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Edward Long e la History of Jamaica: diritto schiavile e gerarchia razziale nel secolo dei Lumi.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN STORIA E CIVILTÀ

Tesi di laurea in Storia Moderna

Edward Long e la History of Jamaica

Diritto schiavile e gerarchia razziale nel secolo dei Lumi

Candidato Relatore

Elia Morelli Prof. Andrea Addobbati

Correlatori Prof. Roberto Bizzocchi

Prof.ssa Silvia Sebastiani

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INDICE

Introduzione ... 3

I. Il vento sta cambiando: il Somerset case e le origini del dibattito abolizionista .. 6

1.1 La svolta di Montesquieu ... 16

1.2 Filantropismo, simpatia e “etica della benevolenza” ... 25

1.3 Utilitarismo, profitto e libertà: le ragioni economiche dell’antischiavismo ... 37

1.4 La legge naturale e la costruzione del linguaggio dei diritti dell’uomo ... 58

1.5 Il Somerset case e l’inizio della battaglia abolizionista in Inghilterra ... 74

II. Edward Long, le Candid Reflections e la History of Jamaica: libertà politica e diritto schiavile ... 101

2.1 Autonomia governativa e libertà politica ... 104

2.2 L’inalienabile diritto di proprietà: l’umanità divisa tra padroni e schiavi ... 132

2.3 Lo statuto della schiavitù secondo i giusnaturalismi ... 147

III. Il commercio schiavile, il sistema di piantagione e la ricchezza della nazione: la Giamaica, perla dell’impero britannico ... 166

3.1 Il timore della decadenza ... 166

3.2 La Giamaica, un paradiso terrestre ... 176

3.3 Proposte di riforma e modernizzazione ... 184

3.4 Contro la “fantasiosa idea di libertà” degli abolizionisti: l’importanza del commercio e dell’istituzione schiavile ... 199

3.5 La riforma agricola e il nuovo modello di piantagione ... 215

IV. Mito della razza e supremazia delll’uomo bianco ... 235

4.1 “Perché la bile dei Negri è nera?”: caratteri fisici e morali degli africani ... 236

4.2 Poligenismo e grande catena dell’essere ... 259

4.3 Categorizzazione, stigmatizzazione, barbarizzazione ... 268

Conclusione ... 276

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INTRODUZIONE

Questo lavoro di tesi specialistica è nato dal mio interesse per l’Illuminismo, maturato durante i corsi, i seminari e le conferenze a livello universitario che ho seguito. In particolare mi è premuto sottolineare come alcuni dei massimi pensatori di quel movimento, che viene considerato fondante per i valori più positivi dell’Europa contemporanea, nutrirono ed espressero chiaramente posizioni razziste e di sostegno alla schiavitù.

Mi sono proposto perciò di indagare le premesse e le cause della giustificazione dell’istituzione schiavile e delle particolari forme di razzismo che si manifestarono all’interno del secolo dei Lumi, e più nello specifico nel mondo britannico, partendo dalla figura di Edward Long (1734-1813), un gentleman inglese, proprietario di piantagioni in Giamaica, giudice della Vice Admiralty Court nell’isola caraibica, autore della History of Jamaica (1774) e personaggio rispettato della società britannica, che scrisse periodicamente numerosi pamphlet e articoli di giornale riguardo alle politiche imperiali e al commercio dello zucchero, sostenendo la legittimità della schiavitù e teorizzando l’inferiorità razziale dei neri. Quindi, la scelta di Edward Long e della

History of Jamaica, è stata dettata dal fatto che in essa il pensiero schiavista si

organizza in un sistema coerente di difesa, affiancando alle argomentazioni tradizionali in favore della schiavitù, una serrata critica delle tesi abolizioniste, avendo l’ambizione di ergersi programmaticamente come una summa della visione politica, economica, sociale e culturale del mondo imperiale britannico del Settecento.

Prima di introdurre la figura di Long, mi è parso opportuno partire dall’analisi delle origini del dibattito abolizionista, descrivendo il contesto storico in cui fiorì un forte sentimento di opposizione alla schiavitù, destinato a diffondersi rapidamente grazie al sostegno di una società in piena fibrillazione. Nella metà del Settecento, infatti,

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stava emergendo una coscienza antischiavista delineabile in tre approcci fondamentali: primo, l’affermazione di un atteggiamento filantropico-umanitario caratterizzato da una rinnovata fede religiosa e da una forte capacità simpatetica dell’individuo; secondo, la divulgazione di argomentazioni utilitaristico-razionali, che sottolineavano l’importanza di riformare radicalmente gli assetti socio-economici esistenti; terzo, la costruzione di un nuovo linguaggio politico, quello dei diritti dell’uomo, teso a riconoscere determinate prerogative come naturali e inalienabili. In tal senso, particolare attenzione è stata posta all’analisi del dibattito scatenatosi in Gran Bretagna intorno al Somerset

case: un procedimento giuridico, il cui esito venne visto dai contemporanei come

l’inizio della legislazione abolizionista.

In seguito ho introdotto la figura di Edward Long e ho dedicato la mia attenzione allo studio del suo pensiero attraverso l’analisi dei suoi testi principali, nei quali egli mostrava di avere un triplice obiettivo: primo, convincere i lettori che la schiavitù era un’istituzione legittima e necessaria al benessere della Gran Bretagna; secondo, rappresentare la Giamaica come un eccellente luogo di insediamento per i britannici e una straordinaria fonte di ricchezza per tutto l’impero; terzo, dimostrare che gli africani erano razzialmente inferiori e quindi naturalmente atti alla sottomissione.

Inizialmente ho deciso di sottolineare il particolare contrasto dato dal pensiero politico di Long con la sua ferma convinzione della legittimità dell’istituzione schiavile. Il gentleman inglese, infatti, se da una parte si ergeva a difensore dei privilegi dei coloni davanti alla corona, dall’altra negava qualsiasi diritto a chi era detenuto in catene.

Quindi, ho cercato di delineare le motivazioni economiche di Long riguardo alla schiavitù e di cogliere le sue proposte riformatrici in merito al sistema di piantagione. Se l’istituzione schiavile e il commercio degli schiavi avevano permesso l’emergere e l’affermarsi nel XVIII secolo della Gran Bretagna come la principale potenza mondiale,

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contemporaneamente era necessario aumentare la produzione e la rendita derivanti dalle colonie.

Nel capitolo conclusivo ho esposto la visione sulla razza di Long, analizzando gli anatomisti, i naturalisti e gli intellettuali da lui citati, per la costruzione di un’immagine fortemente denigratoria degli africani, tale da giustificarne la sottomissione.

Ho deciso di non trattare nell’introduzione la storiografia pertinente il tema di cui è oggetto la presente tesi, preferendo discuterne all’interno di ciascun capitolo.

Per il momento mi sono limitato a un primo approccio alla figura di Long e del suo pensiero riguardo allo schiavismo e al concetto di razza, basandomi su libri, articoli e, in particolare, su alcune fonti primarie a stampa e manoscritte, che ho avuto l’opportunità e il piacere di consultare alla Bibliothèque Nationale de France e alla British Library, durante i miei soggiorni a Parigi e a Londra tra gennaio e giugno 2017. La stesura della tesi nella sua forma attuale è stata possibile anche in seguito alla mia permanenza per cinque mesi all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, dove ho potuto beneficiare della supervisione della professoressa Silvia Sebastiani, che di razza e Illuminismo è una dei maggiori esperti, e che qui ringrazio per avermi seguito con grande attenzione, per la sua disponibilità e per le sue preziose osservazioni. Un grazie speciale va anche ai professori Roberto Bizzocchi e Andrea Addobbati dell’Università di Pisa per il loro aiuto e i loro consigli. Inoltre ringrazio il professor Guido Abbattista dell’Università degli Studi di Trieste per il suo interesse e le sue riflessioni.

