo, agrammaticale nell’italiano attuale. [9] → parintè (parentè ‘paren- tado’ in Morri 547; Parintà ‘Parentado’ in cb ii 132) con i < e per chiusura in protonia.

[12] → fai come l’asino al molin: l’espressione sarà da intendersi come ‘insistere’, non

solo per la proverbiale cocciutaggine dell’asino, ma anche per la ripetitiva operazione con la quale l’animale da soma va e viene dal mulino. Una simile espressione ricorre, senza commento, anche nel Pvlon Matt, II 35, v. 8: «ch’fa l’Asn antu mulin?» (Bagli 1887: 85). La più recente edizione del poema romagnolo curata da Ferdinando Pelliciar- di commenta così l’espressione: «Il verso contiene un modo di dire di non facile com- prensione; forse l’asino nel mulino raglia di tanto in tanto senza tener conto del disturbo che arreca ai presenti […]» (Pelliciardi 1997: 215). Una locuzione proverbiale simile è registrata per il romagnolo dal Morri per «esan» ‘asino’: «E va piò d’un esan bianch a mulen ‘dicesi contra chi crede esservi alcuna cosa unica al mondo’» (Morri 300). [13] →

chen: ‘cani’, con palatalizzazione (in Morri 167-9, s.v. Can si riporta chen sia per il sin-

golare sia per il plurale); il tratto ha valore caratterizzante in senso romagnolo (cfr. su-

pra); sul vocalisimo tonico – e in particolare sulla comparsa di fenomeni compensativi

che limitano l’insorgere della palatalizzazione a un certo stadio evolutivo del bologne- se – si veda Filipponio (2012: 234-236, 252, 286); in testi crocheschi in «lingua rustica bolognese» la medesima voce ricorre in forma non palatalizzata (cfr. ad es. La Rossa dal

Vergato «j parean can sgus» (v. 120)). [14] → s’a’ ’t las mè: mè ‘mai’ dal lat. < magis.

→ Pr fin ch’a’ sto in st mond: si veda La Rossa dal Vergato: «pr fin ch’a’ srò in st mond» (v. 73). [16] → proffondo: ‘burrone’ cfr. GDLI XIV 539 s.v. profondo (§ 38), l’impiego di questo significato è suggerito dal parallelismo che lega questa terzina alla precedente (v. 13: «Ma possia pur esr magnè da i chen»). Per la geminata potrebbe trat- tarsi di una forma ipercorretta motivata dalla resa del toscano. [17] → amarò: la desi- nenza -arò per la 1° persona singolare del futuro indicativo dei verbi della prima classe è più bolognese che mugellana (in cb i xxx, «a cantarò ‘io canterò’»); cfr. anche Rohlfs

§§ 587-588. [18] → huomo tondo: cfr. GDLI XXI 18, s.v. tondo (§ 13), ‘sprovveduto’ ‘ingenuo’ ‘rozzo’. [19] → piva: in GDLI XIII 609 s.v. piva (§ 1) ‘Cornamusa, zampogna (ma nei testi che fanno riferimento alla storia o alla mitologia classica indica il flauto pastorale)’, al significato (§ 5) è riportata la locuzione Mettere, riporre, tornare le pive

nel sacco, ‘tacere, arrendersi alle argomentazioni contrarie, rinunciare’; l’uso romagnolo

attuale indica invece un «piccolo strumento sonoro ottenuto da una cannuccia, da uno stelo verde di dente di leone, da uno stelo verde di grano o da una paglia» (Ercolani 409); si tratta di uno strumento musicale campestre in grado di produrre tonalità poco variabi- li e suoni duri e rochi, da qui l’accezione di sinfonia ripetitiva e spiacevole: per esempio, in Coronedi Berti si registra anche un uso metaforico del termine che va in questa dire- zione: Sóbit ch’ l’ avè sintò sta piva, ‘Tosto ch’egli ebbe udito questa musica’, ovvero ‘questo discorso noioso, stracco, e simile’ (in cb ii 187). [21] → dievol da la riva: non sono a me noti riferimenti certi, anche se il centro semantico dell’espressione potrebbe essere rintracciabile in un toponimo (del tipo Riva di-). Come seconda ipotesi si potrebbe avvicinare il senso di riva a riviera, in particolare nell’espressione dialettale andare per

