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INTERCULTURALE

Prima di procedere nell’analisi conclusiva dei significati che la cittadinanza, in particolare europea, assume a tutt’oggi e potrebbe arrivare ad assumere in futuro, anche e non solo nel suo rapporto con i fenomeni migratori, vorrei spendere qualcosa per sottolineare un punto nodale del discorso dei diritti umani, che è quella della loro universalità.

È un fatto che il linguaggio dei diritti umani ha conosciuto nel ventesimo secolo una diffusione e un’espansione costanti. E soprattutto la validità di questo linguaggio è stata sancita attraverso documenti ufficiali, come nella

Dichiarazione Universale del 1948, (ratificata da quasi tutti gli stati), e nelle

costituzioni democratiche contemporanee, all’interno delle quali quegli stessi diritti sono posti a fondamento.

C’è però un paradosso in questo recente processo di estensione e positivizzazione dei diritti, intesi come fondamentali, ed è legato proprio al carattere di assolutezza dei valori che li sottendono.336 Dal momento che l’evoluzione del linguaggio dei diritti dell’uomo è avvenuta in Occidente, la concezione della persona umana che soggiace alla formulazione dei diritti non può che rispecchiare le assunzioni filosofico-politiche dell’individualismo occidentale.337

336 G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma, 2001, pp.34-42; N. Gasbarro, in A Santiemma (a cura di), Diritti umani. Riflessioni e prospettive antropologiche, EuRoma, Roma, 1998, pp. 105-124.

Per questo motivo non può essere presupposta acriticamente la compatibilità dei valori civili, politici e sociali, (che fanno da premessa alla dottrina dei diritti dell'uomo), con i contesti culturali ‘extra-comunitari’.338

Ovvero, si deve tener presente che l’universalizzazione del concetto di diritti umani, comportando l’universalizzazione della cultura che lo ha espresso, rischia in sostanza di tradursi in un’imposizione su scala mondiale.

Un’alternativa praticabile, potrebbe consistere anche in questo caso, in una interpretazione ‘dialogica’, che si impegni in un confronto tra il linguaggio dei diritti ed i suoi equivalenti in altre culture, portando così ad una “fertilizzazione incrociata delle culture” la quale dovrebbe divenire, dunque, “un imperativo umano della nostra epoca”.339

Se si ammette in effetti, che la tradizione occidentale dei diritti riposa su assunzioni intorno alla natura umana, che sono il prodotto di una storia e di una serie di motivazioni e razionalizzazioni della realtà sociale a noi conosciuta. E se si considera che difficilmente, tali assunzioni possono essere accettate in blocco da tutte le società.

338 Da questo punto di vista è significativa la polemica esplosa nel corso della seconda conferenza delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo, che si tenne a Vienna nel giugno del 1993. In quella sede ufficiale i delegati di buona parte dei paesi dell’America latina e dei paesi asiatici si opposero alla tesi sostenuta dai paesi europei e nordamericani dell'universalità e indivisibilità dei diritti fondamentali rivendicando la connotazione marcatamente occidentale delle dichiarazioni dei diritti e l'esistenza di una classe di valori specificamente asiatici (disciplina, ordine, coesione sociale), inconciliabili con l'individualismo universalistico e prevalenti sui valori occidentali. Sulla conferenza di Vienna S.P. Huntington, The Clash of Civilization and the Remake of the World Order, Simon and Schuster, New York, 1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, pp. 280-289. Secondo l’autore, anche a prescindere dal fatto che la composizione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1948 escludeva i paesi sconfitti della seconda guerra mondiale, mentre quasi l’intera Africa e gran parte dell’Asia erano rappresentate dalle potenze coloniali, (fatto che si potrebbe ritenere superato dalla successiva adesione dei nuovi Stati post-coloniali), la questione centrale rimane essere quella concernente il peso che le differenze culturali giocano nel processo di espansione dei diritti.

Ne deriva che la possibilità di un reale consenso internazionale sui diritti umani, deve necessariamente passare attraverso una prima e non poco problematica distinzione, tra norme, assetti legali, e giustificazioni filosofico-politiche sottostanti. 340

In effetti forse, tentare di ‘esportare’ oltre alle norme, anche le premesse filosofico-politiche, ad esempio riguardanti la libertà individuale, potrebbe risultare controproducente, impedendo, nella pratica, la mutua comprensione dei differenti universi.341

E se la perdita, così come la negazione delle tradizioni di pensiero, non credo sia il prezzo che alcun popolo intende pagare per raggiungere l’obbiettivo di un accordo mondiale, si può ritenere, che proprio l’osservazione dei movimenti che si svolgono nel complesso campo dell’interrelazione tra cittadini e stranieri, uguali e diversi, diritti ed appartenenze, possa essere lo spazio meglio rappresentativo delle possibili soluzioni praticabili.

340 C. Taylor, Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights, in J.R. Bauer, D.A. Bell, (a cura di), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, p. 132-144.