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I. Il vento sta cambiando: il Somerset case e le origini del dibattito abolizionista

“Am I not a Man and a Brother?”1

Fiumi di inchiostro e di parole sono state spese per sottolineare l’importanza avuta dall’Illuminismo come elemento di profonda rottura con il passato, dell’importanza avuta dal secolo dei Lumi nel liberare lo spirito del tempo dalla tradizione, dalla superstizione, dall’oscurantismo religioso e da una soggezione servile all’autorità, segnando un’epoca in cui la ragione rivelò la verità della natura, sostenne i diritti dell’uomo e indicò la strada verso il progresso e la perfettibilità delle capacità umane. L’uomo, fino ad allora, si era trovato in una condizione di minorità che non era da imputarsi alla mancanza di intelligenza ma alla mancanza di coraggio di servirsi delle proprie capacità mentali. Emergeva un nuovo, liberativo, esortante imperativo categorico che si delineava chiaramente nella formula kantiana: “Sapere Aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto.”2

Era arrivato il momento di colpire al cuore le pretese universalistiche della Chiesa cattolica e di portare finalmente la luce in un mondo che era stato per lungo tempo dominato dalle tenebre del dogmatismo religioso. L’età della Ragione rappresentò, così, l’inizio di una nuova era contrassegnata dalla tolleranza religiosa, dal pluralismo politico e dalla fine di antichi pregiudizi che per secoli avevano oppresso l’Europa, mantenendola nell’ignoranza.3

1

Frase riportata su un medaglione creato dal ceramista inglese Josiah Wedgwood (1730-1795) nel 1787 per la campagna abolizionista.

2

Citato in E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, Milano, Sansoni, 2004, p. 153.

3 Tra le opere che più insistono sulla profonda rottura con il passato e il passaggio in cui si è forgiato lo

spirito dell’illuminismo vi sono i testi classici di: Hazard P., La crise de la conscience européenne

1680-1715, Parigi, 1935 (trad. it. La crisi della coscienza europea, Torino, Einaudi, 1946); e Gay P., The Enlightenment: an Interpretation, 2 voll., New York, Knopf, 1966-1969; e più recentementeTortarolo E.,

L’Illuminismo. Ragioni e dubbi della modernità Roma, Carocci,1999; Israel J.I., A Revolution of the Mind: Radical Enlightenment and the Intellectual Origins of Modern Democracy, Princeton, Princeton

University Press, 2010, (trad. it. Una rivoluzione della mente: l’Illuminismo radicale e le origini

intellettuali della democrazia moderna, Torino, Einaudi, 2011); Ferrone V., Lezioni Illuministiche,

Roma-Bari, Laterza, 2010; Pagden A., The Enlightenment: And Why it Still Matters, New York, Random House, 2013; e il saggio di James Schmidt, Enlightenment as Concept and Context, in « Journal of the History of Ideas », vol. 75, n. 4, 2014, pp. 677-685.

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In questo senso sarebbe logico presumere un forte e convinto atteggiamento abolizionista. Tuttavia, alcuni tra i più importanti personaggi del XVIII secolo decisero di giustificare la schiavitù come proficua economicamente, necessaria politicamente, buona socialmente e legittima per natura. Quindi non deve stupirci il fatto che proprio durante l’età dei Lumi il commercio degli schiavi africani conobbe il suo apice godendo di una grande prosperità. Se le catene dell’assolutismo religioso si stavano rompendo, quelle dello schiavismo e della discriminazione erano ancora lontane dall’essere spezzate. Allo stesso tempo, però, in un’epoca in cui le università e le accademie scientifiche promuovevano indagini e dibattiti sugli argomenti più controversi, era del tutto naturale che molti studiosi, filosofi, intellettuali, scienziati, uomini di cultura in generale si interrogassero e discutessero se la schiavitù di milioni di individui fosse realmente conforme alla morale, alla giustizia, alla legge naturale e se fosse addirittura vantaggiosa per il benessere pubblico. L’implorante domanda di un giovane schiavo nero incatenato che in ginocchio chiedeva “Am I not a Man and a Brother?” necessitava di una risposta. L’immagine del terribile e commovente grido di un povero schiavo rivolto al cielo e ai suoi crudeli padroni bianchi iniziò a circolare rapidamente nei dipinti e nei medaglioni dell’epoca, trovando il sostegno di illuministi, cristiani, pensatori e diventando ben presto il simbolo della lotta abolizionista.4

4 La frase e l’immagine incise da Wedgwood divennero il simbolo della Society for the Abolition of the

Slave Trade, fondata il 22 maggio 1787. Per approfondire la storia della creazione e diffusione del cameo

vedere l’imponente opera in due volumi del membro fondatore della Society Thomas Clarkson, The

History of the Rise, Progress and Accomplishment of the Abolition of the African Slave-Trade by the British Parliament, 2 vol., London, Longman, Hurst, Rees, and Orme, 1808, in particolare vol. I, cap. 20,

pp. 450-451 sull’elaborazione del medaglione e vol. II, cap. 2, pp. 191-192 sulla sua diffusione. Scrisse Clarkson a proposito della distribuzione dei camei con raffigurante il nero supplichevole: “Mr. Wedgwood made a liberal donation of these, when finished, among his friends. I received from him no less than five hundred of them myself. They, to whom they were sent, did not lay them up in their cabinets, but gave them away likewise. They were soon, like The Negro’s Complaint, in different parts of the kingdom. Some had them inlaid in gold on the lid of their snuffboxes. Of the ladies, several wore them in bracelets, and others had them fitted up in an ornamental manner as pins for the hair. At length, the taste for wearing them became general; and thus fashion, which usually confines itself to worthless things, was seen for once in the honourable office of promoting the cause of justice, humanity, and freedom.” Cit. Clarkson T., op. cit., vol. II, pp. 191-192. Per comprendere l’importanza e la forza del

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In questo capitolo ci occuperemo di analizzare quali furono gli argomenti che giustificarono la presa di coscienza abolizionista da parte dell’opinione pubblica occidentale e le origini del movimento - o meglio di quei movimenti - che diedero battaglia all’istituzione schiavile.

David Brion Davis, nelle sue imprescindibili opere sul problema della schiavitù, ha localizzato i fondamenti intellettuali dell’umanitarismo, portavoce dell’emergere delle istanze abolizioniste, negli importanti cambiamenti spirituali e religiosi settecenteschi, ponendo particolare attenzione alla teologia e al pensiero secolare.5 Eric Williams, invece, ha visto la controversa abolizione della schiavitù come parte di un più ampio conflitto tra i sostenitori di una nuova politica economica, basata sul libero mercato, e i difensori del vecchio sistema coloniale poggiante sulla dottrina mercantilista.6 Il messaggio cristiano di fratellanza universale tra tutti gli uomini predicato dai movimenti religiosi settecenteschi permeati di una nuova, profonda fede e le teorie economiche che emersero a metà secolo promuovendo il rinnovamento tecnologico e il libero mercato del lavoro contribuirono, in modi diversi, all’emancipazione dalla schiavitù. Entrambe queste interpretazioni sono, dunque, da

cameo come veicolo di propaganda del messaggio abolizionista, vedere lo scambio epistolare del 1788 tra Josiah Wedgwood e Benjamin Franklin. Quest’ultimo, dopo aver ricevuto delle copie del cameo per distribuirle tra gli Amici quaccheri e la popolazione dei neonati Stati Uniti d’America, ringraziò e si congratulò con il ceramista inglese mostrando tutta la sua stima poiché “by contemplating the Figure of the Suppliant, (which is admirably executed) that I am persuaded it may have an Effect equal to that of the best written Pamphlet, in procuring Favour to those oppressed People.” Cit. The Papers of Benjamin

Franklin, The Packard Humanities Institute, Digital Edition, franklinpapers.org, Lettera a Josiah

Wedgwood, da Benjamin Franklin, Philadelphia, 15 Maggio 1788. Sull’immagine del « Negro’s Complaint » il poeta inglese William Cowper (1731-1800) compose alcuni versi, riportati da Clarkson T., op. cit., vol. II, pp. 188-190.

5 Vedere le seguenti opere a cui farò riferimento in maniera più dettagliata in seguito: Davis D.B., The

Problem of Slavery in Western Culture, Ithaca, Cornell University Press, 1966 (trad. it. Il problema della schiavitù nella cultura occidentale, Torino, Società Editrice Internazionale, 1971); Id., New Sidelights in Early Antislavery Radicalism, in «The William and Mary Quarterly», vol. 28, 1971, pp. 585-594; Id., The Problem of Slavery in the Age of Revolution 1770-1823, Ithaca, London, Cornell University Press, 1975;

Id., The Image of God: Religion, Moral Values, and our Heritage of Slavery, New Haven, Yale University Press, 2001; Id., Inhuman Bondage :The Rise and Fall of Slavery in the New World, Oxford, New York, Oxford University Press, 2006.

