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Percezione del dolore e psicopatologia in soggetti traumatizzati: dati preliminari

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Direttore Prof. Mario Petrini

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Direttore Prof. Paolo Miccoli

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Direttore Prof. Giulio Guido

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute

Tesi di Laurea

“Percezione del dolore e psicopatologia in soggetti traumatizzati: dati

preliminari”

Relatore: Candidato: Dott.ssa Antonella Ciaramella Marta Massei

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RIASSUNTO

Alla luce di quanto emerge dagli studi presenti in letteratura sulla relazione tra trauma e le condizioni ad esso associate si evidenzia come le esperienze traumatiche, nella loro eterogeneità, siano un fondamentale fattore da tenere in considerazione nella valutazione della salute della persona (Springer, Sheridan, Kuo, & Carnes, 2007). E’ stato evidenziato come l’aver vissuto un trauma comporti degli effetti modificando non solo la psiche ma anche la percezione del corpo (Ciaramella, 2018), coinvolgendo il sistema nervoso autonomo, endocrino e immunitario (Song et al., 2018; van der Kolk, McFarlane & Weisaeth, 2004). Tali eventi possono influenzare la salute psichica e svolgere un ruolo rilevante nell’insorgenza di molteplici disturbi. Tale relazione è stata indagata per lo più in soggetti con disturbi psichiatrici, come il PTSD, o con patologie croniche dolorose e invalidanti (Afari et al., 2014; Wingenfeld et al., 2011). Il presente studio è andato a indagare se tali effetti potessero presentarsi in soggetti sani senza patologia psichiatrica e con dolore per lo più non invalidante. L’obiettivo era quello di valutare come l’esposizione ad eventi vissuti come traumatici possa modificare la percezione sensoriale in soggetti senza dolore o con dolore più o meno invalidante e valutare se una possibile modifica nella percezione sensoriale in soggetti traumatizzati sia associata ad una disfunzione della memoria autobiografica. Il campione è costituito da 55 soggetti diviso in due gruppi in base al fatto che essi presentassero trauma maggiore o trauma minore. Sono stati utilizzati i test: SCL-90 (Symptom CheckList-90, Derogatis, Lipman & Covi, 1973), TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale, Bagby, Parker & Taylor, 1994 ), BPQ (Body Perception Questionnaire, Porges, 1995), SASS (Somatosensory Amplification Questionnaire, Barsky & Wyshak, 1990), PHQ-15 (Patient Health Questionnaire, Kroenke, Spitzer & Williams, 2002), il Deese/Roediger-McDermott Paradigm (1959, 1995) per la valutazione dei falsi ricordi e il Directed Forgetting (DF) Paradigm (Bjork, 1972) per la valutazione della memoria. La percezione del dolore sperimentale è stata valutata attraverso le soglie pressorie e al caldo. La modulazione del dolore è stata valutata attraverso il paradigma del DNIC (Diffuse Noxious Inhibitory Control; Lautenbacher, Kunz, Burkhardt, 2008). Tale valutazione evidenzia che i soggetti con trauma maggiore presentano un effetto DNIC minore rispetto ai soggetti con trauma minore. Dai risultati emerge una maggiore presenza di Somatizzazioni, Ossessioni-Compulsioni, Sensitività Interpersonale, Depressione, Ansia, Collera e Ostilità, Ansia Fobica e Ideazione paranoide alla SCL-90 nei soggetti con trauma maggiore. Questi ultimi hanno maggiore difficoltà ad identificare i sentimenti e ricordano un numero maggiore di parole “da dimenticare” al DF, espressione di una disfunzione della memoria autobiografica. Inoltre, i soggetti con trauma minore hanno una reattività sovradiaframmatica più bassa dei soggetti con trauma maggiore. Questo risultato mostra come l’attività autonoma, quella scarsamente cosciente, segua una strada diversa dalla cognitivo-affettiva, come dimostrato dalla maggiore

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presenza di psicopatologia in soggetti con trauma maggiore. Non si evidenziano differenze tra i due gruppi rispetto all’amplificazione somatica e nella somatizzazione. Seppur nella limitatezza del campione, i risultati suggeriscono come la gravità dell’esperienza traumatica possa giocare un ruolo importante nella percezione sensoriale del dolore e nelle funzioni di memoria.

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Sommario

Parte I - INTRODUZIONE ... 5

1. LA PSICOTRAUMATOLOGIA ... 6

1.1. Processi traumatici ... 6

1.2. Il trauma nella psicopatologia ... 13

1.3. Trauma e psicosomatica ... 17

1.3.1. Disturbi da Sintomi Somatici ... 18

1.3.2. Ruolo del trauma nell’insorgenza di dolore ... 19

1.3.3. Relazione tra eventi traumatici e valutazione della percezione del dolore ... 22

1.3.4. Alterazioni fisiologiche legate al trauma, relazione tra trauma e regolazione endocrino-autonomica ... 24

2. MEMORIA AUTOBIOGRAFICA ... 29

2.1. Alterazioni della memoria in soggetti traumatizzati ... 30

2.2. Meccanismi dell’oblio e soppressione del ricordo ... 33

2.3. Valutazione della memoria autobiografica ... 34

2.4. Falsi ricordi ... 38

Parte II – RICERCA SPERIMENTALE ... 39

1. METODOLOGIA ... 40

1.1. Obiettivo e Ipotesi dello studio ... 40

1.2. Disegno dello studio ... 40

1.3. Campione ... 42

1.3.1. Criteri di inclusione... 42

1.3.2. Criteri di esclusione ... 42

1.4. Strumenti di indagine ... 43

1.4.1. Raccolta dati anagrafici ... 43

1.4.2. Strumenti di valutazione ... 43

1.5. Analisi statistiche ... 49

2. RISULTATI... 50

2.1. Analisi descrittive ... 50

2.2. Differenze tra i gruppi trauma maggiore e trauma minore ... 55

3. DISCUSSIONE ... 58

CONCLUSIONI ... 61

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1. LA PSICOTRAUMATOLOGIA

1.1. Processi traumatici

La parola trauma deriva dal greco trauµa che significa ferita, lacerazione. In ambito psicologico il termine viene utilizzato per definire un “evento della vita del soggetto che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del soggetto a rispondervi adeguatamente, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica” (Laplanche & Pontalis, 1993).

Da secoli ci interroghiamo sulla nascita e sviluppo di traumi e soprattutto sulle conseguenze di essi. A partire dalla fine dell’800, in particolar modo grazie all’osservazione di pazienti isteriche alla Salpetrière, il neurologo francese Jean-Martin Charcot intuì che in molte pazienti isteriche erano presenti traumi, avvenuti soprattutto in età infantile. La riflessione che seguì tali evidenze portò Pierre Janet ad analizzare la natura della dissociazione e dei ricordi traumatici legate allo sviluppo dell’isteria (van der Kolk & van der Hart, 1989).

Il fondamentale contributo alla comprensione di tali processi si deve proprio a Janet, il quale per primo ipotizzò un collegamento tra trauma e malattia; per primo descrisse i processi dissociativi e coniò il termine di subconscio.

Il lavoro di Charcot non ispirò solamente Janet ma anche Freud, che seguì alla scuola della Salpetrière le lezioni del neurologo francese; grazie ai suoi insegnamenti Freud iniziò ad utilizzare il metodo dell’ipnosi per il trattamento dell’isteria.

Il termine “trauma” fu quindi concettualizzato da un punto di vista psichico nell’ambito della psicoanalisi da Freud secondo il quale esso rappresentava un elemento fondante i sintomi nevrotici (Laplanche & Pontalis, 1993).

