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Valutazione della memoria autobiografica

Parte I INTRODUZIONE

2. MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

2.3. Valutazione della memoria autobiografica

Uno degli strumenti più comunemente utilizzati per lo la valutazione della memoria autobiografica è l’Autobiographical Memory (AM) test ( Williams & Broadbent, 1986). Questo test è composto da 18 parole distinte in base alla connotazione positiva, negativa o neutra. Al soggetto sottoposto a

valutazione vengono presentate a turno tutte le parole e per ciascuna egli deve descrivere un evento ad essa collegato e l’esaminatore trascrive la risposta (Brittlebank, Scott, Mark, Williams & Ferrier, 1993).

Un altro strumento valido per la valutazione della memoria autobiografica è costruito sulla distinzione delle tre funzioni della memoria autobiografica precedentemente descritte. Il Thinking about Life Experience (TALE) Questionnaire (Bluck, Alea, Habermas & Rubin, 2005; Bluck & Alea, 2011) è un questionario self-report che valuta la funzione direttiva, quella del Sé e la funzione sociale tramite una serie di item preceduti dalla richiesta di indicare su una scala Likert (1= mai e 6=molto frequentemente) in che misura il soggetto ripensa o parla della sua vita o di alcuni periodi della sua vita (Bluck et al., 2005). I 28 item sono preceduti da due domande che indagano la tendenza generale dei soggetti a ripensare e parlare della loro vita.

Un altro strumento utilizzato per la valutazione della memoria autobiografica è il Questionario di memoria autobiografica (Borrini, Dall’Ora, Della Sala, Marinelli & Spinnler,1989). A differenza degli altri strumenti, le domande presenti in questo questionario sono suddivise in base ai tre periodi di vita: infanzia e adolescenza, prima età adulta e tarda età adulta.

Infine, ulteriori metodi di indagine si basano sull’uso del diario sul quale il soggetto registra gli eventi e successivamente deve cercare di ricordarli (Linton, 1986) oppure sull’utilizzo di parole “cue” tramite le quali i soggetti devono ricordare un evento autobiografico ad esse associato (Crovitz & Schiffman, 1974).

Il Directed Forgetting Paradigm è stato sviluppato e utilizzato da Bjork (1972) per indagare i meccanismi coinvolti nell’oblio intenzionale. Questo paradigma prevede di indicare ai soggetti che prendono parte alla valutazione della memoria se determinate informazioni sono da ricordare o da dimenticare. Sono stati messi a punto due versioni di questo paradigma: il metodo degli item e il metodo delle liste. Per quanto riguarda il metodo degli item ai partecipanti vengono mostrati una serie di item per ciascuno dei quali è data immediatamente l’indicazione “da ricordare” o “da dimenticare”. Una volta presentati tutti gli item distribuiti in set, i soggetti vengono sottoposti a un test di memoria per cui viene chiesto loro di ricordare le parole “da ricordare” e per alcuni set anche le parole “da dimenticare”. Secondo Bjork (1970) gli item “da ricordare” vengono funzionalmente separati (o segregati) da quelli “da dimenticare”. In questo caso, spesso la rievocazione delle parole “da dimenticare” è peggiore rispetto alle parole “da ricordare”. Infatti soggetti non traumatizzati dimenticano le parole da dimenticare (Bjork, 1970). Per quanto riguarda il metodo delle liste invece, ai soggetti viene presentata una lista e l’istruzione “da dimenticare” o “da ricordare” viene fornita solo dopo che i soggetti hanno appreso le parole della lista e ne viene presentata loro un’altra. Al

termine della seconda lista vengono valutate le parole che i soggetti sono in grado di ricordare (Macleod, 1999).