6 Williams E., Capitalism and Slavery, Chapel Hill, The University of Carolina Press, 1944 (trad. it.

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ritenersi corrette. Se fu senza dubbio l’emergere dello spirito umanitario a dare inizio alla presa di coscienza del problema schiavile e ne ampliò la discussione; è altrettanto vero che il successo finale del movimento abolizionista non sarebbe stato possibile senza il sostegno di teorici dell’economia che assicurarono di tutelare, se non addirittura di incrementare, particolari interessi finanziari e commerciali. In tal senso, prima di osservare più da vicino le dinamiche delle origini abolizioniste, bisogna focalizzare la nostra attenzione su una particolare combinazione di fattori che permise agli interessi umanitari ed economici di promuovere la battaglia antischiavista, con particolare riguardo per quello che stava accadendo nell’impero britannico.

I piantatori delle Indie Occidentali britanniche durante la prima metà del Settecento fecero lauti guadagni grazie allo sfruttamento delle proprietà che avevano acquistato oppure ricevuto in dono dopo propizie campagne militari. Le enormi fortune che i coloni ottenevano dalle piantagioni caraibiche permettevano loro di fare ritorno in patria, di acquistare una proprietà terriera e di assicurarsi un posto in Parlamento, diventando così figure di spicco della società inglese e nutrendo l’ambizione di poter puntare a prestigiose cariche politiche.7 Tuttavia, la pratica di guardare alle Indie Occidentali come opportunità da sfruttare per raggiungere “gloria, fortuna e ricchezza” e, quindi, come mezzo di elevazione sociale in Inghilterra, acuì i problemi relativi

7 Edward Long nella sua monumentale opera in tre volumi, The History of Jamaica. Or, General Survey

of the Ancient and Modern State of That Island: with Reflections on its Situation, Settlements, Inhabitants, Climate, Products, Commerce, Laws, and Government, 3 vols., London, T. Lowndes, 1774, che è oggetto

principale di questa tesi e che analizzeremo più approfonditamente dal prossimo capitolo, parlava in questi termini della situazione relativa alla migrazione dalla madrepatria verso le colonie: “I genitori vanno via poveri, i figli tornano a casa ricchi”, vol. I, p. 511. Sull’ascesa dei piantatori inglesi nelle Indie Occidentali si consiglia: Pares R., A West India Fortune, Londra, Longmans, Green and co., 1950; Dunn R.S., Sugar and Slavery: The Rise of the Planter Class in the English West Indies, 1624-1713, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1972; Green W.A., The Planter Class and British West Indian

Sugar Production, before and after Emancipation, in « The Economic History Review », vol. 26, n. 3,

1973, pp. 448-463; e in particolare i più recenti: Greene J.P., Pursuit of Happiness: The Social

Development of Early Modern British Colonies and the Formation of American Culture, Chapel Hill,

London, University of North Carolina Press, 1988; dello stesso autore, Settler Jamaica in the 1750s: A

Social Portrait, Charlottesville, University of Virginia Press, 2016; e Burnard T. e Garrigus J., The Plantation Machine: Atlantic capitalism in French Saint-Domingue and British Jamaica, Philadelphia,

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all’amministrazione coloniale. L’assenteismo dei padroni, lo strapotere dei sorveglianti e, in generale, una pessima gestione delle piantagioni accelerarono la decadenza delle colonie sul piano politico, rischiando di limitarne progressivamente la esponenziale crescita economica.8 Tali problemi non erano inevitabili. Le isole caraibiche appartenenti alla Francia, per esempio, avevano aumentato rapidamente la loro produzione con piantagioni più piccole, meno assenteismo e, almeno secondo alcuni attenti osservatori contemporanei come Edward Long, con l’introduzione di norme accurate e una riduzione dello sfruttamento del sistema schiavile: segni evidenti di una efficace azione legislativa.9 Alla crisi politica e amministrativa che si stava assistendo nelle colonie, bisognava aggiungere i pericoli che correvano le flotte mercantili, continuamente esposte agli attacchi dei vascelli francesi e spagnoli; i disegni di conquista che nutrivano le potenze rivali nei confronti proprio delle colonie caraibiche inglesi, al centro di mire espansionistiche per aumentare il prestigio nazionale; il consenso interno alle monarchie e la fiducia dei mercati in una logica fortemente mercantilista; infine, le colonie in Nord America, che dovevano essere protette dalle incursioni dei nativi le cui alleanze oscillavano spesso da una parte all’altra rendendo insicuri i confini.10

Nel 1754 alcuni contrasti sul controllo della confluenza delle foci dell’Ohio fece precipitare la situazione tra i coloni francesi della Nuova Francia e le colonie britanniche, scatenando la violenza in Nord America. Due anni dopo, l’invasione della Sassonia da parte delle truppe prussiane di Federico II diede avvio alle belligeranze in

8 Era questa una delle principali preoccupazioni di Long, su cui torneremo successivamente.

9 Sulla situazione francese vedere Long E., The History of Jamaica, cit., amministrazione coloniale, I,

96-97, nota T; III, 941-949; politica economica, I, 403, 434, 448, 454; II, 520; popolazione e immigrazione, I, 513; Code Noir e altre leggi in merito, II, 405, 440-442; III, 921-941.

10 Sullo scontro tra le potenze per il dominio dei mari con particolare riguardo per il ruolo avuto dalla

Gran Bretagna vedere Rodger N.A.M., The Command of the Ocean. A Naval History of Britain,

1649-1815, London, A. Lane, National Maritime Museum, 2004. Per la situazione coloniale in Nord America e

I rapporti tra inglesi, francesi e nativi vedere Testi A., La formazione degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 36-52.

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Europa: era iniziata la guerra dei Sette Anni. Il conflitto infuriò su tutti i continenti e fu concluso dal trattato di Parigi del 1763 e per le dimensioni economiche, politiche e militari che ebbe fu definito a ragione come la “prima guerra mondiale” nel senso moderno del termine.11 La sua conclusione segnò il trionfo della Gran Bretagna come principale potenza mondiale per forza militare ed estensione territoriale, sancendo il suo dominio sugli oceani;12 ma proprio questo trionfo segnò anche, paradossalmente, l’aggravarsi dei suoi problemi. Anthony Barker ha sottolineato come il contrasto tra l’Inghilterra e le sue colonie caraibiche divenne particolarmente aspro proprio alla fine del conflitto, quando la lobby dei piantatori fece pressione nei confronti dello stato affinché prendesse il controllo del Canada e non della Guadalupa, come ricompensa per la vittoria ottenuta. “Il controllo della Guadalupa”, ricca di oro e piantagioni, “avrebbe avuto più senso in termini mercantilistici, ma tale decisione avrebbe rappresentato una seria minaccia per i piantatori britannici”, timorosi della competitività interna che sarebbe potuta derivare dalla sua maggiore produttività.13 A mio avviso, però, questo non è da considerarsi un punto di particolare contrasto tra le colonie e la madrepatria. La Gran Bretagna era per ovvi motivi fortemente interessata ad espellere definitivamente i francesi dal continente nordamericano e rendere finalmente sicure una

11 Per approfondire le ragioni e le dinamiche del conflitto rimando ai seguenti testi: Black J., A System of

Ambition? British Foreign Policy, 1660-1793, London, Longman, 1991, pp. 192-203; Id., The British Seaborne Empire, New Haven (Conn.), Yale University Press, 2004, pp. 114-125; Anderson F., The Crucible of War: The Seven Years’ War and the Fate of Empire in British North America, 1754-1766,

New York, Knopf, 2001; Marshall P.J., The Making and Unmaking of Empires: Britain, India, and

America c. 1750-1783, New York, Oxford, Oxford University Press, 2005; Simms B., Three Victories and a Defeat: The Rise and the Fall of the First British Empire, 1714-1783, London, A. Lane, 2007;

Szabo F.A.J., The Seven Years War in Europe, 1756-1763, Harlow, New York, Pearson Longman, 2008; Danley M.H. e Speelman .J., The Seven Years’ War: Global Views, Leiden, Boston, Brill, 2012; Page A.,

Britain and the Seventy Years War, 1744-1815: Enlightenment, Revolution and Empire, Basingstoke,

Palgrave Macmillan, 2015; Dziembowski E., La guerre de Sept Ans, 1756-1763, Paris, Perrin, 2015.