In “Studi sull’isteria” Freud scrive che “il trauma psichico, o meglio il ricordo del trauma, agisce al modo di un corpo estraneo, che deve essere considerato come un agente estraneo anche molto tempo dopo la sua intrusione” (Breuer & Freud, 1892, p.178). Non è quindi l’evento traumatico di per sé a suscitare il sintomo bensì il ricordo del trauma, tanto che durante un trattamento ipnotico, coloro i quali erano in grado di ritornare ad avere piena consapevolezza e ricordo del trauma vedevano scomparirne i sintomi. Un evento ha un effetto che dipende da una serie di fattori quali la connotazione dolorosa e negativa dell’esperienza ma soprattutto la sensibilità del soggetto che la

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prova. Fattori individuali, situazionali e sociali hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo della sintomatologia traumatica (van der Kolk, 2000).

Inizialmente Freud e Breuer utilizzarono l’ipnosi in quanto ritenevano che il ricordo dell’evento traumatico venisse rivissuto dal soggetto in uno stato ipnoide e che la base della condizione isterica fosse l’esistenza di stati ipnoidi (Breuer & Freud, 1892-95).

Successivamente Freud si allontanò dall’utilizzo del metodo catartico, utilizzato da Breuer, a causa di difficoltà riscontrate nell’applicazione di tale terapia ai propri pazienti.

Dalle analisi condotte su vari pazienti Freud giunse alla conclusione che il trauma subìto e poi represso dovesse appartenere all’infanzia e che il contenuto fosse legato alla sessualità, in particolar modo alla irritazione dei genitali. La malattia isterica sarebbe quindi conseguenza di eventi o esperienze successive alla pubertà che riattiverebbero la traccia mnestica legata al trauma infantile (Freud, 1896). Tale teoria è stata la prima ad elaborare un’ipotesi sulla natura sessuale del trauma ed è nota come “teoria della seduzione”. Negli anni successivi, tuttavia, Freud abbandonò tale concezione (van der Kolk & van der Hart, 1989).

Il pensiero di Freud riguardo al trauma subì ulteriori sviluppi e successive elaborazioni tramite le quali egli giunse a teorizzare che il trauma fosse effetto di fantasie inconsce; i pazienti quindi ricostruirebbero delle fantasie sulla base di spinte libidiche inconsce.

Nel 1888 il neurologo tedesco Oppenheim coniò il termine nevrosi traumatica in cui la causa della malattia era da ricercare nello spavento, nel trauma psichico (Freud, 1892).

In “Al di là del principio di piacere” (1920), Freud tornò a parlare di nevrosi traumatica e ricondusse ad essa due caratteristiche fondamentali: “in primo luogo è sembrato che esse (le nevrosi) siano determinate anzitutto dalla sorpresa, dallo spavento; in secondo luogo di solito una lesione o ferita patita simultaneamente agisce contro l’instaurarsi di una nevrosi” (Freud, 1920, pag.198). In particolar modo, descrivendo le differenze tra i concetti di “spavento”, “paura” e “angoscia” egli descrive come quest’ultima permetterebbe di proteggersi dallo spavento e quindi di evitare il pericolo di una nevrosi da spavento.

Utilizzando l’immagine della vescichetta quale organismo ricevente stimolazioni dal modo esterno e protetto da uno “scudo”, Freud cerca di spiegare il funzionamento dell’apparato psichico umano. Questo sistema però non riceverebbe stimoli esclusivamente dal mondo esterno ma anche dall’interno. Freud definisce quindi traumatici gli eccitamenti provenienti dal mondo esterno che sono talmente forti da oltrepassare lo “scudo” così che l’organismo è sovra stimolato e ha necessità di ostacolare tali eccitamenti, investendo le proprie energie in modo da “legare” psichicamente tale energia. L’angoscia sarebbe quindi elemento fondamentale per la preparazione al pericolo che

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permette tale investimento energetico e si configura come l’ultima difesa contro gli stimoli (Freud, 1920).

Nei soggetti con nevrosi traumatica, il sogno rappresenterebbe non tanto il mezzo per l’appagamento di un desiderio ma lo strumento in grado di padroneggiare gli stimoli e sviluppare l’angoscia che era mancata al momento dell’evento e che ha portato allo sviluppo della nevrosi traumatica (Freud, 1920). Citando l’autore, “questi sogni ubbidiscono piuttosto alla coazione a ripetere, anche se è vero che quest’ultima, durante l’analisi, viene sostenuta dal desiderio di rievocare quello che è stato dimenticato e rimosso” (Freud, 1920, p.218).

Freud contrastò l’idea di Janet il quale sosteneva una scissione della coscienza primariamente coinvolta nello sviluppo sintomi isterici e ritenne, in accordo con Breuer, che la scissione della coscienza fosse un fenomeno secondario (Freud, 1893).

Eccitazioni legate ad un evento violento generavano uno shock emozionale dell’apparato psichico e comportavano la formazione delle cosiddette “idee fisse” che rimarrebbero a livello subconscio (Janet, 1889). Le memoria traumatiche sono un tipico esempio di idea fissa (van der Hart & Horst, 1989). Tali idee fisse organizzerebbero la vita psichica del soggetto tanto da influenzare le percezioni, gli stati affettivi e il comportamento (van der Kolk, Brown & van der Hart, 1989).

Janet riteneva che la dissociazione fosse una condizione presente esclusivamente in soggetti con determinati disturbi psichiatrici, primo tra tutti l’isteria e fu il primo a descrivere tale fenomeno di disgregazione della coscienza come difesa dall’evento traumatico (Putnam, 1989). Egli ebbe modo di descrivere la presenza di diversi stati di personalità tramite l’osservazione di una paziente, Lucie, la quale poteva esperire sensazioni e mettere in atto azioni senza controllo cosciente, durante seduta ipnotica. In Lucie, così come in altri pazienti, esistevano quindi più stati di coscienza a dimostrazione della tesi secondo cui, in un individuo, possano coesistere due o più diversi sistemi di coscienza i quali possono prendere il controllo ed esprimersi sotto forma di automatismi (van der Hart & Horst, 1989). Nel trauma si riconosce una valenza emotiva molto forte. Le emozioni come la paura o l’angoscia caratterizzano quelle condizioni a cui il soggetto sembra incapace di reagire e che non permettono un’integrazione.

La dissociazione comporta una non integrazione della coscienza e la presenza di stati alterati di coscienza caratterizzati da una disgregazione nella memoria, identità, percezione, pensieri e sensazioni. La memoria di esperienze traumatiche sarebbe quindi allontanata dalla coscienza e dal controllo volontario, tanto da manifestarsi involontariamente sotto forma di automatismi (van der Kolk & van der Hart, 1989). Tali presupposti sembrano quindi anticipare la nascita della categoria dei disturbi post- traumatici da stress nei quali si riscontrano i sintomi associati ad eventi traumatici descritti in precedenza. La relazione tra trauma e memoria sembra quindi indiscutibile.

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Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale nacque il termine “nevrosi da guerra” ad indicare le condizioni riportate dai soldati reduci dal fronte, non solo in coloro che erano stati vittime di lesioni conseguenti alle numerose esplosioni, tanto da definire la cosiddetta sindrome “shell shock”, ma anche in coloro che non presentavano lesioni “organiche”. Numerosi reduci di guerra riportarono infatti sintomi psichiatrici, ciò dette il via all’interessamento da parte di medici e psichiatri verso tali sindromi tanto che nel Congresso Internazionale di Psicoanalisi del 1918 il tema dei traumi psichici conseguenti alla guerra fu molto dibattuto. Lo stesso Freud scrisse riguardo tale argomento che “le nevrosi di guerra sono delle nevrosi traumatiche, che, com’è noto, si presentano anche in tempo di pace in seguito a esperienze spaventose o a gravi incidenti, senza alcun rapporto con un conflitto nell’Io” (Freud, 1919, p.73).

