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V I A DI Q U A IMPARARE A MORIRE pp. 236, €16,50, Bollati Boringhieri, Torino 2011

I

l recentissimo libro di

Catheri-ne Mayer, Amortality. The Plea-sures and Perils of Living Age-lessly, illustra bene l'atteggiamen-to che noi contemporanei abbia-mo assunto nei confronti della vecchiaia e della morte. Gli amor-tali (neologismo che designa una neogenerazione) non solo non parlano più di vecchi o di anziani, bensì di maturi e di adulti, ma hanno anche espunto la morte dal loro orizzonte. Non potendo sconfiggere questo esito fatale di ogni vita, la rimuovono e la re-spingono sotto il profilo psicolo-gico e culturale, cullandosi in un sogno, ma anche in una pratica di vita, senza età, in cui abbiglia-mento, aspetto fisico, relazioni so-ciali e sessuali tendono

a essere uniformi su tutto l'arco della vita. Di fronte a questa osti-nazione, che sottende il desiderio (o illusione) di passare dall'amorta-lità all'immortadall'amorta-lità, cancellando nascita e morte e confondendole in un eterno presente, in un tempo senza tem-po, in un frammento di

eternità come quello in cui vivono le divinità dell'Olimpo, ci si può chiedere che significato possa avere una vita amputata del suo esito naturale. E la domanda che si pone, e alla quale cerca di ri-spondere, Umberto Curi in que-sto suggestivo trattato, affrontan-do il quesito se sia "concepibile la condizione umana, al di fuori del-l'inscindibile legame che tiene unite vita e morte".

Il libro, denso di riferimenti e citazioni soprattutto alla classici-tà greca ma non solo, è tutto al-l'insegna della duplicità: la pola-rità vita-morte, che a prima vista attesta una contrapposizione net-ta e defininet-ta, a un'analisi più at-tenta si scioglie in una serie di ambivalenze, a cominciare dalle due diverse e opposte valutazioni della morte, "deprecata perché segna la fine di quel bene supre-mo che è la vita, o auspicata per-ché termine ai mali di cui la vita stessa è intessuta". Un'alternativa diversa, ma altrettanto nitida è posta da Seneca, il quale alla do-manda che cosa sia la morte ri-sponde "o fine o passaggio", una possibilità che apre alla speranza. E "più in generale, non è proprio la morte, in tutta la sua inflessibi-le perentorietà, ciò che conferisce alla vita il suo più genuino signifi-cato?". Ma queste considerazioni non tolgono alla morte il suo acu-leo velenoso: per quanto i filosofi si siano sforzati di esorcizzare la paura della morte, per esempio separando il corpo, destinato alla consunzione e alla putrefazione, dall'anima, che proprio dalla morte riceve il viatico per accede-re alla libertà e magari a una vita ulteriore, per quanto le consola-zioni della filosofia siano state te-nacemente riproposte in tutte le

epoche, quel timore resta, e forse soltanto grazie alla rimozione del pensiero ossessivo della morte ri-usciamo a vivere: come accade oggi, che alla morte non vuole pensare nessuno. Il libro di Curi "vuole accompagnare all'esplora-zione del vastissimo patrimonio di idee e riflessioni riguardanti la morte, in larga misura dimentica-to o emarginadimentica-to, perché fonda-mentalmente rimossa è l'idea stessa della morte, come risulta anche dal modo in cui è organiz-zata la nostra vita". E l'esplora-zione si svolge all'insegna del ten-tativo di superare la contrapposi-zione, associata d'acchito alla du-plicità, per approdare alla coesi-stenza dei termini: la morte non come fine o passaggio, ma come insieme fine e passaggio.

Di qui una splendida passeggia-ta nel dominio del mito, che ha per protagonisti le Moire e Tha-natos, i cui editti sono inappella-bili e non possono essere sovverti-ti neppure dagli dei, come dimo-stra la vicenda di Ad-meto e della sua sposa Alcesti narrata da Euri-pide. La tragedia con-ferma il nostro destino: la morte è un debito che tutti dobbiamo pa-gare, nonostante il lieto fine apparente rappre-sentato dal ritorno di Alcesti dal regno dei morti: perché la donna continua a portare con sé "nella pur transitoria impossi-bilità di parlare, nel volto velato, nell'inquietante silhouette del fantasma, le tracce di quel regno di Ade alle cui soglie era stata condotta. Morta mentre è viva, superstite a se stessa dopo la mor-te, di nuovo morta anche quando viene restituita ai suoi affetti". Ancora il segno della duplicità e della compresenza degli opposti, perché Alcesti per tutta la vicenda è e insieme non è. La tragedia di Euripide "lavora sul confine, mo-bile e cedevole, che separa - ma in realtà connette - vita e morte". Esemplare e per certi versi analo-ga è la vicenda di Orfeo, il quale, come Alcesti, all'inizio ignora la natura della morte: ma entrambi, alla fine, avranno imparato che tra vita e morte non vi è contrap-posizione radicale. Le vicende dolorose insegnano ai protagoni-sd che occorre saper morire, che si può imparare a morire: sono "pathemata in grado di produrre mathemata - sofferenze che gene-rano conoscenze".