12 In Gran Bretagna si iniziò a parlare di impero britannico proprio dopo la vittoria della guerra dei Sette

Anni. Per il dominio dei mari vedere il testo già citato Rodger N.A.M., The Command of the Ocean, op. cit.; mentre per le riflessioni sulle idee di impero, l’amministrazione, il controllo dei nuovi domini e la costruzione dell’apparato burocratico vedere Marshall P.J., The Making and Unmaking of Empires, op. cit., pp. 158-206. Marshall discute di come far conciliare le idee di “old” e “new empire”. Si consiglia anche Black J., The British Empire: A History and a Debate, London, Routledge, 2016.

13 Barker A.J., The African Link: British Attitudes to the Negro in the Era of the Atlantic Slave Trade,

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volta per tutte le proprie colonie settentrionali. Inoltre non bisogna sottovalutare l’importanza economica dei domini della Nuova Francia sia per la disponibilità di terre da mettere a coltura sia come possibile mercato interno per la vendita di prodotti manifatturieri. Ed è proprio per questi motivi che durante i negoziati di pace degli anni ‘60 un’eventuale cessione del Canada non venne mai presa in considerazione, nonostante le pressioni nei confronti della Francia affinché rinunciasse alla sovranità su alcune isole caraibiche proprio in ottica mercantilista. Tuttavia la Francia, sconfitta, pur accettando con riluttanza la perdita di numerosi territori, grazie alla fermezza del duca di Choiseul, riuscì nell’obiettivo di preservare i tre baluardi essenziali della sua struttura economica globale: le isole dello zucchero nelle Antille, i diritti di pesca sui grandi banchi di Terranova e la partecipazione al commercio degli schiavi africani.14 Così sebbene la conquista del Canada promettesse, secondo le parole di Giorgio III, “vantaggi solidi e duraturi a tutti i sudditi” aprendo nuove lucrose opportunità di guadagno con “i suoi fertili e vasti territori” in gran parte ancora da esplorare,15

in realtà proprio la supremazia in Nord America non fece altro che aggravare i problemi di difesa e amministrazione, appesantendo ulteriormente il bilancio statale.

14 Per i negoziati di pace anglo-francesi che condussero al definitivo trattato di Parigi del 10 febbraio

1763 vedere l’eccellente lavoro di Szabo F.A.J., The Seven Years War in Europe, 1756-1763, cit., pp. 345-350, 353-357, 403-405, 411-413. Per il dibattito interno alla Gran Bretagna su quale territorio fosse meglio mantenere tra Guadalupa e Canada si consiglia Koehn N.F., The Power of Commerce: Economy

and Governance in the First British Empire, Ithaca, Cornell University Press, 1994, pp. 168-174. A

livello coloniale e in particolare nel contesto americano la Francia abbandonò il Canada, inclusi Cape Breton e le isole del golfo di San Lorenzo, così come la Louisiana orientale, conservando i diritti di pesca nell’Atlantico settentrionale e ricevendo come ancoraggi le isole di St. Pierre e Miquelon. Nei Caraibi conservò la Guadalupa, la Martinica, Marie Galante e Santa Lucia, riconoscendo la sovranità britannica su Tobago, Dominica, St. Vincent e l’arcipelago delle Grenadine. Vedere anche Joutard P., Poton D. e Veyssière L., (sous la direction de), Vers un nouveau monde atlantique : les traités de Paris, 1763-1783 :

[actes du colloque, La Courneuve, Paris, Pierrefitte-sur-Seine, 20-23 novembre 2013], Rennes, Presses

universitaire de Rennes, 2016.

15 Annuncio di Giorgio III riportato nel London Gazette, 26-30 Aprile 1763, citato in Marshall P.J., The

Making and Unmaking of Empires: Britain, India, and America c. 1750-1783, cit., p. 273. Sempre lo

stesso giornale riportava l’euforia diffusasi immediatamente dopo la fine del conflitto per le possibili opportunità di guadagno. I magistrati e il consiglio di Glasgow, per esempio, in linea con le parole del re, prevedevano un aumento dei guadagni e una crescita del mercato interno, grazie “agli immensi territori aggiunti all’impero britannico in Nord America”, e dello stesso avviso erano anche a Bristol, London

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Le finanze britanniche erano esauste. L’Inghilterra aveva combattuto la Francia per terra e per mare, in Europa, Africa, Asia e America, ed erano state le flotte e gli eserciti di portata globale ad aver prosciugato le risorse statali e fatto raddoppiare il debito pubblico fra il 1756 (74 milioni di sterline) e il 1763 (133 milioni di sterline)16, per attestarsi nel 1768 a 148 milioni di sterline come stimato dall’ufficiale William Knox.17 Il caos fiscale provocato dalla guerra ebbe conseguenze immediate. Se i costi del conflitto fecero sprofondare la Francia in una spirale di debito che sarebbe stata una delle principali cause dello scoppio della Rivoluzione, in Gran Bretagna portarono ad una nuova politica molto più centralizzata, restrittiva e fiscalmente ingombrante per tutti i sudditi dell’impero e in particolare per i coloni nordamericani, tra i primi a necessitare dell’intervento militare e fino ad allora agevolati in materia di tassazione. Emblematiche furono in tal senso le parole che pronunciò Edmund Burke quando, entrato per la prima volta in Parlamento nel dicembre 1765, lo trovò “in possesso di un illimitato potere legislativo sulle colonie.”18

L’eliminazione dei francesi dal Nord America, grazie a cui

16 Sul debito nazionale britannico vedere Black J., A System of Ambition? British Foreign Policy, cit., p.

90; e Holmes G.S., The Age of Oligarchy: Pre-industrial Britain, 1722-1783, Harlow, Longman, 1993, p. 368. Se l’esercito aumentò relativamente passando da 30 mila uomini negli anni ’30 del Settecento a 45 mila alla fine della guerra (Black, p. 74.), la flotta crebbe vertiginosamente contribuendo in maniera decisiva a peggiorare la situazione finanziaria. Gli arruolati nella Royal Navy passarono da 10149 nel 1754 a 84797 nel 1762, per diminuire fino a 38350 nel 1763: vedere Rodger N.A.M., The Command of

the Ocean, op. cit., pp. 636-639. Mentre il tonnellaggio complessivo dei vascelli da guerra se era 276 mila

nel 1755 per 216 navi raggiunse le 377 mila nel 1765 con 266 navi per attestarsi a 337 mila per un totale di 227 navi alla vigilia della rivoluzione americana: vedere l’esauriente opera di Glete J., Navies and

Nations: Warships, Navies and State Building in Europe and America, 1500-1860, 2 vol., Stockholm,

Almqvist & Wiksell International, 1993, vol. II, pp. 552-553, appendice sul rapporto tra le forze navali delle potenze europee, 549-595. Per un’analisi approfondita dei costi e dei benefici della guerra, vedere il brillante saggio di Larry Neal, Interpreting Power and Profit in Economic History: A Case Study of Seven

Years’ War, in « Journal of Economic History », vol. 37, n. 1, 1977, pp. 20-35. Sulla situazione generale

all’interno dell’impero britannico prima della rivoluzione americana si consiglia Marshall P.J. e Williams G., The British Atlantic Empire before the American Revolution, London, F. Cass, 1980; e Stone L. (a cura di), An Imperial State at War: Britain from 1689-1815, London, New York, Routledge, 1994.

17 Knox W., The Present State of the Nation: Particularly with respect to its Trade, Finances, & &,

addressed to the King and both Houses of Parliament, London, J. Almon, 1768, pp. 23-29, 34-35.

William Knox (1732-1810) fu un ufficiale dell’esercito britannico di origini scoto-irlandesi che ebbe un ruolo importante nella costruzione dell’Impero inglese. Per approfondirne la vita e il pensiero vedere la biografia che ha scritto Leland J. Bellot, William Knox: The Life and Thought of an Eighteenth-Century

Imperialist, Austin, London, University of Texas Press, 1977.