ne – come già indicato da Bruna Badini – ricorre in Croce anche nella Barzeletta nova e

ridicolosa, Bologna, Bonardi, 1592, come già l’uso della forma traditora («L’espressio-

ne italiana del Croce ha l’identico valore figurato dell’analoga dialettale aesar par rivîra “essere fra i piedi, in mezzo” registrata dai dizonari [sic] bol[ognesi] F[errari 18533], CB

[Coronedi Berti 1869-74], U[ngarelli 1965 rist. an.]» (Badini 1978: 91). Un ulteriore ambito di provenienza dell’espressione, infine, potrebbe essere quello dei culti e delle tradizioni agrarie di origine contadina, del diavolo che si rende irriconoscibile per deva- stare i raccolti (cfr. ad es. Bacchelli 1994: 11-15). L’uso di Dievol (‘diavolo’) sarà da intendersi nel significato di ‘genio scaltro e tentatore’, cfr. GDLI IV 335 s.v. diavolo (§ 3) ‘genio malefico’; tale significato è suggerito da un dispositivo di ripresa delle battute attivo in tutto il testo, che qui oppone «Dievol da la riva» a «huomo tondo» (v. 18): var- rà dunque il contrario di ‘ingenuo, sciocco’. Dal punto di vista linguisto si noti la palata- lizzazione della vocale tonica diăbŏlus > [‘djε:vel], esempio di un proparossitono che

per motivi strutturali sfugge alla contrazione e attesta un esito palatalizzato anche per il bolognese (Filipponio 2010: 69 e 2012: 234-236). [22] → menchion: in Boggione – Ca- salegno 356, s.v. mìnchia si riporta il significato ingiurioso di ‘stupido, sciocco’. La forma menchione ricorre almeno tre volte in Pietro Aretino (Strambotti a la villanesca,

Dialogo, Ragionamento) e due nel Candelaio del Bruno. [23] → ti conosco fin a bus:

l’espressione varrà ‘ti conosco fino in fondo, profondamente’, da bus desinenza latina che indica per antonomasia un dettaglio o una raffinatezza: così la donna dichiara di conoscere l’uomo fin nelle minuzie. [24] → gagliardo: cfr. GDLI VI 529 s.v. gagliardo, ‘dotato di notevole forza fisica’, ‘prestante’; → poltron: cfr. GDLI XIII 804 s.v. poltro-

ne (§ 2), ‘persona imbelle, vile e pusillanime, restia ad affrontare i combattimenti e le

situazioni rischiose in genere’. La forma circola con un doppio significato: ‘uomo di vile condizione’ quello più antico, ‘uomo pigro’ quello più moderno (cfr. DELI 1224-1225). Secondo l’opposizione gagliardo/poltrone dovrà intendersi ‘poco prestante, codardo’.

[25] → dsmarella: ‘decimella, stupidina’, forma probabilmente derivata da disum, agg.

‘matto, scemo’, cfr. Casadio 80, s.v. disum, dove tra l’altro si dice: «(d)smarèja, s.f. ‘sciocchezza, quantità irrisoria’ […]. Etimologia incerta. Forse dal nome proprio Deci-

mo. Come avviene di norma in tutte le lingue e nei dialetti, alcuni nomi propri fra i più

diffusi (o come in questo caso fra i meno comuni) vengono utilizzati senza un motivo preciso per designare lo stupido. Può darsi però che decimo abbia qui il valore di deci-

mato nel senso di ‘sminuito (nelle capacità intellettive)’ e quindi abbia lo stesso sviluppo

semantico di scemo, da scemare ‘diminuire’»; il Morri 280, s.v. dsmaréja riporta signi- ficati e sinonimi diversi (smanceria, bagatella, ciancia, ecc.); cfr. anche l’Invettiva ridi-

colosa: «Un catviel, un diesm, un tracurè» (c. 2r); in GDLI IV 80 s.v. Dècimo2 (dial.