Il medico ungherese e allievo di Freud, Sandor Ferenczi ebbe modo di studiare le nevrosi di guerra come ufficiale medico durante la Prima Guerra Mondiale, tale esperienza indirizzerà il suo approfondimento nel campo dei traumi. Ferenczi distinse due tipi di nevrosi di guerra (Frankel, 1998). Ciò ispirò anche il lavoro dello psichiatra e psicoanalista americano Abram Kardiner, che approfondì lo studio delle nevrosi traumatiche curando veterani di guerra statunitensi. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’interesse sul trauma psichico venne così riportato alla luce (Diseth, 2005).

Kardiner descrisse nel suo lavoro “ The Traumatic Neurosis of War” (1941) le osservazioni cliniche derivate dalle analisi dei pazienti veterani di guerra.

Secondo Kardiner la nevrosi di guerra non ha un carattere esclusivamente psicologico ma ha degli effetti anche a livello fisiologico ritenendo quindi che l’organismo risponde al trauma in maniera integrata, definendo una “fisionevrosi”. Notò infatti da una parte delle alterazioni a livello fisiologico quali eccitazione fisiologica e abbassamento della soglia di stimolazione mentre dall’altra alterazioni sul piano psicologico come una accentuata risposta di spavento alle minacce provenienti dall’ambiente, tutte atte a proteggere l’ego dal ricordo del trauma (van der Kolk, 2014).

Da tali considerazioni si sviluppò il noto Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), inserito per la prima volta nella classificazione internazionale DSM nel 1980, nella terza versione del manuale. Questa nuova diagnosi nacque dalle pressioni effettuate da un gruppo di veterani sull’ American Psychiatric Association, che raggruppò in questo nuovo disturbo un insieme eterogeneo di sintomi descritti in molti pazienti. A partire da quegli anni le ricerche sono state indirizzate allo studio per lo sviluppo di strumenti diagnostici validi e affidabili e di trattamenti adeguati (van der Kolk, 2004). Nel DSM- III, nella sua successiva revisione e nel DSM-IV il PTSD era classificato tra i disturbi d’ansia. Dal 2013, con la pubblicazione del DSM-5, il PTSD entra a far parte di una nuova categoria denominata “Trauma and Stressor- Related Disorders”.

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Il Disturbo Post- Traumatico da Stress può verificarsi in chiunque abbia esperito o assistito ad un evento traumatico anche di diversa natura come disastri ambientali, guerre, incidenti, abusi. A tale evento conseguono sintomi che si manifestano nei soggetti come emozioni intense legate a quel determinato evento, intrusioni, flashback e incubi ricorrenti e comportamenti di evitamento (APA, 2013). Un recente studio ha messo in luce quanto in realtà il PTSD non sia frequente nei sopravvissuti a disastri ma sottolinea l’importanza di alcuni fattori di rischio per l’insorgenza del PTSD quali la presenza di psicopatologia, la gravità dell’evento ed eventuali eventi traumatici precedenti (Bromet et al., 2017). Inoltre, indagini sulla popolazione generale in un campione di 68.894 soggetti in 24 paesi hanno evidenziato la presenza di eventi traumatici nel 70% dei partecipanti (Benjet et al., 2016). Numerosi studi hanno evidenziato l’importanza di una categoria diagnostica quale il PTSD ma si è rivelata clinicamente rilevante solo per coloro che hanno subìto un singolo trauma mentre sono rimasti esclusi da questa classificazione alcuni disturbi correlati alle esperienze traumatiche quali la disregolazione affettiva, aggressioni contro sé ed altri ma anche amnesia e dissociazione, somatizzazione, depressione ecc. (van der Kolk, 2000). Prendendo in considerazione questa sintomatologia esclusa dalla classificazione diagnostica del PTSD, nel 1992 Herman propone l’esistenza di un PTSD complesso per coloro che sono sopravvissuti a traumi prolungati o ripetuti mentre Lanius e colleghi (2010a) propongono un sottotipo dissociativo del PTSD.

Il PTSD complesso, definito anche “Disorders od Extreme Stress Not Otherwise Specified (DESNOS)” (van der Kolk et al., 2000) prende in considerazione un complesso di sintomi associati a traumi interpersonali ripetuti e prolungati. Le vittime di tali esperienze, soprattutto coloro che hanno subito abusi infantili sarebbero più a rischio di sviluppare un PTSD complesso (van der Kolk, 2000). Tale sindrome è costituita da una costellazione di disturbi quali alterazioni nella regolazione affettiva, nell’attenzione, nella percezione di sé, nelle relazioni con gli altri ma anche disturbi quali somatizzazioni (van der Kolk, 2000). Il DESNOS fa riferimento quindi a problematiche autoregolatorie in seguito a: trauma avvenuto nella prima infanzia, violenza o violazione del sé su base interpersonale (Lanius, Vermetten & Pain, 2010b).

Krystal (1978) sottolinea invece la relazione tra trauma ed emozioni. Distinguendo infatti tra traumi avvenuti nell’infanzia e traumi esperiti in età adulta riconosce che entrambi provochino effetti sia sul piano affettivo che su quello delle funzioni simboliche.

Numerosi studi hanno ricondotto a traumi infantili gli effetti sulla salute in età adulta; esperienze nocive avvenute nell’infanzia infatti sembrano essere collegate sia all’insorgenza di disturbi psicopatologici (Diseth, 2005; Hovens, 2010) ma anche a disturbi da somatizzazione (Drossman et al., 1990; Katon, Sullivan, & Walker, 2001; Salmon, Skaife & Rhodes, 2003; Brown,

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Schrag, & Trimble, 2005; Chitkara, van Tilburg, Blois-Martin, & Whitehead, 2008; Videlock et al., 2009; Drossman, 2011; Rapoza et al., 2014).

Terr (1991) distingue le esperienze traumatiche infantili in traumi di tipo I e traumi di tipo II. I traumi di tipo I sono descritti come episodi singoli, disturbi da stress post-traumatico tipici dell’età infantile; i soggetti che esperiscono tali traumi mostrano ricordi vividi e dettagliati, rielaborazione e rivalutazione cognitiva, allucinazioni. I traumi di tipo II sono invece descritti come conseguenti a una prolungata o ripetuta esposizione a eventi nocivi e comportano conseguenze più gravi come per esempio sintomi di depersonalizzazione e disturbi di personalità. Il termine traumatico si riferisce quindi a un gruppo eterogeneo di eventi che possono essere di lieve o grande intensità e che possono portare ad effetti dannosi per l’individuo ( Daniele, Manna, & Pinto, 2014).

Per quanto riguarda la differenza tra vari tipi di trauma, alcuni ricercatori hanno indagato in che misura eventi di vita non classificati come traumatici potessero portare ad insorgenza di sintomi da Disturbo Traumatico da Stress (Mol et al., 2005). I criteri diagnostici relativi al Disturbo Post-Traumatico da Stress hanno subìto un’evoluzione dal DSM-III al DSM-5 ma vi sono ancora idee contrastanti sulle caratteristiche che un evento deve avere per essere definito traumatico (Spitzer et al., 2000). Alcuni autori hanno indagato l’insorgenza di PTSD in soggetti che avevano esperito eventi stressanti di alta gravità o bassa gravità ed hanno evidenziato che anche eventi stressanti di minor gravità possono portare a sviluppare PTSD (Spitzer et al., 2000). Altri autori hanno dimostrato come anche soggetti che hanno esperito eventi di vita non classificabili nel criterio A1 (per esempio una malattia cronica o problemi di lavoro) possono mostrare sintomi da PTSD (Mol et al., 2005).