18 Letter to the Sheriffs of Bristol, citato in Marshall P.J., The Making and Unmaking of Empires: Britain,

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la popolazione anglo-americana si sentì meno dipendente per la sua sicurezza dalle armi imperiali e libera di dilagare verso ovest, e l’inasprimento delle misure fiscali -formalizzate con l’imposizione del Revenue Act nel 1764 e dello Stamp Act nel 1765- acuirono notevolmente i rapporti tra le colonie e la madrepatria. Le ragionevoli richieste della Gran Bretagna, costretta a trovare risorse necessarie per far fronte ad un grave deficit finanziario ed appianare le spese generate dall’aumento territoriale e dalla crescita dell’apparato burocratico-amministrativo, e le altrettanto ragionevoli richieste degli anglo-americani appesantiti dal carico fiscale e desiderosi di espandersi nelle terre ad ovest, nonostante la Royal Proclamation lo vietasse esplicitamente, entrarono in rotta di collisione. Per i britannici, timorosi di eventuali ritorsioni da parte delle potenze rivali, tutte le parti dell’impero dovevano contribuire più efficacemente alla difesa comune, ma questo - come si può capire - pose degli interrogativi su come riconciliare la libertà con l’esercizio di un’autorità imperiale che aveva cercato di dirigere una guerra comune, finendo per rendere soffocante il controllo sulle colonie.

L’inaspettata combinazione di fattori - critica situazione economica e finanziaria, complessa gestione politico-amministrativa di un impero globale, accentuazione dei contrasti con le colonie - ebbe una particolare influenza per l’emergere dell’abolizionismo. Alcuni anglo-americani in cerca di libertà iniziarono a mostrare un crescente interesse per la condizione degli schiavi africani, il cui status li escludeva convenzionalmente dall’essere sudditi del re. D’altra parte, i britannici in cerca di una risposta ai gravi problemi che li assillavano rifletterono su strade economiche alternative da intraprendere e, allo stesso tempo, iniziarono a mostrare compassione per l’umanità afflitta. Tra gli anni ’50 e ’70 del XVIII secolo un forte senso di indignazione di fronte alle sevizie subite portò ad una maggiore sensibilità per l’Altro. Si sviluppò così un crescente consenso, almeno nella società civile, intorno all’idea che la schiavitù

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e il commercio schiavile, comunque necessari per la prosperità nazionale, fossero moralmente indifendibili. Piani di riforma in tal senso vennero progettati a livello coloniale, senza però incontrare il sostegno ufficiale. William Knox considerando eccessivamente “riprovevole per questo paese” che ci fossero “più di 500 mila dei suoi sudditi per i quali la legislatura non aveva mostrato il minimo riguardo”, chiamò il Parlamento ad intervenire.19 L’ultima iniziativa di Knox, presentata in alcune delle sue proposte, prevedeva addirittura il graduale smantellamento dell’intero sistema schiavile in tutto l’impero.20 Era il segno che qualcosa stava cambiando. Un forte sentimento abolizionista stava rapidamente diffondendosi nel contesto imperiale trovando il sostegno di una società in piena fibrillazione. Era il momento in cui stava emergendo una coscienza anti-schiavista delineabile in tre approcci fondamentali: primo, l’affermazione di un atteggiamento filantropico-umanitario caratterizzato da quella che Davis ha definito “etica della benevolenza”, personificata dal “man of feeling” (l’uomo del sentimento), ma anche da una rinnovata fede religiosa e da una forte capacità simpatetica dell’individuo per la sofferenza altrui; secondo, la divulgazione di argomentazioni utilitaristico-razionali, che sottolineavano l’importanza di riforme in grado di modificare radicalmente gli assetti socio-economici esistenti, in cui la fiducia nel lavoro libero e una profonda indignazione morale erano unite nel superamento dell’istituzione schiavile, definita immorale, ingiusta, non necessaria e vista come un freno al progresso; terzo, il particolare utilizzo della retorica giusnaturalistica e la costruzione di un nuovo linguaggio politico, quello dei diritti dell’uomo, cioè di diritti universali, naturali, inalienabili e imprescrittibili di fronte a ogni forma di istituzione

19 Knox W., Three Tracts Respecting the Conversion and the Instruction of the Free Indians with the

Negro Slaves in the Colonies, (1768), Londra, J. Debrett, 1789, p. 25.

20 Brown C. L., Empire Without Slaves: British Concepts of Emancipation in the Age of the American

Revolution, in « The William and Mary Quarterly », vol. 56, n. 2, 1999, pp. 273-306; vedere anche

Thomas P., Changing Attitudes in an Expanding Empire: The Anti-Slavery Movement, 1760-1783, in « Slavery and Abolition », vol. 5, n. 1, 1984, pp. 50-72.

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politica o religiosa, e in quanto tali uguali per tutti, senza nessun tipo di distinzione. Questi tre diversi approcci al problema della schiavitù non andarono a formare correnti di pensiero autonome e indipendenti, ma finirono per intersecarsi, mescolarsi e infine confondersi tra loro. La complessa realtà abolizionista si appellava a valori universali e ad argomenti utilitaristici che spesso – ma non sempre - furono uniti nel lanciare il medesimo messaggio.

1.1 La svolta di Montesquieu

Nel XVIII secolo emerse una riflessione etica, filosofica e giuridica fondata sull’affermazione dell’unitarietà e della specificità del genere umano davanti a certi inalienabili diritti, che portò ad una condanna netta e incondizionata del principio che supportava il sistema schiavile. La denuncia della schiavitù in questi termini rappresentò una rottura fondamentale nella storia delle idee, dal momento che la maggior parte dei pensatori dell’età antica e medievale non avevano mai dubitato della legittimità dell’istituzione schiavile per quanto deprecabile, ma solo dei suoi eccessi.21 Nel Seicento Grozio, Hobbes, Locke, Pufendorf, figure eminenti della filosofia del diritto e della dottrina giusnaturalista, rifletterono sul fondamento, l’esistenza e la validità della legge naturale, continuando tuttavia, in forme e modi diversi, a dare una giustificazione teorica alla schiavitù.22 Negli anni ’40 del Settecento le teorie della schiavitù naturale, la cui paternità spettava ad Aristotele, iniziarono ad essere considerate assurde da una generazione di scrittori inglesi e francesi, che aveva una visione irriverente dell’autorità tradizionale e sottoponeva tutte le questioni all’indagine

21 Vedere Davis D.B., Il problema della schiavitù nella cultura occidentale, cit., pp. 92-122; e

l’esauriente libro di Peter Garnsey, Ideas of Slavery from Aristotle to Augustine, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.

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razionale.23 Si stava affermando una nuova, potente retorica che aveva l’ambizione di rivendicare la piena dignità umana indipendentemente dall’alterità culturale e dalle apparenti differenze fisiologiche tra i popoli della Terra. In questo modo si cercava di mettere in un angolo le controverse ipotesi che il mondo della ricerca scientifica produceva negli studi di anatomia comparata e le battaglie tra monogenisti e poligenisti, per esaltare la comune appartenenza al genere umano: si stavano gettando “le basi per la fondazione di una nuova morale razionale ed universale centrata sul postulato etico dell’uguaglianza dei diritti”.24

Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755), più di ogni altro pensatore fino ad allora, pose la questione della schiavitù sull’agenda dell’Illuminismo europeo, analizzando l’istituzione in rapporto alle leggi generali e ai principi che promuovevano la felicità umana. Egli manifestò più esplicitamente la propria posizione nel suo scritto più celebre. Pubblicato anonimo a Ginevra nel 1748 e ritenuto tra i maggiori capolavori della storia del pensiero politico occidentale, l’Esprit

des lois nasceva programmaticamente come un’opera che aveva l’ambizione di studiare

in modo rigorosamente scientifico le cause fisiche e morali delle leggi, il loro spirito

23 Davis D.B., Il problema della schiavitù nella cultura occidentale, cit.; Id., The Problem of Slavery in

the Age of Revolution…, cit.; e Anstey R., The Atlantic Slave Trade and British Abolition, 1760-1810,

Aldershot, Gregg Revivals, 1992, pp. 97-106. Le due figure che si mettono particolarmente in evidenza in questi anni sono il filosofo scozzese Francis Hutcheson con A System of Moral Philosophy, pubblicato postumo nel 1755, ma già circolante sottoforma di manoscritto negli anni ’40, e il filosofo e giurista francese Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, con L’Esprit des lois (1748).