dièsimo) agg., si riporta il significato antico di ‘sciocco, scimunito’, con probabile deri-

vazione dal lat. decĭmus ‘decimo’, prenome romano; il Migliorini sulla medesima trafila

propone un elemento intermedio e fa risalire il significato all’agg. decimus ‘decimo’, nel senso di ‘figlio di madre già sfruttata dai parti’ (Migliorini 1968: xxv). Il nome proprio sembra inoltre particolarmente attestato in Emilia-Romagna (Rossebastiano – Papa 2005, I, 325). [26] → mustrarab (buttarab, v. 27, cavarab, v. 66): ‘mostrerei’, ‘butte- rei’, ‘caverei’ si tratta di condizionali. Per il bolognese, secondo le tavole di coniugazio- ne in cb i xxxi, le desinenze del condizionale presente nei verbi della prima classe (a es. cantar ‘cantare’) escono, per la 1° e la 3° pers. sing. in -are: a cantare (canterei), al cantare (canterebbe). Per il romagnolo il Pelliciardi indica che l’esito regolare è in -areb:

varianti dell’ed. C3 che riporta, per le prime due forme, la desinenza regolare (in -areb).

[27] → zo: ‘giù’ (Ercolani 689 e Masotti 734). Nel Pvlon Matt, I 20, v. 6, si ha invece

«zu» ‘giù’ (Bagli 1887: 43, Pelliciardi 1997: 72). L’oscillazione potrebbe riflettere la fase di transizione caratterizzata dall’abbassamento di i e u brevi a é e ó (cfr. Filipponio 2012: 23-38). [28] → nench: ‘anche’ (cfr. Ercolani 359, s.v. Nenc). [29] → per: forma sincopata per ‘padre’: il romagnolo ha «pêdar» (Morri 566 e Pelliciardi 1977: 31), ma l’Ercolani riporta una voce ravennate «pê» per troncamento dalla vecchia voce dialettale «pêdar» (Ercolani 391); il bolognese registra la forma «pader» (cb ii 117) e la forma «pèder» (LV 215, 595). [30] → chuiel: il Pelliciardi riporta la forma «cvèl» per il prono- me (Pelliciardi 1977: 95). Nel Pvlon Matt I 24, v. 5 si ha «un’ saria cuell» ‘non sarebbe niente’ (Pelliciardi 1997: 74-75). [31] → onvel: tutte le stampe riportano la forma uni- verbata, alla quale mi attengo. Per vel pronome indeterminato cfr. Ercolani 654, s.v. Vel, dove si riporta «in vel» ‘in alcun luogo’. [34] → darè […] d’l’canzun: plurale metafo- netico; per la locuzione cfr. GDLI II 670 s.v. canzone (§ 9), – dare canzone ‘dire cose non corrispondenti al vero’, ‘raccontare frottole burlandosi di qualcuno’. [36] → muz-

zaren: viene da muzzè ‘mozzare’ (Morri 514). [42] → spezzaferro: in GDLI XIX 859

s.v. spezzaferro, sm. ant. ‘millantatore’, ‘spaccone’, con ess. dall’emiliano Parabosco e dal romagnolo Garzoni. Come caratteristica del bravo romagnolo, la forma ricorre anche nelle Disgratie del Zane (Bologna, Heredi di Bartolomeo Cochi, 1621): «Respos un spezzafer, nassù in Romagna». [44] → mostaccio: con il significato antico di ‘volto, viso, faccia’, cfr. GDLI X 999, s.v. mostaccio, dove si riporta anche l’uso spregiativo di ‘viso rozzo e inespressivo, irregolare o malfatto’. [45] → schiena da gabella: in GDLI VI 522 s.v. (5) gabella, si trova il significato figurato di ‘Pena o castigo che non si può evitare’, in questo senso si potrebbe interpretare la locuzione come ‘schiena da frustate’, oppure, sempre con slittamento semantico da ‘imposta’ a ‘fardello’, come ‘facchino’, ‘uomo di fatica’; la donna insulta Babino dicendogli che la sua unica utilità potrebbe essere quella di compiere lavori di fatica: spaccare la legna e trasportare fardelli. [46] →

