• Non ci sono risultati.

Trump: incarnazione dell’Offshore Balancing?

2.5 Una politica estera realista e coerente: classificare Donald Trump

2.5.3 Trump: incarnazione dell’Offshore Balancing?

Senza rinnegare in alcun modo l’aggettivo jacksoniano, che ne definisce i tratti salienti e le origini storico-politiche, la strategia di Trump non si orienterà completamente né verso la ‘’Fortress America’’ né verso il ‘’Better Nationalism’’, i due estremi del continuum del rentrenchment. Verosimilmente Trump percorrerà una strada intermedia che tenderà, a seconda delle circostanze, verso un polo o l’altro della modellistica precedentemente descritta.

Una soluzione finale, funzionale alla classificazione della grand strategy trumpiana, può essere quella di prendere a prestito il concetto di Offshore Balancing magistralmente descritto da John Mearsheimer e Stephen Walt, in un articolo uscito su Foreign Affairs, precisamente nel numero di Luglio/Agosto 2016.

In questo saggio, i due politologi affermano che la strategia dell’egemonia liberale, quella che Mead definirebbe wilsoniana (globalista in senso lato), portata avanti dagli Stati Uniti sino ad oggi, sia una strategia sostanzialmente revisionista. Secondo Mearsheimer e Walt, dunque, per preservare la grandezza dell’America e per evitare l’emergere di paesi revisionisti in Europa, in Asia e nel Golfo Persico, gli Stati Uniti dovrebbero adottare una strategia di stampo realista non per nulla, denominata, appunto, offshore balancing254.

L’offshore balancing è una dottrina strategica minimalista secondo la quale, allo scopo di preservare l’equilibrio di potenza regionale, Washington dovrebbe fare affidamento sulle potenze locali, delegando loro il compito di prevenire ed eventualmente contenere le minacce alla sicurezza. L’intervento degli Stati Uniti, dunque, sarebbe richiesto soltanto nel caso estremo in cui l’equilibrio di potenza fosse irrimediabilmente compromesso255.

Una grand strategy di questo tipo permetterebbe di mantenere inalterata la potenza americana e al contempo, complice la favorevole conformazione geografica della superpotenza, garantirebbe agli Stati Uniti un livello di sicurezza senza precedenti negli ultimi decenni. Tuttavia, offshore balancing non è sinonimo di isolazionismo: lo scopo principale degli Usa rimane quello di contrastare l’ascesa di aspiranti egemoni su scala regionale e mondiale, che andrebbe inevitabilmente a compromettere il balance of power; anche in caso di intervento onshore, comunque, gli alleati degli Stati Uniti dovrebbero garantire un adeguato sostegno e una giusta condivisione dei costi per la difesa256.

254 Mearsheimer J.J., Walt S. M., Op. Cit., p. 71. 255 Brands H., Op. Cit., p. 29.

69

Va da sé che la dottrina dell’offshore balancing rigetta sistematicamente qualsiasi tipo di interventismo umanitario e di regime change. Questo tipo di ingerenza negli affari interni di altri Stati comprometterebbe irrimediabilmente l’architettura istituzionale locale e, soprattutto, creerebbe enormi vuoti di potere spesso colmati da organizzazioni criminali o di matrice terroristica che, com’è risaputo, si nutrono del vacuum geopolitico creato dagli strascichi di questi interventi fallimentari. Nel migliore dei casi, anche quando il regime change è accompagnato da opere di meticolosa ingegneria istituzionale e sociale (in cui, innegabilmente, gli Usa non eccellono), la missione fallisce: quando si cerca di ricostruire a propria immagine e somiglianza la struttura istituzionale di uno Stato, senza tenere conto del contesto sistemico, si creano, infatti, inevitabilmente vincitori e vinti. Questi ultimi, molto probabilmente, non esiteranno a ricorrere alle armi per far valere le proprie istanze politiche. È proprio in questi casi che si assiste alla nascita di movimenti insurrezionali o, nel peggiore dei casi, alla proliferazione del terrorismo257.

Una questione altrettanto connessa è quella riguardante la proliferazione nucleare: l’impero americano, sotto forma di egemonia liberale, non è stato in grado di prevenire la diffusione delle armi nucleari. Infatti, ciò che spinge uno Stato a dotarsi dell’atomica è, in ultima istanza, l’esigenza securitaria di rendersi invulnerabile. Oggigiorno, gli Stati imboccano il sentiero dell’arma atomica anche perché temono di essere attaccati dagli Stati Uniti; la Corea del Nord fornisce l’esempio più lampante a sostegno di questa tesi. L’offshore balancing, operando una cesura della pratica di regime change, fornirebbe una sorta di assicurazione di non aggressione nei confronti delle aspiranti potenze nucleari258.

La strategia dell’offshore balancing, infine, ridimensionando i concetti di interesse e sicurezza nazionale, giustificando l’interventismo solo nel caso in cui emerga un aspirante egemone, permetterebbe di ridurre significativamente i costi della politica estera americana. È in quest’ambito che si nota particolarmente la somiglianza con la visione del mondo trumpiana: ponendo fine all’era del controproducente avventurismo estero, sarebbe possibile evitare lo sperperamento di ingenti risorse che potrebbero essere investite più fruttuosamente nella sfera della politica interna, come, ad esempio, nelle infrastrutture, nell’educazione, nello sviluppo, ma anche, se non soprattutto, nella difesa del territorio nazionale259.