24 Ferrone V., Storia dei diritti dell’uomo, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. X. Il volume di Ferrone è

particolarmente importante per l’analisi di come gli Illuministi, per primi, costruirono una retorica cosmopolita e contribuirono in maniera fondamentale a ridefinire un’etica dei diritti universali. Vedere anche Ishay M.R., The History of Human Rights: From Ancient Times to the Globalization Era, Berkeley, University of California Press, 2004, pp. 63-116; De Federicis N., Gli imperativi del diritto pubblico:

Rousseau, Kant e i diritti dell’uomo, Pisa, Edizioni PLUS, 2005; e Ricuperati G., Diritti dell’uomo, Illuminismo, modernità, in « Studi storici », vol. 55, n. 4, 2014, pp. 1041-1049. Un’efficace sintesi

sull’apporto della riflessione illuminista alla moderna concezione dei diritti dell’uomo è nella voce

Illuminismo di Silvia Sebastiani, in Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione. Dizionario, direzione scientifica di Marcello Flores, 2 vol., Torino, Utet, 2007, II,

pp. 716-724. Per uno studio generale sui diritti dell’uomo a partire dalla prospettiva illuminista e sul passaggio al concetto di diritti umani in età contemporanea, in particolar modo dopo la seconda guerra mondiale, si consiglia di vedere: Griffin J., On Human Rights, Oxford, Oxford University Press, 2008; Flores M., Storia dei diritti umani, Bologna, Il Mulino, 2008; e Martinez J.S., The Slave Trade and the

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profondo, la logica unitaria e razionale della loro struttura comune, la capacità di ergersi in maniera organica e sistematica in un preciso contesto storico, sociale e geografico. Ogni ordinamento politico-legislativo, ogni architettura costituzionale che stabilisce le regole del vivere comune di un popolo, era unica in virtù di certe caratteristiche che la natura le aveva assegnato e che l’uomo poteva solo parzialmente modificare. Posto rilevante – soprattutto per quello che ci riguarda - era occupato dal libro XV, dove il barone di La Brède espose le proprie idee in merito alla schiavitù. L’inizio era considerevole:

“La schiavitù propriamente detta è l’istituzione di un diritto che fa di un uomo la proprietà di un altro uomo a un punto tale, che questi è il padrone assoluto della vita e dei beni dell’altro. Non è diritto buono di sua natura: non è utile né al padrone né allo schiavo: a questo, perché non può fare nulla per virtù, a quello, perché contrae dai suoi schiavi ogni genere di cattive abitudini, perché si avvezza insensibilmente a mancare di tutte le virtù morali, perché diventa superbo, impulsivo, duro, collerico, voluttuoso, crudele.”25

La posizione di Montesquieu era irremovibile. La schiavitù era deleteria sia per il padrone che per lo schiavo, mostrandosi come uno spaventoso strumento di corruzione per lo stile di vita e il comportamento degli individui. Il mantenimento del sistema schiavile significava sostanzialmente la morte della ragione e la vittoria della sopraffazione incontrollata. Montesquieu si era espresso in tali termini anche in un’opera precedente dal titolo Considérations sur les causes de la grandeur des

Romains et de leur décadence (1734), nella quale durante l’analisi della schiavitù

all’interno del mondo romano aveva trovato spazio uno sferzante interrogativo lanciato contro i coloni europei: “Donde proviene la ferocia che troviamo negli abitanti delle

25 Montesquieu C.L., Lo spirito delle leggi, (1748), prefazione di G. Macchia, introduzione e commento

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nostre colonie, se non dall’uso continuo dei castighi su una sventurata parte del genere umano?”26

La schiavitù accresceva le disuguaglianze nella popolazione, sviliva una classe a detrimento del benessere pubblico e ne corrompeva un’altra con il lusso e l’eccessivo potere, conferendo al padrone uno spirito crudele, un animo collerico e un atteggiamento omicida che restava impunito di fronte alla legge. “Il grido a favore della schiavitù [era] dunque il grido del lusso e del piacere, e non quello dell’amore e della felicità pubblica.”27

Così, mentre impediva allo schiavo di agire virtuosamente, fomentava passioni vendicative e introduceva l’amore per il dispotismo nell’animo del cittadino onesto, con effetti terribili sul piano politico e sociale. L’evidenza empirica confermava le deduzioni logiche.

Tale inizio, tuttavia, poteva essere considerato semplicemente strumentale, se non fosse stato seguito da considerazioni di valore programmatico.28 In Montesquieu la premessa trovò uno sviluppo organico e uniforme, dove l’utilità coincideva con la legge naturale. Il barone di La Brède, infatti, non si limitò a contestare moralmente l’istituzione schiavile, ma il suo approccio apparve più innovativo, coerente e generoso,

26 Montesquieu C.L., Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei romani (1734), Torino,

Boringhieri, 1960, p. 124. Per completezza riporto di seguito il passo completo: “I Romani, abituati a non rispettare la natura umana nelle persone dei figli e degli schiavi, non potevano conoscere quella virtù che chiamiamo umanità. Donde proviene la ferocia che troviamo negli abitanti delle nostre colonie, se non dall’uso continuo dei castighi su una sventurata parte del genere umano? Quando si è crudeli nelle leggi sociali, che cosa ci si può aspettare dalla mitezza e giustizia naturali?” Questo passo viene sottolineato anche da Biondi C., Ces esclaves sont des hommes: lotta abolizionista e letteratura negrofila nella

Francia del Settecento, Pisa, La Goliardica, 1979, p. 116 e n. 6; e valorizzato da Ehrard J., Lumières et esclavage : l’esclavage colonial et l’opinion publique en France au XVIIIe siècle, Bruxelles, A. Versaille,

2008., p. 146, come esempio rilevante della stretta relazione nel pensiero di Montesquieu fra il discorso sulla schiavitù antica e quello sulla moderna schiavitù coloniale.

27 Montesquieu C.L., Lo spirito delle leggi, cit., libro XV, cap. 9. Montesquieu si pronunciava in termini

pressoché simili in una lettera scritta allo storico e magistrato francese Pierre-Jean Grosley (1718-1785): “Il grido che esalta la schiavitù è dunque il grido della ricchezza e del piacere e non quello del bene generale degli uomini o quello delle società particolari.” Citato in Davis D.B., Il problema della schiavitù

nella cultura occidentale, cit., p. 458.

28 Alcuni autori, simpatizzanti dello schiavismo, avevano iniziato nello stesso modo le loro dissertazioni

riguardo la schiavitù, denunciando la degenerazione morale che essa comportava nei padroni, ma sviluppando successivamente un discorso teso a legittimare l’esistenza dell’istituzione stessa. I due nomi, entrambi francesi, che possiamo citare ad esempio sono: l’avvocato Simon-Nicolas-Henri Linguet (1736-1794), autore della Théorie des lois civiles pubblicata nel 1767, e il politico Pierre-Victor Malouet (1740-1814), autore della Mémoire sur l’esclavage des nègres dato alle stampe in due parti (1775 e 1788). Vedere Biondi C., Ces esclaves sont des hommes, cit., pp. 116-117.

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sforzandosi di dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni di carattere giuridico, usate dalla tradizione aristotelica e dalla moderna scuola giusnaturalista per legittimare la schiavitù.29 Nel secondo capitolo del libro XV, egli si propose di confutare le origini classiche del diritto schiavile risalenti direttamente ai giureconsulti romani, i quali vedevano la sottomissione dell’altro come un atto misericordioso di fronte ad un destino ben più peggiore:

“Il diritto delle genti ha voluto che i prigionieri fossero schiavi perché non li si uccidesse. Il diritto civile dei romani permetteva ai debitori che i creditori potevano malmenare, di vendere se stessi; e il diritto naturale ha voluto che i figli, che un padre schiavo non poteva più mantenere, fossero schiavi come il loro padre.”30

Montesquieu replicò punto per punto, abbattendo con l’eleganza della prosa e l’erudizione del magistrato secoli di sapere giuridico a lungo accettato come un dogma intoccabile, in quanto proveniente da una civiltà che aveva ispirato il mondo occidentale e a cui i contemporanei guardavano con ammirazione. Si rivolse al diritto delle genti, affermando che, così come non era permesso uccidere i prigionieri, allo stesso tempo il conquistatore non era autorizzato a ridurre in schiavitù degli esseri umani: l’omicidio a sangue freddo e la sottomissione dispotica erano azioni tremendamente riprovevoli e senza dubbio da condannare. Confutò il diritto civile, in quanto un uomo non aveva la facoltà di vendere se stesso. In primo luogo, perché la vendita implicava un prezzo e la stipula di un contratto a garanzia di una transazione equa, ma chi decideva di barattare

29 Un testo datato ma ancora molto utile per l’analisi del libro XV dell’Esprit des lois, per la sua

diffusione e soprattutto per lo studio del rapporto tra Montesquieu e le teorie tradizionali tese a giustificare l’ordinamento schiavile, a cui l’autore dedica l’intera prima parte con un ampio excursus sull’atteggiamento del pensiero occidentale riguardo alla schiavitù sin dall’antichità, è Jameson R.P.,

Montesquieu et l’esclavage. Étude sur les origines de l’opinion antiesclavagiste en France au XVIIIe siècle, Paris, Hachette, 1911. Vedere anche Waddicor M.H., Montesquieu and the Philosophy of Natural Law, The Hague, M. Nihjoff, 1970, pp. 149-162.