tagliacathenaccio: varrà come spezzaferro, che circola anche come tagliaferro col me-

desimo significato. Per catenaccio si intende ‘chiavistello’, ovvero sbarra o spranga di ferro che – inserita in appositi anelli dei battenti – permette di chiudere l’uscio (GDLI II 879). [48] → volto di straccio: in GDLI XX 255, s.v. straccio (§ 7) ‘persona misera, mediocre, di poco o nessun conto’. [57] → la tagli: per la locuzione cfr. in GDLI XX 675, s.v. tagliare (§ 52): ‘dire spacconate’. [58] → riffose: dal verbo riffondere, in GDLI XVI 277, s.v. rifondere (§ 8), ‘risarcire’, la donna ricorda a Babino un episodio nel qua- le il bravo viene ripagato con la sua stessa moneta. Per la geminazione cfr. supra «prof- fondo» (v. 16). [59] → ti fece un bel ponte su la schiena: il senso generale dell’espres- sione, a me non altrimenti nota, sarà quello di ‘percuotere o calpestare la schiena’. [61] → O potta: interiezione di largo uso, in GDLI XIII 1127-1128, s.v. potta (§ 5) si riporta ‘per esprimere sdegno, rabbia come per imprecazione, insulto o, anche, bestemmia’. L’espressione ricorre anche nel Pvlon Matt, I 23, v. 4 «o potta ch’ten», commenta il Bagli: «esclamazione che vale il poffare italiano» (Bagli 1887: 45), commentando l’e- spressione il Pelliciardi riporta anche la glossa del Gregor: «La parola rappresenta putta-

na ed è una bestemmia frequente in Ruzante» (Pelliciardi 1997: 203); → Zia Martina:

da considerarsi come sostituto eufemistico di un nomen sacrum: invece della bestemmia si dice ‘potta che non voglio dire della zia Martina’ (cfr. anche Migliorini 1968: 258- 266). [62] → E cu t’ha dit a tu: si tratta di espressioni formulari tipiche del genere, si veda al riguardo l’Invettiva ridicolosa (c. 2r «E cù t’l’hà ditt à tì»); per l’uso di «cu» cfr.

anche il Pvlon Matt, I 15, v. 3 «d’cu uss fuss fiol» (Bagli 1887: 41 e Pelliciardi 1997: 70-71); → maravij: ‘cosa che desta stupore’, la forma romagnola è «maravèja» (Morri 471, Ercolani 324, Masotti 358); per il bolognese si registrano due forme: «maraveja» (cb ii 48) e «maravajja» (LV 177). [63] → forfenta: il GDLI VI 490, s.v. furfante ripor- ta la forma antica forfante al maschile e forfanta al femminile, col significato di ‘disone- sto’, ‘che vive di imbrogli’. La forma femminile è usata anche dall’Aretino nel Dialogo («Sciocca furfanta»). Dal punto di vista linguistico si noti la palatalizzazione ipercarat- terizzante, che ricorre anche nell’Invettiva ridicolosa (Bologna, Cochi, 1612): «fachin forfent» (c. 2r), «E pò at digh, furfent» (c. 3r), con l’oscillazione o/u della vocale preto- nica. [64] → T’t’ mient pr la gola: espressione di largo uso che vale ‘mentire sfacciata- mente’ (cfr. GDLI X 102, s.v. mentire (§ 14), la locuzione Mentire per la gola o per la

strozza ‘dire bugie madornali’, ‘pronunciare falsità spudorate’, ‘ingannare sfrontatamen-

