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Utilitarismo, profitto e libertà: le ragioni economiche dell’antischiavismo

I. Il vento sta cambiando: il Somerset case e le origini del dibattito abolizionista

1.3 Utilitarismo, profitto e libertà: le ragioni economiche dell’antischiavismo

Le azioni dei quaccheri ebbero una grande risonanza in tutto il mondo occidentale. L’umanità e la benevolenza dimostrate con la liberazione degli schiavi portò infatti la Società degli Amici ad essere celebrata da tutti coloro che vedevano in essa un esempio di virtù e giustizia, un modello di comunità filantropica in grado di irradiarsi con la sua luce di speranza in Europa e nelle colonie. Voltaire vide l’affrancamento degli schiavi da parte dei quaccheri come una sorta di rivelazione, esprimendo il suo entusiasmo per un avvenimento che avrebbe dovuto “fare epoca nella

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storia della religione e dell’umanità”.59

Louis-Sébastien Mercier elogiò i “generosi quaccheri” per la concessione della “libertà ai loro negri: evento memorabile e toccante” che gli aveva fatto “versare lacrime di gioia” e che gli avrebbe fatto “detestare i cristiani” che si sarebbero rifiutati di imitarli.60

In Scozia John Millar, con toni più sobri, scrisse di loro come del “primo gruppo di uomini […] ad aver ritenuto che l’abolizione di questa pratica [fosse] un dovere nei confronti della religione e dell’umanità.”61 Tuttavia, nonostante l’ampia diffusione, il messaggio di fratellanza universale e l’amore incondizionato nei confronti del prossimo predicato dai quaccheri non avrebbero potuto affermarsi senza il sostegno di teorici dell’economia che si proponevano di tutelare particolari interessi individuali. E la simpatia di Voltaire per la causa degli schiavi - utilizzando le parole di Michèle Duchet - non fu che l’effetto di questo “intérêt bien entendu”-“interesse beninteso”- di cui gli economisti proclamavano le virtù.62

Fin dagli anni ’50 del Settecento alcuni intellettuali su entrambe le sponde dell’Atlantico sottolinearono l’importanza di riforme razionali in grado di modificare gli assetti economici esistenti. Il piano di riforme strutturali che essi prevedevano includeva una graduale emancipazione della schiavitù muovendo da considerazioni di tipo utilitaristico, che facevano perno sulla presunta antieconomicità del lavoro schiavile, sul

59 Citato in Duchet M., Anthropologie et histoire au siècle des Lumières, Paris, Maspero, 1971, p. 321.

Voltaire nel suo Commentaire sur l’Esprit des lois (1777) elogiò anche Montesquieu per le sue dichiarazioni di aperta condanna nei confronti della pratica della schiavitù.

60 Mercier L.S., L'An deux mille quatre cent quarante. Rêve s'il en fût jamais, Londra, 1771, p. 148. 61 Millar J., The Origin of the Distinction of Ranks: Or An Enquiry into the Circumstances Which Give

Rise to Influence and Authority in the Different Members of Society, (1771), Londra, W. Blackwood,

1806, p. 273. La prima edizione del 1771 era intitolata Observations Concerning the Distinction of Ranks

in Society. L’attacco dei quaccheri alla schiavitù era stato pubblicizzato enormemente nell’Europa

settecentesca da altri numerosi autori, tra i quali si mise particolarmente in luce – oltre a quelli che sono già stati citati – l’Abbé Raynal con l’Histoire des Deux Indes, la cui prima edizione uscì nel 1770, e su cui avremo tempo di ritornare.

62 Duchet M., Anthropologie et histoire au siècle des Lumières, cit., p. 321. Vedere anche Ginzburg C.,

Tolleranza e commercio. Auerbach legge Voltaire, in « Quaderni storici », vol. 37, n. 1, 2002, pp. 259-

284; e presente anche in Id., Il filo e le tracce: vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 112-137. Ginzburg studia il rapporto tra la tolleranza religiosa e l’attività economica in Voltaire a partire dalla sesta lettera delle Lettres philosophiques (1734). Di fronte al commercio, agli affari economici e all’interesse privato, il conflitto e la chiusura lasciavano spazio alla libertà intellettuale e religiosa, capace di favorire il dialogo reciproco in un clima di apertura verso l’altro. L’ “interesse ben inteso”, dunque, promuoveva la libertà.