30 Montesquieu C.L., Lo spirito delle leggi, cit., libro XV, cap. 2. Sul diritto romano concernente la

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la propria libertà, e quindi la propria persona, era vittima di uno scambio ineguale: “il padrone non darebbe niente, lo schiavo non riceverebbe niente.” In secondo luogo, un individuo non aveva il diritto di rinunciare alla propria libertà. L’utilità politica, la coscienza civica e l’importanza di ogni singolo individuo per la collettività si mostrava in tutta la sua evidenza, al fine di scardinare l’impalcatura schiavista: “Se non è permesso uccidersi perché è un sottrarsi alla patria, non è permesso nemmeno vendersi come schiavi. La libertà di ogni cittadino è parte della libertà pubblica. Questa qualità, in uno stato popolare, è perfino parte della sovranità.”31

I diritti naturali dell’individuo sembravano essere consustanziali alla cittadinanza. Nello stato civile i rapporti erano regolati dalle convenzioni, ma tali convenzioni, stipulate artificialmente tra gli uomini, non dovevano violare i precetti elementari del diritto naturale, secondo il quale ogni individuo tendeva legittimamente all’autoconservazione e al suo benessere. Ecco, quindi, che le prime due sentenze di Montesquieu si collegavano indissolubilmente con la critica della terza fonte della schiavitù antica, quella per nascita, facendola cadere inesorabilmente: “Infatti se un uomo non ha potuto vendere se stesso, ancor meno può aver voluto vendere un figlio non ancora nato. Se un prigioniero di guerra non può essere ridotto in servitù, ancor meno lo possono essere i suoi figli.” Il barone di La Brède sanciva così definitivamente l’esclusione reciproca tra schiavitù e diritto.32

Sul banco degli imputati finiva Aristotele, colpevole di aver sostenuto che ci fossero schiavi per natura senza provarlo, ma anche i teorici della dottrina giusnaturalista che avevano seguito, più o meno coerentemente, l’insegnamento del

31 Ivi.

32 Ivi. Già nella Pensée 174, scritto prima del 1732, Montesquieu aveva scritto che l’ “esclavage est

contre le Droit naturel par lequel tous les hommes naissent libres et indépendants. […] en vain, les lois civiles forment des chaines; la Loi naturelle les rompra toujours”. Citato in Tuccillo A., Il commercio

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filosofo greco.33 Per Montesquieu, dal momento che tutti gli uomini nascevano liberi e uguali, bisognava affermare chiaramente che “la schiavitù [era] contro natura”, “contraria al principio fondamentale” su cui erano costruite “tutte le società” e quindi giuridicamente indifendibile. Tali conclusioni erano il risultato di una diversa concezione del rapporto tra leggi civili e leggi naturali. Le leggi di natura per Montesquieu erano le leggi della natura umana e combaciavano con quelle di Hobbes: la difesa di sé stesso e la ricerca della pacifica convivenza. A questo proposito Montesquieu distingueva le leggi della natura dalle leggi civili che regolano la società, ma tale distinzione sembrava essere puramente terminologica. Infatti, egli non aveva una visione tradizionale della legge naturale come appartenente esclusivamente alla dimensione asociale della vita umana, ma al contrario teorizzò la vita sociale come dominio regolato dalla legge naturale: l’uomo per sua natura era un cittadino e di conseguenza le norme della società civile dovevano obbligatoriamente coincidere con le leggi della natura.34 Fu proprio una interpretazione liberale di questo genere della filosofia del diritto naturale che portò Montesquieu a rigettare la schiavitù.35

33 “Aristotele vuole provare che vi sono schiavi per natura, e ciò che dice non lo prova affatto. […] Ma

siccome tutti gli uomini nascono uguali, bisogna dire che la schiavitù è contro natura, quantunque in certi paesi sia fondata su una ragione naturale.” Cit. Montesquieu C.L., Lo spirito delle leggi, cit., libro XV, cap. 7. In questo passo Montesquieu prendeva direttamente posizione contro Aristotele, pur accettando l’esistenza del sistema schiavile in “certi paesi”. Per una riflessione in merito a questa apparente contraddizione rimando al saggio di Catherine Larrère, Économie politique et esclavage au XVIIIe siècle,

une rencontre tardive et ambiguë, in O. Petre-Grenouillaue (ed.), Abolir l’esclavage. Un réformisme à l’épreuve : France, Portugal, Suisse, XVIIe-XIXe siècles, Rennes, PUR, 2008, pp. 209-223, in particolare

p. 209. Larrère spiega come Montesquieu con la prima affermazione - “la schiavitù è contro natura” - intende condannare universalmente qualsiasi giustificazione di tale istituzione in base ai principi del diritto naturale moderno; mentre con la seconda – “quantunque in certi paesi sia fondata su una ragione naturale” – intende descrivere la realtà a lui contemporanea e cioè l’esistenza della schiavitù nelle colonie americane per ragioni economiche.

34 Questa è la lettura che ne da il sociologo francese Emile Durkheim nel suo Montesquieu et Rousseau :

précurseurs de la sociologie (1953). Vedere Chernilo D., The Natural Law Foundations of Modern Social Theory: A Quest for Universalism, Cambridge, New York, Cambridge University Press, 2013, pp.

168-172. Per una visione più generale dell’apporto di Montesquieu alla nozione di diritto naturale e del suo allontanamento rispetto alle teorie giusnaturalistiche vedere l’importante saggio di Céline Spector,

Montesquieu et la crise du droit naturel moderne. L’exégèse straussienne, in « Revue de métaphysique et

de morale », vol. 1, n. 77, 2013, pp. 65-78.

35 Per approfondire lo studio di Montesquieu sul diritto naturale e per una interpretazione più ampia

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Magistrato di fama e presidente del Parlamento di Bordeaux, Montesquieu era ben posizionato per osservare il commercio schiavile, instaurare delle relazioni con persone introdotte negli affari coloniali ed essere molto documentato sulla tradizione giuridica riguardante la schiavitù. Ai grandi nomi del pensiero giuridico e politico moderno se ne aggiungevano altri, più antichi o meno conosciuti, che costituirono per lui un orizzonte di lettura come il teologo Pierre Charron (1541-1603) e il giurista Jean Bodin (1529-1596), entrambi francesi, o l’arcivescovo spagnolo titolare della cattedra di diritto canonico a Salamanca, Diego de Covarrubias y Leyva (1512-1577); senza dimenticare giuristi a lui contemporanei che ebbero un peso decisivo nelle sue riflessioni. Particolarmente degno di nota per le sue affinità con il pensiero del barone di La Brède è un pensatore francese esperto di diritto, che scrisse alcuni anni prima della pubblicazione dell’opera di Montesquieu, condannando il miserabile destino riservato ai figli degli schiavi, responsabili senza averne colpa di essere nati da genitori che si trovavano in tale condizione. Si tratta di François Richer d’Aube, che, nell’Essai sur les

principes du droit et de morale (1743), si era espresso in termini assai espliciti: “Non si

può trovare fondamento legittimo alla schiavitù di un figlio venduto da suo padre, né a quello dei figli che sono schiavi perché i loro genitori lo erano o almeno le loro madri.”36

Queste affermazioni dimostravano che era in atto un’interpretazione innovativa del diritto naturale, in cui la libertà si connaturava come universale e cosmopolita, inalienabile e imprescrittibile, non soggetta a nessuna illegittima

Montesquieu et l’esclavage, cit., e Waddicor M.H., Montesquieu and the Philosophy of Natural Law, cit.,

anche a Goyard-Fabre S., La philosophie du droit de Montesquieu, (2 ed.), Paris, C. Klincksieck, 1979; e ai più recenti Ehrard J., Lumières et esclavage, cit., pp. 141-161; e i saggi di: Diana J. Schaub,

Montesquieu on Slavery, in « Perspectives on Political Science », vol. 34, n. 2, 2005, pp. 70-78; e Céline

Spector, “Il est impossible que nous supposions que ces gens-là soient des hommes” : la théorie de

l’esclavage au livre XV de L’Esprit des lois, in « Lumières », n. 3, 2004, pp. 15-51. Per quanto riguarda il

diritto naturale e i diritti dell’uomo nelle opere montesquieuiane Waddicor (Montesquieu and the

Philosophy of Natural Law, cit., p. 154) ritiene che il barone di La Brède si riferisca esplicitamente ad

essi, mentre Ferrone (Storia dei diritti dell’uomo, cit., p. 217) ritiene che il philosophe non abbia mai utilizzato l’espressione “diritti dell’uomo”, né più in generale diritti naturali.