Sulla base dei criteri del DSM-IV, alcuni eventi come incidenti, rapine, morte improvvisa di una persona cara, abuso sessuale fisico in età adulta o nell’infanzia, disastri, guerre, venire a conoscenza di un trauma subìto da una persona cara e assistere a una violenza sono stati classificati come traumatici. Tra gli eventi di vita sono stati invece inseriti problemi relazionali, gravi malattie personali, problemi nello studio o a lavoro, malattie croniche, furti senza confronto con il rapinatore, la morte non improvvisa di una persona cara. I risultati emersi hanno mostrato come soggetti che hanno esperito eventi di vita definiti non traumatici secondo il DSM-IV (o traumi minori) evidenziassero un numero maggiore di sintomi da PTSD rispetto a coloro che avevano mostrato di aver avuto esperienza di eventi classificati come traumatici (traumi maggiori) (Mol et al., 2005). Questi risultati sono in linea con quelli riportati da Spitzer e colleghi (2000), i quali hanno mostrato che non via sia una differenza tra sintomi associati a PTSD in soggetti con trauma maggiore e soggetti con trauma minore. Alla luce di tali risultati, la relazione tra eventi traumatici, eventi stressanti della vita di tutti i giorni e le loro conseguenze sulla dimensione psichica appare complessa. Numerosi fattori infatti potrebbero influenzare l’esperienza traumatica e il disagio psicologico che ne consegue.

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Lo studio del trauma ha portato quindi ad approfondire le conoscenze sulla relazione tra esperienze traumatiche e alterazioni emozionali, cognitive, sociali e biologiche.

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1.2. Il trauma nella psicopatologia

Maltrattamenti subiti durante l’infanzia sono stati spesso messo in relazione alla presenza e manifestazione di una serie di sintomi psicologici e somatici nella vita adulta (McCauley et al., 1997; Moeller & Bachman, 1993; Walker et al., 1999), così come risultano correlati a diagnosi di disturbi psichiatrici, tra cui depressione (Wise, Zierier, Krieger, & Harlow,2001), disturbi d’ansia (MacMillan et al., 2001), disturbi del comportamento alimentare (Kendler et al., 2000) e disturbo post-traumatico da stress (Widom, 1999). L’interazione tra fattori genetici, stress precoci ed eventi di vita determina la risposta individuale e lo sviluppo di disturbi psichiatrici (Heim & Nemeroff, 2001).

Eventi traumatici avvenuti sia durante l’infanzia che l’età adulta sono stati associati a numerose dimensioni psicopatologiche quali depressione, PTSD e dissociazione e allo stesso tempo le dimensioni psicopatologiche sono state messe in relazione allo stress percepito (Wingenfeld et al., 2011). E’ stata riscontrata inoltre un’alta relazione tra disturbi quali PTSD, dissociazione e somatizzazione in soggetti traumatizzati ed è stato ipotizzato che possano essere considerate come dimensioni facenti parte di uno spettro di adattamento al trauma ( van der Kolk, 1996).

Eventi stressanti sono stati messi in relazione a sintomi depressivi e abuso di sostanze in adolescenti (Low et al., 2012), ai comportamenti suicidari in adolescenti (Brent et al., 1993), a disturbi del comportamento (Duke et al., 2010) e disturbi di personalità come il disturbo borderline (Lobbestael, Arntz & Bernstein, 2010). L’ abuso emozionale infantile è stato associato a sintomi depressivi mentre altri traumi avvenuti durante l’infanzia sono stati messi in relazione alla dimensione dissociativa (Wingenfeld et al., 2011). Inoltre, l’abuso emozionale infantile appare maggiormente legato allo sviluppo di depressione maggiore e fobia sociale in età adulta rispetto all’abuso fisico o sessuale (Gibb, Chelminski & Zimmermann, 2007). Pazienti con depressione maggiore con sintomi psicotici descrivono un numero maggiore di esperienze traumatiche infantili, soprattutto abuso fisico e sessuale, rispetto a soggetti depressi senza sintomi psicotici (Gaudiano & Zimmermann, 2010). Benjet e colleghi (2010) hanno evidenziato che eventi traumatici influiscono sul rischio di sviluppare un disturbo psichico non solo in età adulta ma anche in infanzia e adolescenza e che soggetti vittime di tali esperienze risultano più vulnerabili di coloro che non hanno esperienza di tali eventi avversi (Benjet, Borges & Medina-Mora, 2010). Da un’indagine su 71.083 partecipanti è stata stimata una prevalenza del PTSD del 3,9% del campione totale e del 5,6% sui soggetti esposti a trauma (Koenen et al., 2017). Inoltre sono state riscontrate differenze di genere rispetto alla relazione tra evento traumatico e psicopatologia; le donne sembrerebbero più predisposte all’insorgenza di disturbi internalizzanti mentre gli uomini avrebbero più probabilità di andare incontro a dipendenza da sostanze (Sunderland et al., 2016).

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Esperienze avverse avvenute in età infantile hanno conseguenze che si ripercuotono sulla salute anche in età adulta. Tali evidenze hanno permesso di ipotizzare due modelli che cercano di spiegare la relazione tra trauma e malattia mentale (Fink & Galea, 2015. Da una parte, un modello descrive la presenza di periodi di tempo sensibili in cui gli individui, se esposti a traumi, sono più vulnerabili allo sviluppo di psicopatologia. Episodi di abuso sessuale infantile sono stati associati ad alterazioni di alcune aree del cervello come l’ippocampo, il corpo calloso e la corteccia frontale in specifiche fasi di vita (Andersen et al., 2008). Dall’altra, l’ipotesi è che chi ha subito un evento traumatico abbia più probabilità di andare nuovamente incontro a trauma (Finkelhor, Ormrod & Turner, 2007). L’abuso sessuale infantile è ritenuto un importante fattore di rischio sia durante l’infanzia che l’adolescenza ed è risultato molto frequente nei pazienti psichiatrici (Desousa, Karia, Shah, & Shrivastava, 2016). Tali eventi non solo sembrano modificare strutturalmente alcune regioni cerebrali, ma causano anche blocchi nello sviluppo compromettendo lo sviluppo della personalità e della salute psichica (Desousa et al., 2016).

Dal momento che episodi traumatici sono stati associati a disturbi dell’umore e disturbi d’ansia e che questi ultimi sono stati riscontrati anche in soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (Kerns & Kendall, 2012; Wood & Gadow, 2010), alcuni autori hanno indagato la relazione tra eventi stressanti e traumatici e l’insorgenza di disturbi dell’umore e disturbi d’ansia in un campione di ragazzi tra i 17 e i 22 anni con Disturbo dello Spettro Autistico (Taylor & Gotham, 2016). I risultati hanno riscontrato un tasso dell’88.9% di presenza di traumi in soggetti con sintomatologia dell’umore evidenziando una correlazione tra sintomatologia dell’umore e presenza di un evento traumatico avvenuto durante l’infanzia o l’adolescenza mentre la sintomatologia ansiosa non è risultata correlare con eventi traumatici passati (Taylor & Gotham, 2016). Tali risultati sono in linea con quelli mostrati da Ghaziuddin e colleghi in uno studio su bambini con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (1995). Nei bambini con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo e depressione si evidenziava che eventi di vita negativi potessero avere un ruolo nell’insorgenza della depressione (Ghaziuddin, Alessi & Greden, 1995). Appare quindi importante prendere in considerazione vari fattori non solo biologici ma anche ambientali, come gli eventi traumatici, per meglio comprendere l’insorgenza di patologie dell’umore anche in soggetti con disturbi dello sviluppo.