te’). Si noti per la forma mient la presenza del dittongo metafonetico, al contrario di quanto accade nell’occorrenza, pur anch’essa romagnola, dell’Invettiva ridicolosa (Bo- logna, Cochi, 1612), che ha ment («t’t’ ment per la gola», c. 3v); cfr. in generale Patota 2013. [65] → t’arvessia: il verbo è arvir ‘aprire’ (Ercolani 31) e «t arves» è l’esito rego- lare per la seconda persona singolare del congiuntivo imperfetto dei verbi della quarta classe (Pelliciardi 1977: 123). La desinenza -ia finale è quel che resta del clitico di prima persona in posizione post-verbale: si tratta dunque di una voce interrogativo-esclamativa di prima persona; → martnella: da martino, voce gergale di lungo corso col significato di ‘coltello’ (Brambilla Ageno 2000: 495, 662); scrive al riguardo Bruno Migliorini: «Alla leggenda di S. Martino che si taglia il mantello debbono riferirsi le voci gergali: furb., gerg., camorr. martin(o) ‘coltello, pugnale’, martina ‘spada’, martinare ‘tagliare’» (Migliorini 1968: 133). [66] → li ev: ‘le api’ (Morri 306, Gregor 1972: 63, Ercolani 187); → chvij: la forma romagnola è «cvej» ‘coviglio, bugno rustico, arnia rudimentale’ (Ercolani 162-63), mentre in bolognese si ha «cuvei» ‘alveare’ (cb i 396) o «cvéi» ‘al- veare spontaneo’ (LV 88). Espressioni di questo tipo, legate al mondo dell’apicoltura rurale, sono tutt’altro che sporadiche: un altro riferimento si rintraccia, ad esempio, nella

Descrizzione della vita del Croce, ai vv. 76-78, «E conveniaci star a l’erta quando / l’api

volean samar, e porger presto / sotto il coviglio, e i vasi andar sonando» (Croce 1982: 42), ulteriori riferimenti in D’Onghia (2015: 178-9). [68] → chstien: pl. con il significa- to di ‘gente’ (GDLI III 984, s.v. cristiano2, (§ 3)). La forma è ampiamente attestata: cfr.

ad esempio l’Invettiva ridicolosa (c. 2r «Ch’t’ viegn à der fastidi a i Chstien», c. 2v «A i Chstien t’li hè tutt asurpè», c. 3v «Cha t hen fett dir s’t’ vuo esser Chstien», et passim; contesto in cui l’accezione semantica è meno generica) e il Pvlon Matt, I 17, v. 6 e I 32, v. 6, «chstien» (‘cristiani’ in Bagli 1887: 42, 49 e ‘gente’ in Pelliciardi 1997: 70, 78). Si noti, anche qui, la palatalizzazione. [69] → d’quij ch’porta la barella: sign. ‘quelli che portano la barella’ sono, di nuovo, persone di fatica che svolgono lavori umili, un po’ come la «schiena da gabella» più sopra (v. 45). Per la forma plurale quij (‘quelli’) si noti la chiusura metafonetica; → barella il Morri riporta il significato di ‘specie di bara ad uso di trasportar infermi e feriti’ (Morri 108); la parola è registrata anche nella forma scempia barela (Ercolani 50). [71] → alta: per ‘altra’, anche nel Pvlon Matt, I 16, 6 e 19, 8 (Pelliciardi 1997: 70, 72). [73] → stuccà: ‘stoccata’, per il romagnolo è registrata la forma «stuchê» (Morri 763 e Ercolani 592), per il bolognese si registra sia «stucà» (cb ii 405), sia «stuchè» (LV 303); in romagnolo si tratta di un caso di palatalizzazione per allungamento secondario, che è entrato tardivamente anche in bolognese (nei participi ossitoni per apocope la vocale tonica è originariamente breve, come nei sostantivi sotto-

posti allo stesso trattamento, cfr. Filipponio 2012: 57-67). → chev: ‘capo’ (Ercolani 126), nel Pvlon Matt, II 26, 4 e III 4, 6 si ha «cav» ‘capo’, il Pelliciardi indica chev come forma del plurale (Pelliciardi 1997: 249). [74] → zert: ‘certo, sicuro’ (Morri 872-73), «al zert» ‘di certo’ anche per il bolognese (cb ii 498). [75] → taieva trid a mo l’rev: si

Nel documento Giulio Cesare Croce autore plurilingue (pagine 189-199)