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suo scarso profitto, legato al costo iniziale e al suo mantenimento, e sulla convinzione che l’istituzione servile in quanto tale vanificasse qualsiasi progresso nel metodo di produzione: un fatto questo che avrebbe determinato con il passare del tempo una inevitabile stagnazione economica e una ineluttabile crisi di sistema, così come era successo per l’Impero romano. Le riflessioni utilitaristiche non si fermavano certamente alle sole ragioni economiche, ma analizzavano anche gli effetti deleteri, nocivi e terribilmente dannosi che la schiavitù aveva sulla morale degli individui e sulla crescita della popolazione, sostenendo che essa era da considerarsi inumana, ingiusta e svantaggiosa per tutta la società. Montesquieu per primo aveva suggerito l’inutilità della schiavitù, affermando non solo che ogni lavoro poteva essere svolto da uomini liberi, ma che l’utilizzo della manodopera salariata era più produttiva di quella servile, come dimostrato dall’aumento dei guadagni provenienti dall’impiego di europei liberi e dall’introduzione di specifici macchinari nello sfruttamento delle miniere dello Hartz nella bassa Germania e in Ungheria. Qui, infatti, gli uomini si guadagnavano onestamente da vivere, avevano prospettive di carriera come quello di diventare “officier des mines”, lavoravano con operosità e spirito di iniziativa.63

Un osservatore direttamente interessato al problema fu Benjamin Franklin, l’americano più conosciuto della sua epoca per la vasta gamma delle sue attività e per i suoi esperimenti scientifici,

63 Montesquieu C.L., Lo spirito delle leggi, cit., libro XV, cap. 8, p. 407. “[…] Mi sembra che per quanto

penosi siano i lavori che esige la società, si possa fare tutto con gli uomini liberi. Ciò che mi fa pensare così è che prima che il cristianesimo avesse abolito in Europa la schiavitù civile, i lavori nelle miniere erano considerati tanto faticosi da ritenere che potevano essere fatti soltanto dagli schiavi o dai criminali. Ma è noto che oggi gli uomini che vi sono impiegati vivono bene. Mediante piccoli privilegi è stata incoraggiata la loro professione; all’aumento del lavoro si è unito quello del guadagno, e si è arrivati a portarli ad amare questa condizione più di qualunque altra che avessero potuto assumere.” Montesquieu continuava esaltando la maggiore produttività che derivava dall’utilizzo della manodopera salariata nel paragone con gli Ottomani: “Le miniere dei Turchi, nel banato di Temesvar, erano più ricche di quelle dell’Ungheria, e non producevano altrettanto perché i Turchi non immaginavano nulla al di fuori delle braccia dei loro schiavi. […] Non v’è, forse, regione della terra in cui non si possano impiegare al lavoro uomini liberi.” p. 407. Montesquieu redasse delle Mémoires sur les mines durante i suoi viaggi: tale manoscritto sulle miniere dell’Hartz e dell’Hannover fu completato nel 1751 e presentato all’Accademia di Bordeaux. In merito a questo vedere: Ehrard J., Lumières et esclavage, cit., pp. 147-148. Per approfondire l’argomentazione economica di Montesquieu vedere Spector C., Montesquieu et

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nonché uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo d’oltreoceano. Franklin, che come amministratore contribuiva allo sviluppo e alla modernizzazione di Filadelfia, era vicino all’ambiente quacchero64

ed era anche proprietario di schiavi.65 Nel 1751 completò le sue Observations dove analizzava l’utilità economica della schiavitù in America, sostenendo la sua scarsa redditività e sottolineando come essa fosse estremamente onerosa e, quindi, incapace di garantire la competitività della produzione americana di fronte ai prodotti manifatturieri britannici, opera di lavoratori salariati. Egli, infatti, calcolò il costo degli schiavi americani valutando nei minimi dettagli gli investimenti, i rischi, gli interessi sul capitale, le spese per il loro sostentamento e per il mantenimento del sistema, scoprendo che era molto più alto dell’utilizzo della manodopera libera inglese.

“Il lavoro degli schiavi non può essere tanto economico qui quanto il lavoro degli operai è in Inghilterra. […] Calcoliamo l’interesse dell’acquisto iniziale di uno schiavo, l’assicurazione o il rischio sulla sua vita, il vitto e il vestiario, le spese per la malattia e i costi per la perdita di tempo, il danno causato dalla sua negligenza sul lavoro (la negligenza è una caratteristica naturale dell’uomo che non trae profitto dal suo impegno e dalla sua diligenza), il costo di un sorvegliante per costringerlo a lavorare e i suoi furtarelli di volta in volta, essendo ogni schiavo per natura un ladro, e paragoniamo l’intera somma

64 Benjamin Franklin (1706-1790), in quanto proprietario di una tipografia a Filadelfia, aveva aiutato

alcuni predicatori quaccheri a pubblicare i loro infiammanti scritti antischiavisti durante il Grande Risveglio: Ralph Sandiford, A Brief Examination of the Practice of the Times, 1729 e Benjamin Lay, All

Slave-keepers that keep the Innocent in Bondage, Apostates, 1737. Nel 1762 pubblicò la seconda parte

delle Considerations of the Keeping of Negroes di John Woolman. Il 2 Ottobre 1728 Franklin acquistò insieme a Hugh Meredith il Pennsylvania Gazette, facendolo diventare nel corso di pochi anni il giornale più importante delle Tredici colonie e diffondendo progressivamente le idee per una necessaria ma graduale politica abolizionista.

