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L’autorevolezza a livello mondiale di Le Corbusier e dei CIAM raggiunse il culmine durante gli anni ’50, anche se era da tempo in atto un processo di erosione della stessa in favore delle posizioni di Mies van der Rohe. Già nel 1947 Frederick Kiesler ripensa il ritorno del soggetto: “I oppose to the mysticism of Hygiene, which is the superstition of ‘Functional Architecture’, the realities of a Magical Architecture rooted in the totality of the human being, and not in the blessed or accursed parts of this being”32. Dello stesso anno è il Manifesto del ‘Baukunst und Werkform’, in cui Max Taut,

Willi Baumeister, Lilly Reich, Otto Bartning e Max Tessenow richiamavano gli architetti alla ricerca delle necessità fondamentali e sostenevano che “for Housing, only what is simple and valid should be pursued”33. Nella semplicità dichiarata non vi era un riferimento moderno, cioè a un qualcosa

di razionale e tecnologicamente innovativo, bensì un rimando ai temi dell’autenticità e del legame con le esperienze passate. Ciò nonostante si susseguirono vari tentativi di rivitalizzare i meeting, uno di questi fu la creazione di un gruppo giovani membri, il Team 10, che includeva architetti come Bakema e Van Eyck. Alison e Peter Smithson, anche loro facenti parte dell’organizzazione, definirono nel Draft Framework 3, per il comitato del CIAM del 1954, il proponimento di rinnovare la connessione fra la trasformazione sociale e l’avanguardia architettonica, mentre per l’urbanismo indicarono l’obbiettivo della creazione dell’ordine attraverso la forma. Nuovi temi furono introdotti nel dibattito e sempre più spesso termini quali ‘human association’, ‘cluster’ e ‘mobility’ comparvero negli scritti e nei discorsi. I lavori e le dinamiche del gruppo mostrarono comunque come si stesse consumando il dissolvimento dei motivi e dei principi su cui i CIAM si fondavano, tanto che già nel 1957 Giedion ricevette una lettera intitolata ‘the Dissolution of CIAM’ a firma di Smithson, Howell Lasdun e Voelcker. L’influsso di quelle idee continuò a lungo e molti progetti urbani tra gli anni ’60 e ’80 si svilupparono su base funzionalista e con l’utilizzo della prefabbricazione

del calcestruzzo armato. La trasformazione di esperienze come quella di Runcorn (costruito tra il 1969 e il 1977) in esempi negativi della progettazione ha diverse componenti di carattere architettonico, organizzativo, ma prima di tutto sociale. La distruzione nel 1993 fu solo l’atto finale di un processo di abbandono in seguito a problemi di condensa e di costi di riscaldamento elevati34, ma soprattutto di incuria, e di livelli di criminalità molto alti. La densità altissima e la

mancanza di un legame stretto con la popolazione ne avevano fatto un luogo alieno ed inabitabile. Un altro episodio che illustra la sottovalutazione di alcune tematiche dell’abitare durante lo svolgersi dei CIAM è l’evoluzione dei convincimenti di Giancarlo de Carlo, lo stesso progettista che durante il CIAM ’59 a Otterlo, parlando della situazione dell’architettura contemporanea, affermò che l’organizzazione era morta molto tempo prima. La distanza tra il suo intervento a Sesto S. Giovanni (1951) e quello a Baveno (1953) non potrebbe più grande, ed è frutto della presa di coscienza degli errori dovuti all’impostazione estremamente razionalista del primo, di cui farà ammenda su Casabella nel 1954. Nel progetto di cinquanta alloggi per lavoratori a Sesto gli ingressi erano stati posti su balconi pubblici (separati dall’edificio per evitare rumori) a nord, mentre gli appartamenti venivano sviluppati sull’altro lato in modo che i balconi si affacciassero verso il paesaggio circostante a sud. Gli utenti li usavano in maniera completamente differente da come De Carlo l’aveva pensato: le persone si affacciavano nei balconi a nord per poter osservare i vicini passare, incuranti della privacy tanto cercata in fase di elaborazione del concept, al contrario i balconi a sud erano coperti dai panni stesi ad asciugare, impedendo la vista. Lo spirito del concorso indetto dal FIE (Building Promotion Fund) per Baveno aveva un approccio che vedeva i cittadini al centro della fase progettuale, tanto che imponeva che essi venissero interpellati prima della costruzione. Si chiedeva uno schema fisso per le unità, la cui localizzazione sarebbe poi stata definita dal costruttore. De Carlo decise allora di suddividere il processo ideativo in quatto azioni: identificare i tipo edilizio base, sviluppare il tipo come residenza, analizzare del sito scelto e raggruppare gli edifici sul sito reale. Il successo segnò una svolta nella carriera dell’architetto genovese e lo introdusse ad una metodologia che gli consentirà in seguito di approfondire in maniera feconda la relazione, necessariamente problematica, con la realtà sociale35. D’altronde è da notare

come la funzione sociale dell’utilizzo del tipo al fine di portare al raggiungimento dell’equilibrio sarebbe poi sottolineata da Tafuri, facendola risalire alle architetture di Durand e di Dubut36.

Il percorso sulla strada della partecipazione, ma anche della applicazione della tecnologia alla residenza subì un’accelerazione grazie all’impulso di gruppi di architetti radicali, come ad esempio gli Archigram, che affermarono di voler: “to defeat monumentality by composing buildings out of industrially produced, interchangeable and ultimately diposable ‘kit of parts’. Thereby the task of architecture would be passed from the architect to the user-client”37. Mentre nel 1966: “buildings with no capacity

to change can only become slums or ancient monuments”38.

Numerosi progettisti si confrontarono con la progettazione partecipata, offrendo agli utilizzatori la possibilità di mutare a piacimento la propria abitazione e una grande flessibilità nel tempo, esemplare per pregio può essere citato il caso di Montereau del 1971. I due architetti Arsene e Henry disegnarono un edificio di dieci piani in cui erano fissi esclusivamente i blocchi di servizio e il nucleo delle comunicazioni verticali. Un balcone lungo tutto il perimetro di un livello faceva sì che l’apparenza esterna non fosse turbata dalle decisioni degli abitanti, che progettarono il proprio appartamento suddividendolo secondo i loro gusti. Il cambiamento tra tale approccio e quello dei maestri era dato dal fatto che il tradizionale ruolo dell’architetto come costruttore di forme, creatore e controllore dei paesaggi urbani era diventato non più sostenibile come ricorda Reyner Banham39. Da un punto

di vista concettuale l’architetto aveva fornito il supporto su cui andavano ad inserirsi gli inserimenti (infill) a cura dei proprietari, come spiegato nel 1961 da John Habraken nel suo fondamentale testo Supports: an alternative to mass housing. La soddisfazione finale dell’occupante veniva vista come frutto del processo decisionale, che non arrivava semplicemente ad una condivisa “fisicalità del progetto, ma anche alla risoluzione del problema umano dell’identificazione e della proprietà emozionale”40.