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restrizione e, in quanto tale, uguale per tutti. Il merito di Montesquieu, quindi, fu nell’aver riunito le posizioni di Bodin, di d’Aube e di altri giurisperiti in un sistema rigoroso e organico di chiara ispirazione antischiavista, alternando una retorica lucida e incontrovertibile ad una ironia sferzante e irriverente, data dal contrasto comico tra il carattere categorico delle affermazioni e la loro evidente stupidità – mi riferisco in particolar modo al capitolo V dedicato all’Esclavage des nègres -, ma che, a causa della sua ambiguità, non mancò addirittura di subire fraintendimenti e strumentalizzazioni in senso decisamente filo-schiavista.37

Lasciando da parte le polemiche e gli echi contrastanti che la sua opera ha suscitato – su cui torneremo successivamente -, non c’è dubbio che Montesquieu rappresentò un punto di svolta fornendo argomentazioni utilitaristiche e giuridiche sulla questione della schiavitù destinate ad avere ampio successo. I philosophes, gli economisti, gli amministratori, gli uomini politici, direttamente influenzati dal discorso montesquieuiano, ripresero le sue idee, i suoi pensieri, le sue teorie, che avevano segnato una rottura profonda con il passato, e le elaborarono in forme nuove: li integrarono con argomenti economici sulla scarsa convenienza del lavoro servile, li unirono alla retorica dell’umana benevolenza verso il prossimo, li radicalizzarono fino a

37 Un orientamento esplicitamente polemico di Montesquieu, in cui il barone di La Brède venne accusato

di caldeggiare posizioni apertamente filo-schiaviste, fu dato da alcuni epigoni della storiografia del secolo scorso, critici del pensiero dell’età dei Lumi fino alla mera denigrazione, come Julien J. Lafontant,

Montesquieu et le problème de l’esclavage colonial dans « l’Esprit des lois », Sherbrooke, Naaman,

1979; e Louis Sala-Molins, Le Code Noir ou le calvaire de Canaan, (1987), Paris, Presses universitaires de France, 2012, pp. 215-231 dedicate a Montesquieu; Id., Les misères des Lumières. Sous la raison

l’outrage, Paris, R. Laffont, 1992. A Lafontant e, in particolare, all’opera di Odile Tobner, Du racisme français (2007), risponde direttamente René Pommier, Défense de Montesquieu : sur une lecture absurde du chapitre "De l'esclavage des nègres", Paris, Eurédit, 2014. Pommier analizza meticolosamente il

capitolo V del libro XV dell’Esprit des lois dimostrando come Montesquieu avesse “preferito cercare un equilibrio particolarmente sottile tra la caricatura e l’esattezza” (p. 37), con l’intento di ridicolizzare le debolezze argomentative e le assurdità delle posizioni schiaviste. Sull’ambiguità e i fraintendimenti della lettura dell’opera montesquieuiana vedere anche Jameson R.P., Montesquieu et l’esclavage, cit., pp. 306-307, 340-347; Davis D.B., The Problem of Slavery in Western Culture, cit., 394-396, 402-409 (trad. it. Il

problema della schiavitù nella cultura occidentale, cit., pp. 444-446, 452-459); Biondi, Ces esclaves sont des hommes, cit., pp. 135-157; e il saggio di Volpilhac-Auger C., Pitié pour les nègres, in

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proporre modalità di superamento del sistema coloniale incentrato sullo sfruttamento degli schiavi. Con Montesquieu, quindi, iniziò la progressiva “histoire d’une prise de conscience” dell’insopportabile condizione a cui erano sottoposti milioni di individui, che contribuì allo sgretolamento della tradizione aristotelica, alla confutazione della moderna scuola giusnaturalista e, soprattutto, alla formazione dell’opinione pubblica antischiavista.38 Egli rappresentò, utilizzando le parole di Carminella Biondi, “il cardine” della letteratura antischiavista francese, costruendo le “fondamenta su cui l’edificio abolizionista è potuto crescere con relativa rapidità.”39

1.2 Filantropismo, simpatia e “etica della benevolenza”

I movimenti religiosi che infiammarono gli animi coloniali dopo il 1735 sconvolgendo l’intero mondo anglo-americano infierirono un colpo cruciale e permanente al protestantesimo di matrice britannica ed ebbero, come ha ben osservato Davis, un impatto decisivo nel porre l’attenzione sul sistema schiavile paventando la possibilità di abolirlo. L’idioma della religione era intessuto nei modi di pensare, comunicare ed agire nella sfera pubblica e privata di tutti gli individui. Le pubblicazioni sacre, dai trattati teologici ai sermoni, dagli opuscoli evangelici alle prediche religiose, erano molto più numerose delle opere laiche o profane, quali i testi di storia, diritto e politica. Le chiese erano delle istituzioni chiave nella vita quotidiana con funzioni sociali – e talvolta politiche - assolutamente rilevanti. Le cerimonie religiose erano eventi comunitari di primo piano dove si forgiava il pensiero e l’identità collettiva di un popolo. Il Grande Risveglio, che si ebbe negli anni ’30 in Nord America sulla spinta di una rinnovata fede cristiana e che fece impennare la partecipazione popolare, fu il risultato di possenti predicazioni pronunciate dal teologo del Massachusetts Jonathan

38 Ehrard J., Lumières et esclavage, cit., p. 19.

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Edwards, dal ministro presbiteriano del Delaware Samuel Davies e dall’inglese George Withefield, che visitò le colonie nel 1739-40. Questi ministri di nuovo tipo miravano a “risvegliare” la fede popolare e attrassero larghe folle a riscoprire l’autentica e significativa esperienza di Dio, criticando il lassismo del clero tradizionale e il principio perentoriamente gerarchico che dominava al suo interno; staccandosi dai rituali e dai convenevoli di facciata per fare del cristianesimo un fatto intensamente personale. Si stava affermando una retorica che invitava i singoli a cercare Gesù e a farlo direttamente, da soli, con le proprie forze. Un fedele e Gesù, senza nessun tramite se non la Bibbia. C’era la necessità di riscoprire nella sua pienezza e con maggiore convinzione il messaggio originario che i protestanti sembravano aver dimenticato. Le azioni di questi predicatori itineranti provocarono reazioni negative da parte delle varie istituzioni religiose e determinarono una spaccatura netta tra le diverse congregazioni. Queste divisioni scossero ovunque i poteri costituiti, crearono fratture profonde tra le chiese protestanti, promossero la formazione di nuove fedeltà religiose non localistiche bensì intercoloniali e favorirono l’avvento di sentimenti anti-gerarchici, tolleranti e aperti al pluralismo.40 Una comunità religiosa si mise in evidenza per la sua forza riformatrice e per la sua ferma opposizione alla schiavitù: la quacchera Società degli Amici.

La congregazione dei quaccheri mise le proprie radici nelle colonie nordamericane nel 1657 e crebbe nel corso del tempo fino a raggiungere un gran numero di fedeli tra le comunità inglesi di oltreoceano, tanto che per un breve periodo - all’inizio del Settecento - sembrò diventare uno dei più importanti movimenti religiosi nella vita spirituale anglo-americana. I quaccheri si aspettavano di far prevalere la propria religione e la propria visione del mondo nel continente occidentale. Essi

40 Kidd T.S., The Great Awakening: The Roots of Evangelical Christianity in Colonial America, New

Haven, Yale University Press, 2007; e Smith L., The First Great Awakening in Colonial American

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