65 Franklin acquistò almeno sette schiavi nel corso della sua vita: Joseph, Jemina, Peter, King, Othello,

George, Bob e forse Jack. Egli mostrò un coinvolgimento diretto con la schiavitù sia come acquirente, venditore e proprietario di schiavi, sia come cauto abolizionista e critico del sistema schiavile. Sulla storia degli schiavi posseduti dalla famiglia Franklin e sul rapporto tra Benjamin Franklin e la schiavitù vedere: Nash G.B., Franklin and Slavery, in « Proceedings of the American Philosophical Society », vol. 150, n. 4, 2006, pp. 618-635.

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con gli stipendi di un fabbro o di un tessitore in Inghilterra, vedrete che il lavoro è molto più economico lì di quello che possa essere con i negri qui.”66

Le statistiche puntavano a mostrare che continuare ad utilizzare la manodopera schiavile avrebbe indebolito l’economia americana a favore della madrepatria. In questa istituzione lo schiavo si identificava come un servitore perpetuo con il quale si instaurava una relazione di potere non contrattuale e non salariato, ma coatto e forzato, che minava alla base la libertà personale e soprattutto – in ottica prettamente utilitaristica – riduceva i profitti del padrone a causa della scarsa propensione al lavoro dell’individuo, che non vedeva nella sua attività nessun guadagno personale ma solo mero sfruttamento. Degna di nota è anche l’opinione negativa che nutriva Franklin nei confronti dello schiavo, considerato “per natura un ladro” e un essere subdolo: un giudizio questo che Franklin cambiò con la quarta edizione del saggio nel 1769.67 Per uno dei padri fondatori dei futuri Stati Uniti d’America le motivazioni che dovevano portare ad una graduale emancipazione degli schiavi, però, non erano solamente di natura economica. Attento osservatore della società del suo tempo, Franklin affermava che la schiavitù era dannosa moralmente, deleteria socialmente e nociva demograficamente. In primo luogo faceva degenerare le famiglie, quotidianamente versate nell’oppressione dello schiavo e colpevoli di educare i figli nella “superbia”,

66 Le Observations Concerning the Increase of Mankind, peopling of Countries, &c. di Benjamin

Franklin, scritte nel 1751, appaiono per la prima volta in: Clarke W., Observations on the Late and

Present Conduct of the French, with regard to their Encroachments upon the British Colonies in North America. Together with Remarks on the Importance of these Colonies to Great-Britain. [...] To Which is Added, Wrote by Another Hand, Observations Concerning the Increase of Mankind, peopling of Countries, &c, Boston (ristampato a Londra), 1755, pp. 42-54, cit., p. 46.

67 Questa opinione di Franklin riguardo allo schiavo, che potrebbe far pensare ad un atteggiamento

discriminatorio e razzista nei confronti dell’africano, fu rivista alla fine degli anni ’60. Nella quarta edizione delle Observations uscita nel 1769 Franklin modificò la frase presa in esame “almost every slave being BY NATURE a thief…” in “almost every slave being FROM THE NATURE OF SLAVERY a thief”. In questo modo egli intendeva chiarire che l’essere ladro non era una ripugnante qualità innata degli africani, ma uno sgradevole comportamento che contraddistingueva tutti gli uomini, senza distinzione, una volta ridotti nella condizione di schiavitù. Vedere in merito: Nash G.B., Franklin and