Come precedentemente accennato, una storia di abusi in età infantile è connessa allo sviluppo del Disturbo Borderline di Personalità (BPD) (Lobbestael et al, 2010). In questi soggetti si riscontrano difficoltà nella regolazione delle emozioni alla cui base sembra esserci una iperattività dell’amigdala (Donegan, Sanislow, Blumberg, Fulbright, & Lacadie, 2003). Tale difficoltà nella regolazione emozionale è stata associata a maltrattamento infantile e in particolare all’abuso emozionale e alla trascuratezza da parte del caregiver (Carvalho Fernando et al., 2014). In particolar modo è stato

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evidenziato come le difficoltà nella regolazione emozionale influenzino la relazione tra abuso emozionale e la sintomatologia acuta nel BPD (Carvalho Fernando et al., 2014).

I soggetti che hanno esperito traumi possono sviluppare quindi difficoltà nella regolazione delle emozioni come modalità di adattamento al trauma (van der Kolk et al., 1996). Tale difficoltà può associarsi a sintomi quali incapacità nell’identificazione ed espressione delle emozioni. Tali sintomi sono stati descritti nel costrutto psicologico definito Alessitimia (Sifneos, 1973). Tale fenomeno si è rivelato clinicamente rilevante in quanto un ampio numero di pazienti psicosomatici mostrava difficoltà nell’identificare ed esprimere le emozioni (Sifneos, 1973). La presenza di alessitimia in soggetti traumatizzati fu descritta per la prima volta da Krystal che identificò caratteristiche di alessitimia in sopravvissuti ai campi di concentramento (1968) e successivamente in veterani della guerra del Vietnam con PTSD (1986). Ad oggi lo strumento più utilizzato per valutare l’alessitimia è la Toronto Alexithymia Scale (TAS-20), composta dalle tre dimensioni: difficoltà ad identificare i sentimenti, difficoltà ad esprimere i propri sentimenti, pensare orientato esternamente (Bagby et al., 1994). Questo costrutto è stato indagato anche successivamente in soggetti traumatizzati (Frewen et al.,2008; Frewen et al., 2006; Yehuda et al., 1997; Wastell, 2002; Zeitlin et al., 1993). Zlotnik e colleghi (2001) hanno evidenziato maggiori livelli di alessitimia in pazienti psichiatrici con PTSD rispetto a pazienti senza PTSD. I traumi maggiormente correlati ai livelli di alessitimia erano quelli legati alla trascuratezza fisica ed emozionale che i soggetti avevano subìto durante l’infanzia. Si evidenzia quindi una relazione tra trauma e alessitimia.

Park e colleghi (2015) hanno suggerito che le difficoltà nell’identificare ed esprimere le emozioni agiscano sulla relazione tra il numero dei traumi e l’insorgenza di sintomi del PTSD. I risultati hanno confermato il ruolo moderatore dell’alessitimia nella relazione tra trauma e PTSD, il numero di traumi e l’alessitimia sembrano infatti essere fattori di rischio per il PTSD con una reciproca interazione.

Come precedentemente accennato, le esperienze traumatiche sono state storicamente messe in relazione a fenomeni dissociativi. Come suggerito da Farina e Liotti (2011), tale termine viene usato per indicare sia la categoria dei Disturbi dissociativi, sia i sintomi associati a tale fenomeno, ma anche la base di alcuni processi che presuppongono una mancata integrazione di funzioni psichiche.

Alcuni autori hanno indagato le possibili traiettorie di sviluppo di fenomeni dissociativi in relazioni ad esperienze traumatiche. Ogawa e colleghi (1997) hanno individuato come un trauma avvenuto in età infantile sia legato alla dissociazione; l’età di insorgenza, la cronicizzazione e la gravità dell’esperienza traumatica si è rivelata essere altamente correlata al livello di dissociazione e ne prediceva l’insorgenza.

Secondo il DSM-5 (2013), appartengono alla categoria dei Disturbi Dissociativi i seguenti disturbi: Disturbo Dissociativo dell’Identità, Amnesia Dissociativa, Disturbo da

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Depersonalizzazione/ Derealizzazione, Disturbo Dissociativo con altra specificazione e il Disturbo Dissociativo senza specificazione. In particolar modo, per quanto riguarda l’amnesia dissociativa, essa è stata ritenuta da alcuni un processo adattivo in risposta a un trauma avvenuta durante l’infanzia ( Freyd, 1994). La “Betrayal theory” (Freyd, 1994) ipotizza che nel momento in cui i soggetti siano vittime di violenza o abuso infantile tale evento debba rimanere al di fuori della coscienza non tanto per ridurre la sofferenza ma per riuscire a sopravvivere ad essa. Questa modalità di risposta al trauma può risultare adattiva nel breve tempo, ma non si rivela tale nel lungo periodo in quanto influenzerebbe l’insorgenza di sintomi derivati da questa disconnessione (van der Kolk & Fisler, 1995).

Si evidenzia quindi come la relazione tra eventi traumatici e insorgenza di patologia psichiatrica sia molto complessa poiché non solo le esperienze traumatiche sono definite da una eterogeneità di eventi nocivi ma anche perché sono molti i disturbi in cui si ritrovano tali esperienze pregresse. Data la complessità di questa relazione, alcuni autori suggeriscono di esaminarla in un contesto più ampio (Sunderland et al., 2016). Sunderland e colleghi (2016) suggeriscono che il rischio di sviluppare un disturbo psicopatologico a seguito di un evento traumatico non sia determinato da un meccanismo specifico per un determinato disturbo ma da meccanismi comuni e condivisi da più disturbi.

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1.3. Trauma e psicosomatica

Negli ultimi vent’anni una quota sempre maggiore di letteratura ha analizzato l’associazione tra l’aver vissuto episodi di vita traumatici e maltrattamenti infantili, tra cui l’abuso sessuale e le violenze fisiche, e la presenza di dolore cronico nonché le conseguenze sia a livello fisico che psichico durante l’età adulta (Springer et al.,2007).

Uno dei fattori che si presuma svolga un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi somatici è l’esposizione a traumi (Afari et al., 2014). Studi clinici e caso-controllo hanno riscontrato che una percentuale relativamente elevata di soggetti con dolore cronico ha subìto un abuso sessuale o fisico durante l’infanzia (Felitti et al., 1998). Le diagnosi mediche associate a maltrattamenti infantili sono principalmente sindromi caratterizzate da dolore e disabilità, tra queste sono riportate: dolore generalizzato (Finestone et al., 2000; Green, Flowe-Valencia, Rosenblum & Tait, 2001; Kendall-Tackett, 2001; Kendall-Tackett, Marshall & Ness, 2003), dolore pelvico e genitale in donne. Storie pregresse di abusi fisici e sessuali (Harlow & Stewart, 2005; Lampe et al., 2003) si trovano associate a fibromialgia (Boisset-Pioro, Esdailev& Fitzcharles, 1995; Anderberg, Marteinsdottir, Theorell & von Knorring, 2000), dolore muscoloscheletrico cronico (Kopec & Sayre, 2004), tendenza alla cronicizzazione dell’emicrania (Golding, 1999; Tietjen et al., 2010), sindrome dell’intestino irritabile e malattie gastrointestinali (Drossman et al., 1990; Leserman et al., 1996; Talley, Fett, & Zinmeister, 1995). La relazione tra sintomi somatici e PTSD è stata indagata in bambini e adolescenti sopravvissuti a gravi disastri ambientali come il terremoto avvenuto in Cina nel 2015. Sintomi somatici quali mal di testa, stanchezza, dolore agli arti, sensazione di tachicardia e PTSD erano frequenti a tre e sei mesi dopo l’evento (Zhang, Zhu, Du, & Zhang, Y. 2015). La relazione tra il numero di eventi di vita avversi e sintomi somatici è stato riscontrata anche in soggetti della popolazione generale. In particolar modo gli eventi di vita avvenuti sia in età adulta che durante l’infanzia correlavano positivamente con la presenza di sintomi somatici in adulti. Tale relazione è risultata essere significativa sia nelle donne che negli uomini per quanto riguarda gli eventi avvenuti nell’età adulta mentre per quelli avvenuti durante l’infanzia tale relazione è risultata significativa solo nelle donne (Tak, Kingma, van Ockenburg, Ormel & Rosmalen, 2015).