341 C. Taylor, Conditions of an.., ibidem. L’intento di Taylor è quello di mostrare che è possibile e necessario arrivare a una sorta di consenso per intersezione, vale a dire un consenso generale sulle norme ottenuto seguendo percorsi diversificati nelle strategie di giustificazione. Ad esempio, nel caso del buddismo Theravada la norma che ingiunge il rispetto della persona non si fonda su una dottrina della dignità dell'essere umano ma segue dall'affermazione del valore fondamentale della non violenza, l'ahimsa. Inoltre, Taylor suggerisce che la protezione dei diritti può avvenire anche in forme diverse da quella legale. Mentre il concetto di legge ha una lunga tradizione nelle società occidentali e gli organi preposti alla sua applicazione hanno spesso giocato un ruolo cruciale nella tutela dei diritti, nella storia più recente della Tailandia i diritti umani sono stati garantiti da un sovrano che ha attinto all'immenso prestigio morale della sua dinastia per interrompere la dittatura militare e ripristinare la legge costituzionale. In una prospettiva più generale, Taylor pensa che il processo di universalizzazione dei diritti possa essere suddiviso in due fasi: nella prima si raggiunge un accordo sulle norme ma persiste “un profondo senso di differenza, un senso di estraneità, negli ideali, nelle nozioni di eccellenza umana, nelle figure retoriche e nei punti di riferimento concreti per mezzo dei quali queste norme diventano oggetto di un serio impegno per noi” (p. 136). In questa fase l'accordo non è completo per il fatto che sussistono divergenze nell'applicazione e nell'ordinamento tra i vari diritti. Per questo motivo il consenso stesso deve venire continuamente rinegoziato ed è esposto al pericolo di spezzarsi. In un momento successivo, tuttavia, può intervenire una seconda fase, meramente eventuale, in cui inizia a verificarsi “un processo di apprendimento reciproco, in direzione di una 'fusione di orizzonti', per usare le parole di Gadamer, e in cui l'universo morale degli altri diventa meno estraneo”.

Una creativa immersione dei differenti gruppi nel proprio patrimonio, potrebbe raggiungere, seguendo strade diverse, lo stesso traguardo: il rispetto dei diritti umani.342

5.1.1 UN PROBLEMA DI COMUNICAZIONE INTERCULTURALE

La prima conclusione generale è dunque che il problema dell’universalizzazione dei diritti, finisce per presentarsi come il problema della ‘comunicazione interculturale’.

O meglio, dei modi e dei limiti, entro i quali è possibile arrivare ad accettare con responsabilità, l’idea e le conseguenze della continua co-produzione dei sistemi culturali stessi343, imparando a riconoscere i valori diversi come ‘formativi’. È di certo un fatto oggi, che il diritto è già diventato un veicolo di scambio, (così come lo sono l’economia, la politica, i beni di consumo), nel dialogo tra Occidente e resto del mondo.344

E come tale, esso è soggetto a un processo di appropriazione creativa, capace di adattarne i contenuti ai contesti locali, pur conservandone certe prerogative funzionali.345

Inoltre, nonostante la convinzione sempre più diffusa della loro infondabilità, i diritti conservano indubbiamente una forza ‘speciale’, derivata dal fatto stesso di essere attribuiti sulla base dello ‘status di essere umano’.

342 C. Taylor, Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights, ibidem. 343 N. G. Canclini, Ripensare l’identità….., ibidem.

344 R. Panikkar, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, ibidem, p. 110.

345 Nel caso del diritto questo fenomeno di ‘creolizzazione’ può incontrare resistenze più forti che nel caso di altri oggetti. Questo per il semplice fatto che il diritto è intrinsecamente connesso a una sfera di valori Questi valori possono variare nella consistenza o nell'ordinamento quando il diritto viene ‘appropriato’ da parte di culture non occidentali. Ma questa modificazione non è indolore dal momento che, i valori morali sono tendenzialmente espansivi nel senso che aspirano a una formulazione universale e ‘soverchiante’.

Questi diritti sono dunque universali, dal momento che appartengono a tutti gli uomini.

Uguali, poiché si è esseri umani o non lo si è, e così si hanno o non si hanno gli stessi diritti umani.

E inoltre sono inalienabili, dato che non è possibile perderli, dal momento che non è possibile cessare di essere, indipendentemente da ogni trattamento.

Sebbene non sia facile sfuggire alla tentazione di assolutizzare la propria cultura e i valori che essa difende, il principio dal quale partire, potrebbe essere quello di considerare le differenze fra noi e gli altri, non come blocchi fissi,346 che derivano dall’esistenza di schemi diversi e per questo immutabili, ma piuttosto come ‘variazioni’ di contenuto, che è possibile comprendere, in relazione a delle credenze condivise.347

Se si vuole riflettere sull’universalizzazione dei diritti umani, come processo che, se pure a livello formale, è già in atto (dal momento che i diritti fondamentali sono ovunque riconosciuti, almeno nominalmente), è necessario indagare le forme della comunicazione a livello globale,348 e prendere atto del fatto che, non è più possibile come un tempo fare affidamento su un concetto forte di cultura come sistema e deposito di significati.

La pressione dei messaggi e delle immagini che si accumulano dall’esterno, lasciano emergere l’individuo come soggetto, obbligandolo a costruirsi un proprio ed esclusivo percorso attraverso i simboli e le figure della modernità349.

346 F. Remotti, Contro l’identità, ibidem, p. 15-45.

347 C. Taylor, Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights, ibidem. 348 N. G. Canclini, Ripensare l’identità…., ibidem.

E proprio questo nuovo spazio di costruzione, il confine come dimensione ‘liquida’, una sorta di isolamento paradossale, (che deriva dallo sfaldarsi dei confini già conosciuti delle rappresentazioni del mondo), potrebbe divenire lo spazio più idoneo per instaurare un rapporto con l’altro, con i suoi modi ed i suoi valori.

5.2 IL BANCO DI PROVA DELL’IMMIGRAZIONE: