Gli usi civici traggono la loro ragion d’essere da un’evoluzione storica lunga e complessa211. La nozione di usi civici e proprietà collettive
risale alle primitive condizioni di vita degli uomini. Occorre percorrere la storia per capirne il significato. Infatti, con tali accezioni si intende il godimento della terra e dei suoi prodotti da parte di una collettività che ancora non è organizzata in modo stabile. Gli uomini si accaparrano le utilità offerte dalla terra in modo spontaneo (come ad esempio la legna per riscaldarsi) oppure trasformano la stessa materia
211 F. Marinelli, “Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni”, Pisa, 2015.
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prima al fine di ricavarne un oggetto necessario per la vita quotidiana, come ad esempio la realizzazione di un utensile attraverso la lavorazione del legno.
Il rapporto che l’uomo ha con la terra e con i suoi frutti è meramente fattuale e prescinde dal diritto. Non ci sono infatti titoli qualificativi di costituzione o di trasmissione del diritto212. Si assiste dunque a una
fruizione comune della terra e dei suoi prodotti al fine di soddisfare i propri bisogni vitali.
Gli usi civici si qualificano come tutti quei diritti proprietari che gravano su porzioni estese di terra consolidatisi nel corso del tempo a favore di soggetti appartenenti alla stessa comunità e che permettono agli stessi di prelevare in maniera equa utilità da tali territori.
Per comprendere le ragioni che permettono di individuare nel Medioevo la nascita delle varie categorie di assetti fondiari collettivi, occorre tenere presente, come dice F. Marinelli che “nella tradizione
romanistica il diritto di proprietà era costruito intorno al soggetto, il paterfamilias, ed era fondato su un titolo che ne garantiva la legittimità213.” Un sistema così strutturato presuppone un ordinamento
efficiente che però nel V secolo viene meno a causa della caduta dell’impero romano d’occidente. Ecco allora che la proprietà romana viene influenzata da popoli slavi e nordici. Questi a differenza della concezione romanistica, affidano la tutela della proprietà, più che a un titolo astratto, al rapporto concreto col bene (il possesso)214. Viene
meno la compatta unitarietà (giuridica e concettuale) romanistica, che si frantuma in dominio diretto e utile215. La terra appartiene
all’imperatore e quindi ai suoi feudatari, ai suoi vassalli e cavalieri come dominio diretto, mentre appartiene al contadino che la coltiva
212 L. Fulciniti, “I beni di uso civico”, Cedam, Padova, 1990.
213 F. Marinelli, “Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni”, op. cit., p. 31.
214 F. Marinelli, “Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni”, op. cit., p. 32.
215 P. Grossi, “Proprietà (diritto intermedio)”, in Enc. Dir., vol. XXXVII, Milano,
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come dominio utile216. Sul lavoro del contadino gravano tutte quelle
imposte che la proprietà diretta pretende.
Anche Massimo D’Ambrosio217, trattando dei diritti di usi civici,
riferisce che essi hanno un’origine antichissima, ma che è solo con l’incastellamento che si sono formati forti centri di potere che si estendevano su spazi di territorio più o meno ampi. Infatti, i signori che riuscivano a scacciare tutti i vicini e ad aggiudicarsi il territorio prendevano per sé la signoria di quel luogo, dichiarando di essere proprietari di tutto ciò che si trovava in quella zona. Per incrementare la loro ricchezza, cominciavano poi ad elaborare una serie infinita di diritti reali. Come mette in luce M. D’Ambrosio, “il signore
concedeva infatti al servo il diritto di coltivare il terreno o di mettere a frutto un certo bene, obbligandolo a versare a sé e ai propri discendenti un canone, un’utilità, un servizio anche di carattere personale. Il diritto era dunque statico, e il signore (o i suoi discendenti) riscuotevano per sempre il canone o usufruivano delle prestazioni della popolazione, mentre i servi avevano il diritto di lavorare il terreno e trarne, se ci riuscivano, il sostentamento per sé e per la propria famiglia, dopo aver pagato il proprietario”.
Con Napoleone Bonaparte si assiste alla cancellazione di tutti i diritti feudali. Con il recepimento del codice napoleonico in Italia sopravvive l’enfiteusi, che ha una importanza rilevante perché il suo meccanismo è il parametro della regolamentazione degli altri diritti medioevali scomparsi che sono assoggettati ai principi dell’enfiteusi (un esempio per tutti: il diritto di livello).
L’uso civico è dunque uno degli antichi diritti reali medievali nel quale il concedente non è una persona fisica (il nobile del castello), ma una universalità di persone.
216 Chiamato così perché era collegato all’actiones utiles che il pretore romano
concedeva al proprietario.
217 M. D’ambrosio, nel Convegno “Gli usi civici, prassi ricognitive per gli enti
locali”, 7 novembre 2016, Pescara pubblicato su
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Il signore stesso infatti rinunciava ad alcuni beni per favorire un’abbazia, una comunità specifica di cittadini, un’universalità di persone, che quindi diventavano collettivamente titolari del suo diritto. Con l’estendersi del feudo alla maggior parte dell’Europa, vaste porzioni di territorio venivano utilizzate come bosco o pascolo delle popolazioni locali. Tale fenomeno viene gradualmente riconosciuto alle comunità locali che se ne servono nella pacifica convinzione di esercitare un loro diritto. Come mette in luce F. Marinelli si tratta di “un’appropriazione originaria che non è mediata da nessun
provvedimento legislativo o amministrativo in senso proprio, ma che si realizza attraverso un fatto: l’utilizzo della terra da parte degli abitanti di un determinato territorio al fine di soddisfare utilità economiche basilari218”. È da questa situazione che nasce il
complesso di diritti che prende il nome di “usi civici”.
Come sottolinea M. D’Ambrosio “con gli usi civici abbiamo dunque
ereditato dei diritti reali medievali con tutte le conseguenze del caso, ivi compresa quella della estrema difficoltà di capire quali siano, dove siano, e se essi gravino meno su un terreno, magari all’insaputa di tutti”. Infatti come facciamo a sapere su quali terre sussiste ad
esempio ancora il diritto di legnatico a favore dei residenti di una frazione di un certo comune?
Il fatto è che tali beni sono ancora caratterizzati da un regime di indisponibilità e da un vincolo di destinazione alle primarie esigenze della specifica comunità a cui ab origine furono asserviti. Infatti nessuno ne può disporre, venderli, mutarne destinazione, usucapirli, non sono soggetti ad espropriazione forzata e la situazione giuridica a cui i diritti di uso civico danno vita è imprescrittibile.
Con la sentenza n. 19792/’11219, la Corte di Cass. ha dato una
definizione di "usi civici". Con tale dizione infatti “possono intendersi
218 F. Marinelli, “Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni”, op. cit., p. 32.
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i diritti spettanti ad una collettività - ed a ciascuno dei suoi componenti, che può quindi esercitarlo uti singulus - organizzata ed insediata su di un territorio, il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque, nonostante la loro titolarità formale in capo a differenti soggetti pubblici o privati220”.
Il corpus normativo di riferimento è costituito, originariamente, dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 (e dal relativo regolamento di attuazione di cui al regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332), ma è stato integrato dalle diverse leggi delle singole Regioni, alle quali il decentramento del 1977 (art.66, commi primo e quarto, del dpr. 24 luglio 1977, n. 616) ha devoluto la materia.
Gli usi civici sono anche stati compresi nella specifica tutela paesistico-ambientale221, ed è grazie a ciò se l'istituto gode di una sua
vitalità, essendo infatti riconosciuta all’uso civico una nuova caratterizzazione della sua natura di bene collettivo, in quanto utile alla conservazione del bene ambiente non soltanto a favore dei singoli appartenenti alla collettività ma anche alla generalità dei consociati. Il regime giuridico dei beni di uso civico è connotato dei caratteri propri della demanialità, sicché detti beni sono da reputarsi inalienabili ed incommerciabili, nonché insuscettibili di usucapione.
220 Corte Cass. Civ. Sez. III, 28 settembre 2011 (Ud. 8/07/2011) Sentenza n.19792. 221 Secondo la previsione dell'art. 1 del decreto legge 27 giugno 1985, n, 312,
convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1985, n. 431, con cui è stato tra l'altro imposto - integrandosi l'art. 82 del dpr. 24 luglio 1977, n. 616 - il vincolo paesaggistico di cui alla legge 29 giugno 1939, n. 1497, anche alle zone gravate da usi civici; disposizione poi ripresa dalla legislazione successiva e, tra gli ultimi, dall'art. 142, comma primo, lett. h), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
118
i.
I beni comuni
Con la dizione “bene comune” si allude a quei beni e a quelle risorse che l’uomo condivide e sfrutta insieme ad altri222. L’individuazione di
cosa si debba intendere con bene comune è stato da sempre un problema. Tale nozione è stata infatti oggetto di numerosi e recenti interventi. Essa è riferibile a quattro diversi ambiti223.
1. In primo luogo il concetto indica “obbiettivi di interesse
generale, la cui realizzazione consente lo sviluppo della sfera individuale224”. Ad esempio art. 32 Cost. della Cost. definisce il
diritto alla salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. In tal caso notiamo che tra il perseguimento della finalità di interesse generale e il beneficio per la sfera individuale si pongono delle attività dei pubblici poteri, i quali sono tenuti ad attuare apposite politiche di erogazione e regolazione dei beni comuni225.
2. Il secondo significato riguarda alcuni beni immateriali, collegati alle fondamentali esigenze degli individui. Tali beni sono ad oggi oggetto di proprietà intellettuali, di forme di privativa o comunque di tentativi di appropriazione a fini di lucro226.
3. La terza accezione “è riferibile a cose essenziali all’esercizio di
diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona. Infatti grazie a tale nesso di strumentalità, è garantita la fruizione collettiva di queste risorse227”. Sono intervenute alcune
222 N. Carestiato nel Convegno “Beni pubblici, beni comuni e beni collettivi: una risorsa per ripensare allo sviluppo”, Marano Lagunare, 10 dicembre 2010.
223 V. Cerulli Irelli e L. De Lucia, “Beni comuni e diritti collettivi. Riflessioni De
iure condendo su un dibattito in corso” in U. Breccia, G. Colombini, E. Navarretta, R. Romboli (a cura di) “I beni comuni”, Pisa, 2012.
224 V. Cerulli Irelli e L. De Lucia, “Beni comuni e diritti collettivi. Riflessioni De iure condendo su un dibattito in corso”, op. cit., p. 11.
225 V. Cerulli Irelli e L. De Lucia, ibidem. 226 V. Cerulli Irelli e L. De Lucia, ibidem.
227 V. Cerulli Irelli, “Beni comuni e diritti collettivi. Riflessioni De iure condendo su un dibattito in corso”, op. cit., p. 12.
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pronunce della Corte Costituzionale in riferimento a beni considerati comuni come l’acqua. In particolare la Commissione istituita presso il Ministero della giustizia per la modifica delle norme del cod. civ.228 in materia di beni pubblici
(14 giugno 2007) ha proposto una nozione di bene comune229:
beni comuni sarebbero definibili come “cose che esprimono
utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché del libero sviluppo della persona”. Rientrano in tale accezione:
i fiumi, i torrenti, i laghi, l’aria, i parchi, le foreste, le zone boschive, le zone montane (ecc..). Secondo la commissione tali cose possono essere in proprietà di soggetti pubblici o privati, ma comunque su di esse deve essere garantita la fruizione collettiva230. Come sottolinea V. Cerulli Irelli “chiunque può
agire in via giudiziaria per la tutela dei diritti connessi alla protezione e alla fruizione dei beni comuni, ma solo lo Stato può agire per il risarcimento del danno a essi arrecato”.
4. Il concetto può altresì riguardare “la porzione di spazio in cui le
collettività sono insediate e vivono231”. In tale caso vi
rientrerebbero lo spazio urbano, il paesaggio e l’ambiente.
Per quanto riguarda la modalità di gestione di tali beni, sono state avanzate diverse teorie nel corso degli anni.
Il tema risale al 1911 quando l’economista Katharine Coman pubblicò un saggio sull’American Economic Review in cui affrontava il modo di gestione dell’acqua232. La rilevanza del problema sollevato però
non fu recepita subito. Infatti il saggio rimase ignoto per molti anni.
228 Si tratta della proposta per la modifica del capo II del Titolo I del Libro III del
cod.civ.
229 Materiali reperibili dal sito del ministero della giustizia.
230 V. Cerulli Irelli, “Beni comuni e diritti collettivi. Riflessioni De iure condendo su un dibattito in corso”, op. cit., p.12.
231 V. Cerulli Irelli, “Beni comuni e diritti collettivi. Riflessioni De iure condendo su un dibattito in corso”, op. cit., p.13.