257 Mearsheimer J.J., Walt S. M., Op. Cit., pp. 74, 75, 80. 258 Ibidem, p. 79.

70

Capitolo III

La Grand Strategy di Trump al banco di prova

Premessa

Gli Stati agiscono secondo quello che Graham Allison ha definito ‘’paradigma dell’attore razionale’’260, per il quale lo stato-nazione è visto come un decisore unitario che reagisce a seguito

di una minaccia o di un’opportunità; il suo compito è quello di scegliere in maniera razionale una linea di condotta che porterà auspicabilmente al conseguimento dell’obiettivo razionalmente prefissato261.

Tuttavia, ogni Stato si scontra con i fattori esterni e interni (cfr. 1.1) che ne condizionano la strategia per il conseguimento degli obiettivi prefissati secondo il calcolo razionale illustrato da Allison. Ciò vale anche per l’unica superpotenza mondiale che, nonostante possa essere vantare una chiara supremazia dal punto di vista geopolitico, è sottoposta al condizionamento da parte dei fattori esterni e interni come qualsiasi altro Stato262 anche se in misura significativamente minore.

Gli Stati Uniti, come qualsiasi altra unità del sistema internazionale, agiscono in una condizione di anarchia. In questo, ogni Stato è sovrano ma ciò non significa, secondo Kenneth Waltz, che esso sia completamente libero di elaborare e, soprattutto, di attuare la propria strategia. Egli sostiene infatti che

«l’errore sta nel credere che la sovranità degli stati si identifichi con la loro capacità di agire

liberamente. Dire che gli stati sono sovrani non significa dire che siano liberi dall’influenza degli altri stati o che siano sempre in grado di ottenere ciò che vogliono. Gli stati sovrani possono subire pressioni da tutte le parti, essere costretti ad agire in modi che preferirebbero evitare ed essere difficilmente in grado di fare qualcosa come vorrebbero»263.

Uno Stato si rapporta per forza di cose con altri attori statali ed è proprio durante l’interazione che il loro comportamento viene necessariamente modificato. Sempre Kenneth Waltz

260 Per un approfondimento sul paradigma dell’attore razionale si veda Allison G. T., Essence of Decision, Scott

Forseman and Company, Glenview, 1971.

261 Foradori P., Rosa P., Scartezzini R., Op. cit. p. 255.

262 Cfr. Caracciolo L., ‘’Il mondo degli Stati’’ in, Limes 4/2018, Lo stato del mondo, pp. 28, 29.

263 Cit. Waltz K., Teoria della politica internazionale, titolo originale: Theory of international politics, trad. it.

71

sostiene che ciò avvenga in funzione delle strutture del sistema internazionale. Il concetto di struttura elaborato dal padre del neorealismo è assai complicato e non è questa la sede adatta per descriverlo in maniera sufficientemente esaustiva poiché sarebbe inutile ai fini dell’analisi della politica estera di Trump; basterà pertanto chiarire che le strutture sono un concetto organizzativo del sistema internazionale e dipendono dalla distribuzione di potere fra gli attori del sistema, che in questo caso coincidono con gli Stati264. Ciò conferisce, ovviamente, un vantaggio relativo agli Stati Uniti (cfr. 2.1).

Pertanto, nella prima parte del capitolo verrà descritta l’interazione sinora avvenuta fra l’America di Trump e gli altri attori del sistema internazionale nei vari teatri geopolitici e come essa ha condizionato, e in parte limitato, la strategia del Tycoon.

Come si è già detto, però, non sono solo i fattori esterni a condizionare la politica estera di uno Stato. Le dinamiche della politica interna, i fenomeni burocratici e le interazioni che avvengono fra le varie agenzie governative incidono in maniera significativa sulla politica estera e sulla strategia di un attore statale come gli Stati Uniti265; di conseguenza, l’ultimo paragrafo verrà

dedicato ad analizzare brevemente ma esaustivamente questi fenomeni burocratici e in che modo essi possono influenzare la politica estera statunitense al tempo di Trump.

Un’ultima precisazione: apparentemente, il modello dello Stato come attore razionale elaborato da Allison e i modelli che spiegano i fenomeni burocratici possono sembrare in aperta contraddizione; infatti, la frammentazione e la scomposizione dello Stato come variabile analitica ne minano l’unitarietà che è considerata fondamentale per lo studio della strategia e della geopolitica. L’analisi fin qui operata potrebbe dunque sembrare caratterizzata da un’incoerenza metodologica non di poco conto. È bene, tuttavia, precisare che non si intende in alcun modo sovrastimare l’importanza dei fenomeni burocratici nella politica estera statunitense e ridimensionare l’importanza dello Stato quale unità fondamentale nello studio della politica estera e della strategia. Infatti, come sostiene Waltz:

«presentare l’approccio della politica burocratica come alternativa all’approccio dello ‘’stato come attore’’ è come dire che la teoria dell’impresa è alternativa alla teoria del mercato, un errore che nessun economista competente commetterebbe»266.

264 Waltz K., Op. Cit., pp. 178,192. Per approfondire la definizione di struttura si vedano, in particolare i cap. V e VI

della stessa opera.

265 Cfr. Rosa P., Sociologia politica delle scelte internazionali, Laterza, Bari, 2006, pp. 52, 76, 121. 266 Cit. Waltz K., Op. Cit., p. 231.

72