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nell’“indolenza” e nel “disgusto per il lavoro”, abituandoli così “ad affrontare la vita senza operosità.” In secondo luogo, lo spopolamento dell’Africa a causa della tratta faceva crescere parallelamente il numero dei neri nelle Indie occidentali, creando una terribile sproporzione demografica nelle colonie, dove i bianchi padroni di schiavi, indeboliti e indolenziti dalla loro inattività, stavano smettendo di avere figli. In terzo luogo, l’istituzione schiavile impediva lo sviluppo della popolazione bianca, lasciando i poveri senza impiego mentre poche famiglie ampliavano le loro proprietà.68 In queste affermazioni l’attenzione di Franklin non era posta sull’umanità e la moralità di concludere una volta per tutte l’esperienza schiavile, quanto sugli effetti che la schiavitù aveva in termini economici, sociali e morali sulla popolazione bianca. La schiavitù, oltre a creare un evidente svantaggio economico rispetto alla madrepatria e ad annichilire l’etica del lavoro, generava – e forse questo era anche peggio - una progressiva disuguaglianza e ingiustizia sociale tra gli stessi bianchi, divisi fra coloro che vivevano nella miseria perché non avevano nessun tipo di impiego e i ricchi che si impigrivano nell’agio e nel lusso. La scarsa presenza di manodopera bianca salariata sulle sponde occidentali dell’Atlantico e la limitata redditività della classe media, il principale motore di sviluppo economico dell’Europa, unite ad una pratica schiavile vista come corrosiva e rea di corrompere moralmente e psicologicamente ogni proprietario di schiavi, secondo Franklin, avrebbero causato danni irreparabili se non fossero state attuate delle riforme appropriate in merito.

Il problema della scarsa convenienza economica della schiavitù rispetto al lavoro retribuito fu affrontato l’anno seguente la pubblicazione delle Observations anche dal filosofo scozzese David Hume. Egli espose le proprie riflessioni nel saggio Of the

Popolousness of Ancient Nations, nel quale, rispondendo alle tesi sulla maggiore

68 Ivi, pp. 48-49.

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popolosità del mondo antico rispetto al tempo presente sostenuta dal ministro presbiteriano Robert Wallace, attaccò direttamente il sistema schiavile.69 Secondo Hume la principale differenza tra gli antichi e i moderni consisteva proprio nella scomparsa della schiavitù dall’Europa. Con l’affrancamento della manodopera servile, che per secoli aveva oltraggiato con crudeltà e ingiustizia il suolo europeo, non si era assistito solamente ad una eccezionale crescita demografica, ma anche ad un maggiore sviluppo economico e commerciale: segno evidente della superiorità civile e politica del Vecchio continente nei tempi moderni. Profondamente convinto “che la schiavitù [fosse] in generale svantaggiosa sia per la felicità che per la popolosità del genere umano”70, Hume spostò l’attenzione sulla persistenza dell’istituzione schiavile nelle colonie, condannandola sotto un duplice aspetto. Riprendendo un tema caro a Franklin e a Montesquieu71, Hume asserì che la vicinanza con gli schiavi e l’abitudine ad avere un potere pressoché illimitato sugli altri uomini avevano effetti assolutamente negativi sulla morale e sui comportamenti dei coloni europei, colpevoli di trasformarsi nelle terre di oltremare in piccoli violenti tiranni a cui tutto era permesso. In questo modo i civili europei finivano per perdere la naturale simpatia, gentilezza e compassione che li caratterizzava.72 In secondo luogo, Hume sostenne che lo schiavismo non era solo inumano e crudele ma anche ingiusto e profondamente svantaggioso da un punto di vista economico per tutta la società. Come osservava nel saggio del 1752: “crescere un

69 Il saggio Of the Popolousness of Ancient Nations apparve nei Political Discourses nel 1752. Il

problema della maggiore o minore popolosità del mondo antico rispetto al presente fu un tema molto controverso e dibattuto per tutta l’età moderna. Sulla disputa tra Wallace e Hume vedere: Sebastiani S., I

limiti del progresso: razza e genere nell’Illuminismo Scozzese, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 107-119. Ѐ

bene sottolineare che sia Hume che Wallace, pur avendo idee divergenti riguardo alla crescita demografica, erano entrambi decisamente antischiavisti. Sulla controversia antico-moderno in Hume e sul suo porsi come elemento di rottura rispetto al passato vedere il saggio di Ernest C. Mossner, Hume and

the Ancient-Modern Controversy, 1725-1752: A Study in Creative Scepticism, in « The University of

Texas Studies in English », vol. 28, n. 1, 1949, pp. 139-153.

70 Hume D., Political Discourses, Edimbugo, R. Fleming, 1752-1777, ripresa dal sito

www.davidhume.org, cap. X, Of the Populousness of Ancient Nations, pp. 377-501, cit., p. 396.

71 Montesquieu C.L., Lo spirito delle leggi, cit., libro XV, cap. 1. 72 Hume D., Of the Populousness of Ancient Nations, cit., pp. 383-384.