Spesso coloro che soffrono di dolore cronico riportano una storia pregressa di abuso fisico e/o sessuale che si riflette su una modifica della percezione del dolore sperimentale (Fillingim, 2005). Questa relazione è stata studiata da Kendall-Tackett (2001) dimostrando che l’effetto delle storie di abuso in infanzia sulla percezione del dolore sembra veicolata dall’instaurarsi di certi tipi di credenze e cognizioni che possono aumentare le esperienze di dolore amplificandone la percezione e riducendone la soglia (Drossman, 1994).

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Non solo lo stato di salute ma anche la percezione del dolore (Fillingim, 2005) e le relazioni sociali degli individui che hanno subìto esperienze traumatiche sembrano essere fortemente connesse ad eventi negativi; per questo motivo sono stati ricercati i meccanismi alla base di tale associazione individuando meccanismi fisiologici, comportamentali, sociali, emozionali e cognitivi (Kendall-Tackett & Klest, 2009).

1.3.1. Disturbi da Sintomi Somatici

La somatizzazione fu definita da Lipowski (1988) come “una tendenza a sperimentare e comunicare disagio somatico e sintomi non rilevati da ricerche patologiche, attribuirli a malattie fisiche e cercare assistenza medica” (Lipowski, 1988, p. 1359) e che si manifesta in seguito a eventi di vita stressanti. Tra i fattori che possono facilitare la somatizzazione vi sono l’amplificazione (Barsky, 1979) e l’alessitimia (Lesser, Ford, & Friedmann, 1979). Tali fattori sembrano essere in relazione con disturbi psicosomatici (Ford, 1997) ed è stata riscontrata una forte relazione tra alessitimia, disturbi psicosomatici e PTSD (Krystal, 1979).

Con la quinta edizione del DSM, la classificazione riguardante i disturbi da somatizzazione è stata modificata introducendo una nuova categoria diagnostica denominata “Disturbi da Sintomi Somatici e disturbi correlati” (DSM-5, APA, 2013). Oltre al Disturbo da sintomi somatici, questa categoria comprende anche il Disturbo d’ansia di malattia, Disturbo da conversione, Fattori psicologici che influenzano altre condizioni mediche, il Disturbo fittizio, Disturbo da sintomi somatici con altra specificazione e il Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati senza specificazione. Questa nuova classificazione introduce due importanti cambiamenti superando le problematiche riscontrate dai professionisti nei confronti della classificazione del DSM-IV. Da una parte, il criterio A non è più limitato alla presenza di “sintomi fisici clinicamente inspiegabili” che presupponeva implicitamente un dualismo mente-corpo e dall’altra tali sintomi devono essere accompagnati da comportamenti, sentimenti e pensieri eccessivi e sproporzionati relativi alla salute (Dimsdale et al., 2013). Questa nuova classificazione sottolinea l’importanza dell’esperienza soggettiva rispetto a un determinato sintomo evidenziando come non sia tanto il sintomo ad identificare il disturbo ma la misura in cui l’individuo riconosce tale sintomo come disfunzionale.

La relazione tra trauma e somatizzazioni è possibile evidenziarla grazie alla nuova classificazione del DSM-5. Uno studio recente ha evidenziato che ad alti punteggi di amplificazione somatica, dissociazione somatica e del fattore F1 dell’alessitimia (difficoltà ad indentificare i

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sentimenti) corrisponde un maggior numero di eventi traumatici secondo il criterio A del PTSD (Ciaramella, 2018). La diagnosi di disturbo da somatizzazione secondo i criteri del DSM IV invece non permetteva di evidenziare tale relazione.

1.3.2. Ruolo del trauma nell’insorgenza di dolore

Il dolore è stato definito dall’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) come “Una sgradevole esperienza sensoriale ed emotiva, associata ad un effettivo o potenziale danno tissutale, comunque descritta come tale” (IASP; Meskey & Bogduk, 1994). La dimensione soggettiva emozionale è riconosciuta come fattore implicato nell’esperienza di dolore anche in assenza di una lesione.

L’aver subìto esperienze traumatiche sembra influenzare in gran parte la vita psichica degli individui ed avere allo stesso tempo un forte impatto sulla salute fisica, tanto che individui traumatizzati sembrano più a rischio di sviluppare patologie e il PTSD si presenta spesso in comorbidità con il dolore. D’altra parte anche nei soggetti con dolore cronico la prevalenza di PTSD è significativa soprattutto in coloro che presentano condizioni dolorose severe (Asmundson, Coons, Taylor & Katz, 2002; Moeller- Bertram, Keltner & Strigo, 2012). I disturbi da dolore riferiti dai pazienti traumatizzati spesso hanno in comune il fatto di non essere spiegati da lesioni somatiche strutturali; per questo è importante sottolineare che nei processi traumatici gli individui possono esperire dolore dovuto ad una lesione fisica ma che contemporaneamente si instaura una modificazione delle strutture del SNC adibite alla elaborazione degli stimoli dolorosi (Egloff, Hirschi & von Känel, 2013).

Sebbene alcuni autori indichino una forte associazione tra sintomi dolorosi e sintomi da stress post traumatico e suggeriscano che tale relazione evidenzi la presenza nelle due condizioni di caratteristiche simili quali ansia e iperattivazione, comportamenti di evitamento, labilità emotiva ma anche ipervigilanza, bias attenzionali e una disregolazione nella risposta di stress e nella modulazione del dolore, è difficile descrivere quale sia la natura di tale relazione e quali siano i meccanismi alla base di essa (Asmundson et al., 2002). Sono stati proposti modelli alla base della relazione tra i sintomi del PTSD e dolore quali la “Shared Vulnerability” (Taylor, 1999) e la “Mutual Maintenance” (Sharp & Harvey, 2001). In particolar modo, il modello descritto da Sharp e Harvey (2001) propone sette fattori (Bias attenzionali, sensibilità all’ansia, il ricordo del trauma, l’adottare un coping evitante, depressione, elevati livelli di ansia che influiscono sulla percezione del dolore, strategie cognitive) che influirebbero sul mantenimento della connessione tra dolore e PTSD e che incrementerebbero il distress e le disfunzioni ad esse associate, rendendo complessa la relazione tra trauma e dolore. Il

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con PTSD e dolore cronico ipotizzando una base comune di vulnerabilità dovuta a una disposizione a provare paura (Taylor, 1999). Si ipotizza che tale condizione possa essere il collegamento, descritto come “vulnerabilità condivisa” tra PTSD e dolore cronico (Asmundson et al., 2002). Sono stati descritti inoltre altri modelli di interazione tra trauma e dolore cronico: il “Perpetual avoidance model” (Liedl & Knaevelsrud, 2008) che pone l’accento sul comportamento di evitamento e sul pensiero catastrofico come fattori che incrementano i sintomi e il modello di McLean (McLean, 2005) che focalizza l’attenzione sugli aspetti neurobiologici e neuroendocrini all’origine dei sintomi associati al trauma e del dolore cronico. Un modello successivo è invece quello definito “The hypermenesia-hyperarousal model” che prende in considerazione da una parte la capacità dell’uomo di ricordare una minaccia subìta in modo tale da riconoscerla ed evitarla (ipermnesia) e dall’altra l’iperattivazione indotta dalla minaccia che permetterebbe di rilevare un potenziale pericolo. Il ricordo del dolore legato all’esperienza traumatica pone le basi per il dolore legato alla memoria mentre l’ipereccitabilità indotta dal trauma può portare a fenomeni come l’iperalgesia e l’allodinia (Egloff et al. , 2013). Per allodinia si intende il fenomeno per cui uno stimolo innocuo diventa doloroso, mentre l’iperalgesia si identifica con un aumento dell’intensità del dolore causato da uno stimolo che normalmente evoca dolore (IASP, 1994). Anche Jenewein e colleghi (2009) hanno evidenziato una forte associazione tra dolore cronico e PTSD.