232 K. Coman, “Some unsettled problems of irrigation”, American economic
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Come mette in luce Stefano Zamagni233, professore ordinario del
dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna, uno dei problemi maggiori è la giusta qualificazione della nozione di “bene comune” che molto spesso viene confusa erroneamente con quella di “bene pubblico”.
Tra beni comuni e pubblici c’è infatti un confine labile.
- Pubblico è un bene caratterizzato dall’assenza della rivalità nel consumo e dalla non escludibilità. Infatti il consumo di un bene da parte di un individuo non impedisce ad altri di consumare lo stesso bene. L’accesso a tale bene è garantito a tutti e la fruibilità da parte del singolo è indipendente da quella di altri. Il fatto che possano esservi tante persone che usano il bene pubblico, contemporaneamente non riduce in alcun modo la disponibilità di quel bene per gli altri.
- Comune è invece un bene che non è escludibile, ma è rivale nel consumo. “Il vantaggio”, come sottolinea S. Zamagni, “che
ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che altri pure traggono da esso”.
Il problema dei beni comuni è stabilire le regole che ne permettano lo sfruttamento. Il biologo Garrett Hardin, nel noto saggio “The Tragedy
of the commons”234, pubblicato nel 1968 su “Science”, rileva che il
problema della preservazione dei beni comuni risiede nel loro libero accesso. Hardin inizia la sua analisi con l’affermazione che “nella
gestione di molti fenomeni collettivi esistono delle tragedie, alludendo con tale parola a quelle situazioni nelle quali non esiste una soluzione ottima, perché ogni scelta comporta dei costi alti235”.
Si assiste infatti a una tensione drammatica tra la libertà degli individui e la distruzione delle risorse stesse. Noto è l’esempio fatto da
233 S. Zamagni, “I beni comuni per il bene comune”, Milano, 2014.
234 G. Hardin “La tragedia dei beni comuni”, Science, Vol. 162, Numero 3859,
1243-1248, 13 dicembre 1968.
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Hardin relativo al pascolo comune e libero, nel quale ogni contadino di una determinata comunità porta a pascolare le proprie mucche. Fino a quando gli allevatori porteranno le mucche al pascolo ed avranno ad esempio 10 capi ciascuno, si realizzerà una situazione di equilibrio in quanto queste mangeranno l’erba in quantità tale da permetterne la rigenerazione. Se però uno degli allevatori, in ipotesi, decidesse di comprare ulteriori mucche, ad esempio 100 capi, e le lasciasse pascolare liberamente nel campo, il consumo dell’erba sarebbe eccessivo ed essa non avrebbe il tempo di ricrescere. In breve il pascolo sparirebbe e il territorio rimarrebbe spoglio. Dunque l’esempio fatto da Hardin ha lo scopo di mettere in luce come nella storia dell’umanità “abbiamo assistito a molte “tragedie” di comunità
e di civiltà piccole e grandi che sono “collassate” (come direbbe J. Diamond), poiché i loro membri non sono stati capaci di non oltrepassare il limite, il “punto critico” e di non ritorno oltre il quale il processo diventa irreversibile236”.
Il sistema capitalista, infatti, secondo Hardin, non è in grado di autoregolarsi e, pertanto, tutto ciò che è collettivo è destinato ad essere distrutto dall’avidità del singolo che infatti “tenta di massimizzare il
suo profitto senza curarsi della sorte del bene”.
La soluzione suggerita dall’autore del noto saggio suddetto è da ricercarsi, dunque, nel diritto: solo garantendo diritti di proprietà ed eliminando la comunione del bene sarà possibile ovviare alla distruzione dei beni comuni.
Alla provocazione di Hardin ha cercato di dare una risposta la studiosa premio Nobel per l’economia nel 2009, Elinor Ostrom, che si dimostrò critica nei confronti dell’inevitabile tragedia dei beni comuni237. Pur ritenendo il sistema capitalista un avversario ostile dei
beni comuni, credeva che la tragedia pronosticata da Hardin fosse
236 G. Hardin “La tragedia dei beni comuni”, op. cit.
237 L’articolo di S. Nespor, avvocato ed ex magistrato milanese, consultabile sul sito
www.federalismi.it, offre un’analisi cronologica delle quattro “correnti” che hanno trattato i beni comuni.
