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L’utilizzabilità delle prove raccolte in violazione della disciplina sulla privacy

Nel documento Privacy e rapporto di lavoro (pagine 102-109)

Il possibile contemperamento dei contrapposti interess

2. L’utilizzabilità delle prove raccolte in violazione della disciplina sulla privacy

Risolto in questi termini, su un piano sostanziale, il possibile contemperamento dei contrapposti interessi tutelati e presi a riferimento dalle discipline legali, l’indagine deve necessariamente spostarsi su una prospettiva meramente processuale190.

Strettamente connesso al problema delle possibili e lecite ingerenze datoriali nella privacy dei lavoratori, infatti, è quello relativo al regime di utilizzabilità delle risultanze probatorie afferenti alla “persona” del lavoratore191.

Orbene, nell’ordinamento processuale civile non esistono divieti probatori di carattere generale che impediscano alla parte di produrre, o che impongano al giudice di espungere dal giudizio, le prove, precostituite, di natura illecita192.

Ed infatti, un “divieto” del genere è rinvenibile solamente nell’ambito del processo penale, ove è sancito il principio per cui le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge “non

possono essere utilizzate”193.

Peraltro, anche in ambito penalistico, tale regola è ritenuta priva di rilevanza autonoma, ma avente un mero carattere sanzionatorio, il cui contenuto deve essere necessariamente letto in

190 M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e

commerciale, vol. III, tomo II, Milano, Giuffrè, 1992.

191 Sul tema, vedi T. ERBOLI, Legittimità dei controlli difensivi e regime di

utilizzabilità delle prove, cit., p. 143.

192 Vedi A.CECCARINI, La prova documentale nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2006.

correlazione ad altre norme processuali contenenti le singole e specifiche ipotesi di inutilizzabilità delle prove194.

Inoltre, l’enunciato in essa contenuto fa riferimento a divieti probatori previsti dalla stessa legge processuale e non a ipotesi di “generica” illiceità. Ragion per cui non sarebbe, comunque, sufficiente a realizzarne il presupposto la violazione, al momento di acquisizione della prova, di “norme appartenenti ad altra sfera

dell’ordinamento”195.

Ne deriva che, nell’ambito del processo penale, le prove precostituite, illecitamente apprese, con la sola esclusione degli specifici divieti contemplati nella stessa legge processuale penale, sono ritenute ammissibili196. Fatta salva, ovviamente, l’eventuale applicazione delle sanzioni previste a carico di colui che, in tal modo, trasgredisca “altri” divieti previsti dall’ordinamento.

Del resto, è proprio in questi termini che anche la giurisprudenza di legittimità ha risolto, in ambito penalistico, la questione relativa all’utilizzabilità “processuale” dei dati raccolti in violazione della specifica normativa posta a tutela della riservatezza dei lavoratori197.

194 Vedi, ad esempio, gli articoli 197, 203, 234 o 254 del Codice di Procedura Penale. Sul punto, AA. VV., Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2003, p. 305, ove si

afferma che l’art. 191 Cod. Proc. Pen. “si configura come norma generale di

previsione della sanzione dell’inutilizzabilità, destinata a combinarsi con tutte le svariate disposizioni che, pur sancendo un divieto probatorio … non prevedono alcun riflesso sanzionatorio per l’ipotesi della sua trasgressione”.

195 Tribunale di Torino, sentenza dell’8 gennaio 2008, in Arg. dir. lav., 2008, p. 1265.

196 Vedi, A. SCELLA, Prove penali e inutilizzabilità. Uno studio introduttivo, Torino, Giappichelli, 2000.

Ed infatti, nell’ipotesi di controllo difensivo in cui il materiale probatorio sia stato acquisito in violazione delle specifica normativa in tema di privacy, o violando i precetti impartiti dalle norme statutarie (si pensi al caso del controllo preterintenzionale attuato senza la previa attuazione della procedura prevista dall’articolo 4, secondo comma, della legge n. 300 del 1970) le prove sono ritenute, comunque, utilizzabili. E ciò anche perché, laddove non si sia verificata una lesione di “diritti costituzionalmente garantiti”, deve ritenersi prevalente, rispetto al diritto alla riservatezza, “l’esigenza di ordine

pubblico relativa alla prevenzione dei reati”198.

Un risultato analogo pare poter essere applicato, in relazione ai controlli difensivi, anche in ambito civilistico, dove, come detto, neanche è presente una regola “omnicomprensiva” e generale che imponga al giudice di espungere dal giudizio le prove precostituite illecite.

Ciò comporterebbe la irrilevanza, da un punto di vista “processuale”, del fatto materiale che ha consentito ad una parte di entrare in possesso della prova precostituita. O, meglio, la rimessione al libero apprezzamento del giudice della valutazione in merito alle risultanze “probatorie” non autorizzate199.

197 T. ERBOLI, Legittimità dei controlli difensivi e regime di utilizzabilità delle

prove, cit., p. 143.

198 Cass. pen., 25 novembre 2009, n. 47429, in Dir. prat. lav., 2010, p. 451, ove si afferma ch “anche se la installazione delle telecamere non è stata preceduta

dall’iter descritto dal comma 2 dell’art. 4, tuttavia, tale violazione ha rilievo meramente civilistico, ma non inficia la possibilità di valutare, quale elemento probatorio, nel processo penale, la videoripresa”. Negli stessi termini, tra le tante,

anche Cass. pen., 26 marzo 2008 n. 25594, in Dir. prat. lav., 2009, p. 316.

199 Ancora T.ERBOLI, Legittimità dei controlli difensivi e regime di utilizzabilità

Fermo restando, anche in tal caso, il differente profilo, estraneo, però, al giudizio in cui la prova è prodotta, relativo all’eventuale responsabilità da fatto illecito a carico dell’autore dell’acquisizione “incriminata”200.