H capitolo dedicato a Prometeo affronta direttamente il problema del rapporto tra la stirpe umana e la morte. Il dono decisivo del tita-no agli umani è stato tita-non tanto quello del fuoco e del conseguen-te sviluppo di tutconseguen-te le conseguen-tecniche, quanto l'averli distratti dal guar-dare fissamente il loro destino: ciò che ha "salvato il genere umano -e insi-em-e condannato Prom-et-eo - è stato il semplice gesto di vol-gere altrove lo sguardo, dimenti-cando la morte". Ma, come tutti i farmaci, questo non è soltanto ri-medio, è anche tossico: l'interven-to prometeico salva in quanl'interven-to av-velena, redime "in quanto illude di ima compiuta salvezza, che re-sta viceversa inattingibile". La

li-berazione degli esseri umani at-traverso il sacrilegio del titano im-pone loro nuove catene, sosti-tuendo alla paralizzante contem-plazione della morte l'inganno di una vita affrancata dalla prospet-tiva della fine: falsa speranza. Co-sì la vita diviene un inesausto ten-tativo di ignorare la morte: in questo tentativo la contempora-neità si esercita assidua. Per alcu-ni la vita umana non meriterebbe neppure di essere vissuta: come canta Bacchilide, la cosa migliore per i mortali è non essere nati. Ma Prometeo, incatenato alla rupe e sottoposto al supplizio dell'aqui-la, afflitto dalla consapevolezza che sarebbe stato meglio non es-sere mai esistito, non può neppu-re speraneppu-re di morineppu-re: così, nella tribolazione, il titano ribelle im-para a non odiare la morte, a con-cepirla come "suggello adeguato a ciò che è la vita stessa: un in-treccio indissolubile di bene e male, di felicità e sventura, di luce e tenebre". La morte non va di-menticata, va riconosciuta come quel limite invalicabile che dà alla vita il suo pieno significato. L'in-dividuo è sempre in bilico tra grandezza e miseria, tra gioia e dolore, tra salute e malattia: non può mai essere soltanto uno. "Nessuna compiuta salvezza è concessa. Ma solo quell'incerta, sospesa, ambivalente condizione, nella quale la salvezza si accompa-gna e resta indissolubile rispetto alla caduta". Non si può qui dar conto della vasta e multiforme ricchezza di questo libro, che vale una lettura attenta e meditata. Ma vale la pena almeno accennare al capitolo suggestivo e commoven-te dedicato al poema Orfeo.Euri-dice.Hermes di Rainer Maria Ril-ke, in cui le frequenti citazioni re-stituiscono la vibratile afflizione che il poeta avverte davanti al ge-sto inesplicabile di Orfeo, che volgendosi condanna Euridice a tornare nel regno dei morti; ma Orfeo, argomenta Curi, non pote-va non voltarsi: "La legge che di-sciplina il transito dalla vita alla morte non potrà essere violata, neppure per una singola irripeti-bile eccezione". E da questa dolo-rosa vicenda anche Orfeo impara che ogni creduta unità si rivela nella sua irriducibile dualità: così è per la costitutiva duplicità della morte. E lo stesso REke, in una lettera, ha espresso in maniera poeticamente sublime questa am-bivalenza: "E anche vita e morte! Quanto aperti i campi dall'una al-l'altra, quanto vicine, quanto vici-ne a una quasi conoscenza, quan-to ormai parola quasi questa di quella, in cui precipitano con-fluendo insieme in un'unità (tem-poraneamente) senza nome".

Per concludere, il rifiutarsi di riconoscere la morte per quello che veramente è (momento cru-ciale e decisivo della vita, che concorre a definirne il senso e a farcene cogliere la qualità ineffa-bile) ci esporrebbe al destino del cacciatore Gracco, condannato, nella straordinaria novella di Kafka, a vagare dopo un inci-dente nella Foresta Nera, ada-giato in una barca senza timone, sospinta dal vento che soffia nel-le più basse regioni della morte: non vivo e non morto, senza

me-ta e senza senso. •

g i u s e p p e l o n g o 4 1 @ g m a i l .coiti G. Longo insegna teoria dell'informazione

all'Università di Trieste j

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