Alcuni autori hanno ipotizzato una insufficiente codifica per quanto riguarda le parole “da dimenticare” tramite il metodo degli item in quanto gli effetti dell’indicazione “dimenticare” sono presenti anche nei test di riconoscimento. Per quanto riguarda invece il metodo della lista gli effetti del directed forgetting non sono presenti nei test di riconoscimento ed è per questo che è stata ipotizzata una funzione di inibizione del recupero degli item “da dimenticare” (Basden, Basden & Gargano,1993; Basden, 1996). A differenza quindi di quanto accade per gli item “da ricordare”, quelli “da dimenticare” vengono ricordati più difficilmente sia durante compiti di richiamo che di riconoscimento quando è usato il metodo degli item, mentre per quanto riguarda il metodo della lista ciò vale solo per i compiti di richiamo (Sahakyan, Waldum, Benjamin & Bickett, 2009).

Il paradigma appena descritto è stato utilizzato per indagare possibili differenze nei processi di memoria tra soggetti traumatizzati e non traumatizzati (Joslyn & Oakes, 2005; McNally et al., 2001).

McNally e colleghi (1998) hanno effettuato uno studio su donne con storia di abuso infantile con e senza PTSD indagando la possibile presenza di uno stile di codifica evitante e deficit di memoria per stimoli legati al trauma. Gli autori hanno valutato le partecipanti sottoponendo loro parole associate al trauma, parole positive e parole neutre. Le donne con PTSD non hanno mostrato compromissione nel richiamo delle parole legate al trauma ma hanno evidenziato un richiamo minore delle parole neutre e positive “da ricordare”. Uno studio successivo ha evidenziato che donne con storia di abuso infantile che avevano represso o ricordato successivamente tale episodio, ricordavano più spesso le parole “da ricordare” rispetto a quelle “da dimenticare” indipendentemente che fossero o meno associate al trauma (McNally et al., 2001).

Partendo dall’ipotesi che soggetti con PTSD hanno meccanismi di controllo inibitorio della memoria compromessi, Cottencin e colleghi (2006) hanno indagato tale processo tramite il Directed Forgetting Paradigm (DFP) in soggetti con PTSD e in controlli sani. I risultati emersi hanno evidenziato una effettiva compromissione nei soggetti con PTSD in quanto essi ricordavano un minor numero di parole in generale e meno parole “da ricordare” rispetto ai soggetti sani. Ciò è in linea con l’ipotesi di un deficit nei meccanismi di inibizione della memoria prospettata inizialmente per cui i soggetti non sono in grado di distinguere tra informazioni rilevanti o meno.

Lo studio di Ciaramella (2018) ha indagato la relazione tra aver vissuto esperienze traumatiche e i disturbi somatoformi (secondo il DSM-IV) e inoltre ha esplorato il ruolo della compromissione della memoria all’interno di questa relazione in un campione di soggetti distribuiti in tre gruppi a seconda che presentassero disturbi somatoformi, disturbi psichiatrici o che fossero sani. Per quanto

riguarda la memoria, i partecipanti sono stati sottoposti al Deese/Roediger-McDermott (DRM) per i falsi ricordi e al Directed Forgetting (DF) Paradigm per l’oblio intenzionale. Dai risultati emerge una forte associazione tra il numero di eventi traumatici e molti aspetti relativi alla somatizzazione. In effetti i soggetti con disturbo somatoforme presentavano un numero più elevato di eventi traumatici rispetto ai controlli ma non rispetto a soggetti con disturbo psichiatrico. Ciò suggerisce che soggetti con somatizzazione presentano un aumento del numero di eventi traumatici simile a quello evidenziato nel gruppo di soggetti con disturbi psichiatrici. Inoltre, i risultati evidenziano che i soggetti con maggior numero di eventi traumatici mostrano compromissione nella valutazione della memoria, in particolare nella capacità di inibire il ricordo delle parole “da dimenticare” del DF. Essi inoltre mostravano performance compromesse anche nei test di attenzione selettiva e di memoria di lavoro. I soggetti con alta somatizzazione hanno mostrato alterazioni al DFP e un più alto numero di falsi ricordi, indipendentemente dal numero di eventi traumatici. Valutare quindi la memoria autobiografica non solo in pazienti con disturbi da sintomi somatici ma anche nei pazienti con disturbi psichiatrici può aiutare nella comprensione di tali disturbi e offrire informazioni utili al trattamento.

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