Contrariamente a quanto appena descritto, alcuni autori non evidenziano alcuna associazione tra trauma infantile e sintomi dolorosi in età adulta (Raphael, Widom & Lange, 2001). Appare per questo necessario approfondire le conoscenze riguardanti i processi alla base di essi in modo da comprenderne maggiormente le implicazioni.

Disturbi quali depressione e ansia sono stati correlati a molte condizioni croniche dolorose (Scott, 2007). Dal momento che sono presenti alti tassi di depressione in soggetti sopravvissuti a traumi (Koopman et al., 2007) e che la depressione è associata a dolore, alcuni autori hanno ipotizzato che la depressione potesse agire da mediatore tra abuso infantile e dolore (Sachs-Ericsson, Kendall-Tackett, & Hernandez., 2007). Tali autori hanno concluso che abusi infantili e depressione contribuiscano in maniera indipendente alla percezione del dolore (Sachs-Ericsson et al., 2007). I disturbi dell’umore inoltre sono spesso presenti in condizioni mediche croniche ma non sembrano rappresentare soltanto una conseguenza di essi ma potrebbero rappresentare anche un importante fattore eziologico per condizioni come disturbi cardiaci, cancro, epilessia (Evans et al., 2005). La presenza di disturbi d’ansia inoltre, sembra predire disturbi cardiaci, problemi gastrointestinali ed emicrania (Harter, Conway, & Merikangas,2003). Uno studio recente ha confermato che il distress affettivo sembra avere un ruolo di mediatore nella relazione tra abuso e dolore cronico. Nel determinare l’associazione tra storia d’abuso e distress affettivo, fibromialgia, severità del dolore e

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interferenza e funzionamento fisico, hanno analizzato 3081 individui con dolore cronico (Nicol et al., 2016). Tali analisi hanno evidenziato che soggetti con storia d’abuso mostravano maggiore depressione, maggiore ansia, peggiore funzionamento fisico, maggior gravità del dolore, peggiore interferenza del dolore, maggior catastrofismo e più alti punteggi per la fibromialgia. E’ emerso inoltre che il distress affettivo e la fibromialgia sono entrambi fattori che influenzano la relazione tra abuso e dolore (Nicol et al., 2016).

Un alto tasso di esperienze traumatiche è stato riscontrato in pazienti con fibromialgia (Walker et al., 1997; Boisset-Pioro et al., 1995), appare infatti che i soggetti che riportano abusi infantili presentano anche maggior distress psicologico, hanno sintomi fisici più severi, maggiore disabilità e utilizzano maggiormente i servizi di cura. Weissbecker e colleghi (2006) hanno ipotizzato un’associazione tra trauma infantile e disregolazione neuroendocrina in donne con fibromialgia. I risultati indicano che l’abuso fisico e sessuale nell’infanzia rappresentano stressors cronici capaci di alterare la funzione endocrina nell’adulto. Nelle donne che riportano abuso fisico si evidenzia un appiattimento della curva diurna del cortisolo, con una marcata attenuazione dei livelli al mattino. Emerge inoltre un aumento dei livelli di cortisolo alla sera in donne abusate sul piano emotivo (Weissbecker et al., 2006). Alterazioni dei sistemi neuroendrocrini responsabili della risposta allo stress sono state descritte anche nei pazienti depressi e nei soggetti con PTSD; questi ultimi in particolare sembrerebbero avere più alti livelli di noradrenalina e bassi livelli di cortisolo mentre i soggetti depressi presenterebbero alti livelli di cortisolo (Kendall-Tackett, 2000).

La presenza di esperienze traumatiche è stata riportata anche in soggetti con dolore cronico diffuso (McBeth, Macfarlane, Benjamin & Silman, 2001). Uno studio longitudinale condotto in soggetti esposti a eventi traumatici avvenuti prima dei 7 anni, ha messo in luce un più alto rischio di sviluppare dolore cronico diffuso nei 40 anni successivi (Jones, Power & Macfarlane, 2009). Questi risultati confermano il fatto che l’insorgenza di dolore cronico diffuso è influenzato da fattori fisici e psicosociali (Harkness, Macfarlane, Nahit, Silman & McBeth, 2004).

Eventi traumatici sono stati associati anche alla Sindrome da Fatica Cronica, la quale risulta maggiormente presente in soggetti con traumi infantili; ad essa si associano inoltre alterazioni neuroendocrine evidenziate da più bassi livelli di cortisolo al mattino in soggetti con sindrome da fatica cronica esposti a trauma rispetto a coloro che soffrono di sindrome da fatica cronica ma che non hanno subìto esperienze traumatiche (Heim et al., 2009).

Gli eventi traumatici avvenuti durante l’infanzia sembrano quindi avere molteplici e complessi effetti sulla salute in età adulta (Miller-Graff, Cater, Howell & Graham-Bermann 2015) tanto che alcuni hanno ipotizzato la presenza di finestre temporali di sviluppo in cui le regioni cerebrali interessate alla risposta allo stress siano maggiormente vulnerabili (Andersen et al., 2008).

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L’infanzia e l’adolescenza sono infatti periodi estremamente sensibili alle esperienze tanto che queste ultime possono influenzare lo sviluppo; un eccessivo carico di stress come quello che caratterizza le esperienze traumatiche può comportare effetti irreversibili sia sul sistema endocrino che sul comportamento (Pervanidou & Chrousos, 2007).

Traumi avvenuti in età infantile quali abuso sessuale e fisico sono stati studiati anche in soggetti con mal di testa e le ricerche hanno permesso di individuare una relazione tra esperienze traumatiche e insorgenza di tale disturbo in età adulta (Golding, 1999; Tietjen et al., 2007; Tietjen et al., 2010). Interessante notare come tale associazione sia più forte in soggetti con tre o più eventi familiari negativi ma che non tutte le esperienze negative abbiano in egual maniera la stessa influenza sulla probabilità di sviluppare disturbi. Gli abusi sessuali e fisici, la presenza di disturbi mentali e abuso di sostanze e comportamenti antisociali sembrano essere i fattori maggiormente in grado di predire l’insorgenza di mal di testa in età adulta (Lee et al., 2009). Sono state trovate inoltre correlazioni significative tra abuso emozionale e durata del mal di testa ma anche tra abuso fisico e gravità del dolore in pazienti con emicrania (Kucukgoncu et al., 2014).

1.3.3. Relazione tra eventi traumatici e valutazione della percezione del dolore

L’esposizione ad eventi traumatici è una condizione frequente, soprattutto se si considerano come traumatici sia eventi straordinari come guerre o catastrofi naturali ma anche eventi minori (Colombo & Mantua, 2001). Se inizialmente il PTSD sembrava associarsi principalmente a veterani di guerra, più recentemente è emerso che la maggior parte di coloro che soffrono di tale sintomatologia sono individui che hanno esperito o sono stati testimoni di un trauma avvenuto in ambiente domestico, subito violenze, incidenti ma anche crimini (O’Doherty et al., 2017). Gli effetti a lungo termine di traumi quali torture fisiche o psicologiche sul corpo e in particolar modo sulla percezione del dolore non sono però stati approfonditamente ricercati (Defrin et al., 2017).