Ed infatti, è esclusivamente nell’ambito del sistema processuale civile che vanno rintracciate le regole di “esclusione probatoria”, volte ad eliminare, dal processo, le prove precostituite apprese in violazione di altri diritti tutelati, senza possibilità alcuna di poterle rintracciare in ambiti diversi ed ulteriori.

Pertanto, adattando questi principi all’oggetto dell’analisi, si può affermare che anche i dati attinenti alla sfera personale del lavoratore, pur se in ipotesi acquisiti in violazione della disciplina e delle procedure previste a tutela della privacy, potrebbero essere, in determinate fattispecie, utilizzabili201 da un punto di vista “processuale”202.

200 Ancora Tribunale di Torino, sentenza dell’8 gennaio 2008, cit., dove viene anche rilevato che la presunta illiceità della prova, “asserita da una parte

del giudizio, potrebbe … essere contestata dall’altra o comunque presentarsi, di fronte al giudice, del tutto dubbia e obiettivamente controversa”. Ma anche

Tribunale di Bari, 16 febbraio 2007, in Merit., 2007, secondo cui “siccome nel

processo civile non esiste un divieto di utilizzo e siccome nel campo delle prove precostituite i momenti di illiceità sono tutti di natura

preprocessuale, un documento illecitamente ottenuto in danno della parte avversa o fuori delle condizioni di legge è comunque utilizzabile come prova, salve le conseguenza extraprocessuali civili e penali, del comportamento illecito che si è consumato”.

201 V. FERRANTE, Competenze dell’Autorità garante e controlli difensivi, cit., p. 1157.

202 Tribunale di Torino, sentenza dell’8 gennaio 2008, cit., ove si afferma che, per poter ottenere un risultato diverso, e, cioè, per poter ritenere processualmente inutilizzabili questo genere di prove, sarebbe necessaria “la presenza,

nell’ordinamento processuale civile, di una specifica regola di esclusione probatoria, quale quella ad esempio enunciata nell’art. 222 Cod. Proc. Civ.

Del resto, questa conclusione sembra avvalorata anche da alcune specifiche disposizioni presenti nel decreto legislativo n. 196 del 2003.

Si consideri, al riguardo, che il sesto comma dell’articolo 160 del codice della privacy prevede espressamente come “la validità,

l’efficacia e l’utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale”, mentre l’articolo 47 della stessa legge stabilisce che, “in caso di trattamento di dati personali effettuato presso uffici giudiziari di ogni ordine e grado, presso il Consiglio superiore della magistratura, gli altri organi di autogoverno e il Ministero della giustizia, non si applicano, se il trattamento è effettuato per ragioni di giustizia, le seguenti disposizioni del codice: a) articoli 9, 10, 12, 13 e 16, da 18 a 22, 37, 38, commi da 1 a 5, e da 39 a 45; b) articoli da145 a 151”203.

Tali disposizioni confermano, pertanto, come la sanzione della inutilizzabilità dei dati personali reperiti in violazione della disciplina normativa in materia di privacy è riferita esclusivamente ai soli (inutilizzabilità di documento, ove, proposta la querela di falso, la parte dichiari di non volersene avvalere) o che si ricava dall’art. 216 Cod. Proc. Civ. (inutilizzabilità di scrittura privata disconosciuta, non seguita da richiesta di verificazione) che però, allo stato, non esiste”.

203 Articoli, questi, che regolano, tra l’altro, il “riscontro dell’interessato” al trattamento dei dati (art. 10), i “codici di deontologia e di buona condotta” (art. 12), l’“informativa” (art. 13), la “cessazione del trattamento” (art. 16), i “principi

applicabili al trattamento di dati sensibili” (art. 20), la “notificazione del trattamento” (art. 37), gli “obblighi di comunicazione” (art. 39), le “autorizzazioni generali” (art. 40) e le “richieste di autorizzazione” (art. 41).

destinatari delle prescrizioni contenute nel decreto legislativo n. 196 del 2003 e non si converte automaticamente in un divieto probatorio nei confronti dell’organo giudicante. E ciò anche nel caso in cui, nel corso del processo, vengano prodotti documenti basati proprio su di un trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge.

Risultato, questo, del tutto logico e coerente laddove si consideri che la giurisdizione, per le finalità che persegue e per la rilevanza che le attribuisce la stessa Carta costituzionale, si colloca in una posizione tale da rendere, nei suoi confronti, inapplicabili sia i vincoli che i limiti previsti dalle disposizioni contenute nel codice della privacy.

Previsioni, queste, “che non hanno né possono avere come

destinatario il giudice, sotto pena di veder vanificato l’accertamento processuale e frustrare le esigenze di giustizia cui esso mira”204.

Particolarmente significativa, al riguardo è una recente sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella quale si afferma che “in tema di protezione dei dati personali, non costituisce

violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi degli artt. 7, 24 e 46-47 del d.lgs n. 193 del 2003 (cd. codice della privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non

coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benché anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy”205.

205 Cass., 8 febbraio 2011 n. n. 3034, in Not. giur. lav., 2011, p. 388. Principio affermato dalla Suprema Corte con riguardo alla condotta della parte che aveva operato nel rispetto delle norme di cui agli artt. 76, 134 e 137 cod. proc. Civ. e 95 disp. Att. Cod. proc. Civ., notificando l’ordine di esibizione dato dal giudice istruttore ed alcuni verbali d’udienza in collegamento con lo stesso ordine, anche in assenza del consenso del titolare dei dati riportati nei predetti atti.

3. L’incidenza dei provvedimenti adottati dall’Autorità garante

Nel documento Privacy e rapporto di lavoro (pagine 102-109)