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tutt’altro che inevitabile. E. Ostrom ha confutato la bipartizione dominante tra Stato e Mercato, dimostrando che esistono alternative efficienti e sostenibili a tale dicotomia per evitare l’eccessivo sfruttamento delle risorse collettive, e di conseguenza la loro distruzione238. La Ostrom ha dimostrato infatti che le comunità, intese
come l’insieme degli appropriatori e degli utilizzatori delle risorse collettive sono in grado “in certe condizioni” di gestire essi stessi le risorse naturali in modo soddisfacente. Dunque per evitare la distruzione di tali beni occorre che gli utilizzatori dello stesso si conoscano, comunichino tra loro e prendano consapevolezza degli effetti delle loro scelte. È compito delle amministrazioni rendere il bene comune un protagonista delle comunità e delle relazioni tra cittadini239. La critica principale che la Ostrom muove a Hardin è “che
i beni comuni naturali (i commons) non sono spazi e risorse in regime di libero accesso, ma spazi e risorse auto-gestite da un gruppo limitato di persone, sulla base di precise regole o istituzioni derivanti dal diritto consuetudinario che i membri della comunità conoscono e sono in grado di fare rispettare da tutti i componenti del gruppo, applicando sanzioni predefinite in caso di violazione240”. Infatti in
tutti i paesi e in tutte le culture esistono istituzioni collettive, e cioè insiemi di regole condivise, che hanno permesso alle comunità locali di auto-gestire sistemi di risorse ambientali complesse241.
Sulla base degli studi di Hardin e Ostrom, nel 1986 Carole Rose affermò che il “libero accesso a determinati beni non solo non ne
comporta il depauperamento o la distruzione, ma produce benefici economici e sociali per l’intera collettività242”.
238 G. Ricoveri “Elinor Ostrom e i beni comuni” nella relazione al seminario
promosso dalla Associazione nazionale fra le Banche Popolari e il Centro Federico Caffè, Roma 12 giugno 2013, pubblicato su www.ecologiapolitica.org. (ultimo accesso: 15/06/17).
239 G. Ricoveri “Elinor Ostrom e i beni comuni”, op. cit. 240 G. Ricoveri “Elinor Ostrom e i beni comuni”, op. cit. 241 G. Ricoveri “Elinor Ostrom e i beni comuni”, op. cit.
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Secondo C. Rose tali beni infatti sono in grado di generare valore per l’intera collettività. Essi sviluppano commercio, scambio di beni, produzione e risultano, in definitiva, in grado di accrescere il benessere complessivo.
Negli anni ’90, Charlotte Hess243, sentì il bisogno di allargare lo
scenario dei beni comuni, includendovi le innovazioni tecnologiche che in quel periodo si stavano susseguendo. La proprietà intellettuale e lo sviluppo economico che esse (innovazioni tecnologiche) generavano hanno imposto agli studiosi dei beni comuni di tenere in considerazione il cambiamento che tale fenomeno stava subendo da quando Hardin ne aveva ipotizzata l’imminente distruzione. In particolare, Charlotte Hess, come rileva G. Ricoveri, compì una distinzione importante, infatti disse che per parlare di “nuovi beni
comuni”, occorreva distinguere i beni nuovi in quanto appena “scoperti” da quelli che risultavano una novità in quanto appena inseriti all’interno della grande famiglia dei beni comuni244.
Come ho messo in luce in apertura di paragrafo il 14 giugno del 2007 fu nominata con il decreto del Ministro della giustizia la Commissione, presieduta da Stefano Rodotà, incaricata di redigere uno schema di disegno di legge245 delega per la riforma delle norme
del codice civile sui beni pubblici. I componenti della Commissione hanno elaborato un testo normativo che prevede l’eliminazione delle categorie del demanio e del patrimonio indisponibile e la redistribuzione dei beni ad esse attualmente ascrivibili in nuove categorie, tra le quali vi è quella dei “beni comuni” (i cd. commons). I beni comuni sono infatti “quei beni a consumo non rivale, ma
esauribile, come i fiumi, i laghi, l’aria, i lidi, i parchi naturali, le
243 Articolo di S. Nespor, consultabile sul sito www.federalismi.it. 244 G. Ricoveri, “Elinor Ostrom e i beni comuni”, op. cit.
245 “Disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II del Titolo I
del Libro III del codice civile nonché di altre parti dello stesso Libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto di proprietà e dei beni (14 giugno 2007)”. Il testo del progetto è reperibile sul sito del Ministero della Giustizia.