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bambino a Londra, fino a quando non può essere utile per lavorare, avrebbe un costo molto maggiore rispetto a comprare uno della stessa età dalla Scozia o dall’Irlanda, dove il bambino è stato cresciuto in una casa di campagna, coperto di stracci e nutrito con farina d’avena o patate.”73

Attraverso un ragionamento puramente economico Hume affermava sostanzialmente che era vantaggioso impedire la nascita di schiavi nelle zone ricche per evitare di doverli crescere a proprio carico fino ad un’età in cui potessero lavorare. Il suo ragionamento corrispondeva a quello per cui non conveniva allevare il bestiame nelle grandi città, dove le stalle, le derrate alimentari, la manodopera, gli alloggi per i servi erano più costosi, ma era preferibile acquistarlo già adulto in regioni povere, dove il costo era sicuramente molto minore. La schiavitù quindi risultava essere svantaggiosa sia per il padrone che per lo schiavo; una volta calcolati i costi e i guadagni si sarebbe perfettamente compreso come i profitti ottenuti dal lavoro libero fossero maggiori rispetto a quelli del lavoro servile. Spostando l’attenzione da Londra alle colonie, Hume si esprimeva in questi termini nell’edizione postuma del 1777:

“Dall’esperienza dei nostri piantatori [si deduce che] la schiavitù è poco vantaggiosa per il padrone così come per lo schiavo, dovunque sia possibile procurarsi dei servi retribuiti. Un uomo è obbligato a nutrire e a vestire il suo schiavo; mentre non deve fare niente per il suo servo: il prezzo dell’acquisto iniziale è per lui una grande perdita; senza menzionare che la paura della punizione non spingerà mai lo schiavo a tanta operosità quanto la paura di essere licenziato e non trovare un altro lavoro incute nell’uomo libero.”74

73 Ivi, p. 387.

74 Ivi, p. 390. Sulle riflessioni economiche di Hume vedere Whyte I., Scotland and the Abolition of Black

Slavery, 1756-1838, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2006, pp. 53-55. Sul pensiero economico di

Hume e le sue osservazioni in materia schiavile, e per un’analisi dell’antischiavismo scozzese si consiglia Sebastiani S., I limiti del progresso, cit., pp. 83-119, 295-307.

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In una logica pragmaticamente utilitaristico-razionale Hume consigliava come ridurre le spese attraverso oculate scelte in campo economico, suggerendo la definitiva abolizione della schiavitù e la sua sostituzione con la manodopera salariata. La maggiore competitività del lavoro libero per Hume era di fondamentale importanza per la crescita e lo sviluppo economico e sociale.

Le osservazioni di Montesquieu, Franklin e Hume, pur provenendo da intellettuali rinomati in tutto il mondo occidentale, non avrebbero avuto il loro pieno successo se non fossero state ampliate e tradotte nel rigoroso linguaggio della nascente economia politica che si stava delineando in Francia.75 A metà Settecento la Francia versava in una pessima situazione economica. L’accelerarsi delle trasformazioni, le ripetute crisi finanziarie, le continue guerre combattute contro le potenze rivali avevano indebolito ulteriormente l’ossatura di un Paese già colpito da anni di miseria e povertà. Le carestie di inizio secolo avevano mostrato le crepe di un settore agricolo profondamente disfunzionale, con pochi segnali di riforma e con falle sistemiche evidenti nella struttura gestionale e amministrativa.76 Secondo gli economisti del tempo la condizione di arretratezza delle campagne francesi era imputabile in primo luogo ad un sistema fiscale inefficiente e ingiusto, e in secondo luogo a barriere doganali che ostacolavano il

75 Per approfondire il tema di come nel XVIII secolo l’economia si affermi come luogo preminente

dell’azione politica vedere la seguente ottima raccolta di saggi: Albertone M., (a cura di), Governare il

mondo. L’economia come linguaggio della politica nell’Europa del Settecento, Milano, Fondazione G.

Feltrinelli, 2009. Sul concetto di “invenzione dell’economia” nel Settecento si consiglia Larrère C.,

L’invention de l’économie au XVIIIe siècle : du droit naturel à la physiocratie, Paris, Presses

universitaires de France, 1992. Per quanto riguarda l’affermazione dell’economia politica in un preciso contesto nazionale nel XVIII secolo vedere l’interessante studio comparativo di Robertson J., The

Enlightenment above National Context: Political Economy in Eighteenth-Century Scotland and Naples,

in «The Historical Journal», vol. 40, n. 3, 1997, pp. 667-697.

76 Sulla crisi di inizio secolo in Francia vedere l’illuminante saggio di Lebrun F., Les crises

démographiques en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, in « Annales », vol. 35, n. 2, 1980, pp. 205-234,

in particolare pp. 220-225. Nel 1709 abbiamo un inverno molto rigido, che distrugge le sementi ed è