Dolore cronico e Disturbo da Stress Post-Traumatico sono altamente associati (Defrin et al., 2015). La percezione e la modulazione del dolore sono state indagate in soggetti traumatizzati (Pitman et al., 1990; Scarinci et al., 1994; Geuze et al., 2007; Defrin et al., 2008; Kraus et al., 2009; Gómez-Pérez & López-Martínez, 2013; Moeller-Bertram et al., 2014; Defrin et al., 2017).

Lo studio di Defrin e colleghi (2008) ha indagato la percezione del dolore e il dolore cronico in un campione di 32 soggetti con PTSD, 29 soggetti con disturbo d’ansia e 20 controlli sani tramite la misurazione delle soglie al caldo e al freddo, misurazione soprasoglia e misurazione della sommazione temporale (“wind-up”). Dai risultati emerge che soggetti con PTSD presentano soglie

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dolorifiche significativamente più alte ma allo stesso tempo stimano gli stimoli nocivi soprasoglia come più intensi dei controlli, evidenziando un particolare profilo di iperreattività e iposensibilità. Un aumento delle soglie dolorifiche è stato ritrovato anche da Kraus e colleghi (2009) i quali hanno valutato le soglie dolorifiche di veterani di guerra con e senza PTSD e di controlli sani evidenziando significative differenze nelle soglie dolorifiche tra soggetti esposti al trauma e controlli sani indipendentemente dall’avere o no PTSD.

Defrin e colleghi (2015) hanno indagato l’ipotesi che alti livelli di ansia, catastrofismo e sensibilità all’ansia in pazienti con PTSD fosse associata a ipersensibilità al dolore mentre alti livelli di dissociazione fossero associati a iposensibilità al dolore (Ludascher et al., 2010; Schmal et al., 2010). Hanno identificato soglie dolorifiche al caldo e soglie pressorie significativamente più elevate in soggetti traumatizzati rispetto a controlli; inoltre le soglie dolorifiche correlavano positivamente con la dimensione dissociativa: maggiore la dissociazione, più alte le soglie mentre le valutazioni del dolore correlavano positivamente con la sensibilità all’ansia e negativamente con il livello di dissociazione.

Per quanto riguarda la modulazione del dolore Defrin e colleghi (2017) hanno effettuato una valutazione in sopravvissuti a torture a confronto con un gruppo di controllo tramite la misurazione di soglie dolorifiche, tolleranza al dolore, modulazione del dolore condizionato e sommazione temporale del dolore. Dai risultati emerge che le soglie dolorifiche non differiscono tra i gruppi mentre si evidenzia una disfunzione nella modulazione del dolore e incremento nella sommazione temporale nei soggetti traumatizzati. La valutazione della capacità di modulare il dolore viene effettuato solitamente tramite il DNIC, fenomeno per cui uno stimolo doloroso inibisce il dolore prodotto da un altro stimolo nocivo sotto l’effetto di una modulazione centrale (Le Bars et al., 1981). Una diminuzione nella capacità di modulare il dolore è stata individuata anche in soggetti con fibromialgia e dolore temporomandibolare (Edwards, Ness, Weigent & Fillingim, 2003).

In donne traumatizzate con e senza PTSD è stato descritto come esse siano non tanto più sensibili a stimolazione dolorifica quanto in realtà esse valutino il dolore in maniera più negativa rispetto a donne non esposte a trauma. Le donne con PTSD presentano maggior spiacevolezza legata al dolore rispetto a donne senza PTSD e manifestano inoltre maggiori livelli di dissociazione, ansia, e depressione (Góméz-Pérez & López- Martínez, 2013).

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1.3.4. Alterazioni fisiologiche legate al trauma, relazione tra trauma e regolazione endocrino-autonomica

I meccanismi di attivazione in risposta a situazioni stressanti sono adattivi e fondamentali per la sopravvivenza ma diventano disfunzionali se si cronicizzano compromettendo l’omeostasi. Le anormalità psicobiologiche del PTSD si esprimono con effetti psicofisiologici sia tramite risposte autonomiche eccessive in risposta a stimoli che rievocano il trauma, sia tramite un iperreattività a stimoli intensi ma neutrali, con effetti neuro-ormonali (in particolare a livello noradrenergico e cortisolemico) e immunologici (van der Kolk et al., 2004). I risultati descritti da Song e colleghi (2018) hanno evidenziato come soggetti con disturbo da stress post-traumatico siano più a rischio di sviluppare malattie autoimmuni.

Condizioni di stress estremo o prolungato influenzano l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e l’asse simpatico del Sistema Nervoso Autonomo (SNA) facendo ipotizzare la presenza di alterazioni a livello di questi assi in soggetti con PTSD (Boscarino, 1996). Possono inoltre essere presenti condizioni di iperattivazione cronica dovuta all’esposizione ad eventi stressanti (Kendall-Tackett, 2000).

Il PTSD, considerato come forma persistente di stress, sembra essere coinvolto anche nel maccanismo di invecchiamento cellulare tramite il potenziamento dello stress ossidativo; tuttavia l’ipotesi di tale effetto non è confermata e lo stress ossidativo sembra uno dei meccanismi implicati nell’invecchiamento (Miller & Sadeh, 2014). Stati di stress psicologico sono stati associati a maggiori livelli di danno ossidativo (Gidron et al., 2006) e fattori di stress psicologico e condizioni di stress cronico sono stati associati a danni al DNA (Irie et al., 2001; Dimitroglu et al., 2003).

Considerato il fatto che non tutti gli individui esposti a trauma sviluppano un disturbo da stress post-traumatico, possono quindi esserci differenti risposte sia sul piano biologico che psicologico in risposta a tali eventi (Yehuda, 1998). Alterazioni a livello dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, come quelle riscontrate in condizioni di stress e descritte nei soggetti con PTSD, sono ritenute uno dei meccanismi principali per cui lo stress ha effetti negativi sul cervello. Lo stress comporta una serie di complesse risposte da parte dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che si esplicano nel rilascio di CRF (corticotrophin-releasing factor) da parte dell’ipotalamo, di ACTH (ormone adrenocorticotropo) dall’ipofisi e di cortisolo dalle ghiandole surrenali. Studi sui veterani di guerra hanno evidenziato alterazione dei livelli di cortisolo; il PTSD sembrerebbe caratterizzato da una ipersecrezione di CRF, minor rilascio di cortisolo e una aumentata inibizione del feedback negativo (Yehuda, 1998). In tali individui si riscontrano alti livelli di noradrenalina (Kendall-Tackett, 2000). Coloro che hanno esperito eventi negativi possono sviluppare una cronica iperattivazione dovuta al processo di sensibilizzazione ed essere più vulnerabili agli eventi stressanti (McCarty & Gold, 1996).

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Sono stati riscontrati livelli di norepinefrina ed epinefrina significativamente più alti in pazienti con PTSD rispetto a pazienti con depressione maggiore, bipolari I e schizofrenia durante ospedalizzazione (Kosten et al., 1987), mentre sono risultati più bassi i livelli di cortisolo (Mason et al., 1986). Gli autori spiegano tale profilo ipotizzando che il sistema ipofisi-surrene venga inibito da specifici meccanismi psicologici caratteristici dei soggetti traumatizzati (Mason et al., 1986). Mason e colleghi (1988) hanno confermato tale profilo rilevando un rapporto noradrenalina/cortisolo urinario significativamente più elevato che permetterebbe di distinguere pazienti PTSD dai depressi, bipolari I, schizofrenia paranoide e schizofrenia indifferenziata (Mason et al., 1988). Lemieux e Coe (1995) hanno indagato l’ipotesi della presenza del rapporto norepinefrina/cortisolo in donne con PTSD vittime di abusi sessuali infantili; tale studio indica che le donne con PTSD hanno elevati livelli sia di noradrenalina che di cortisolo evidenziando un profilo diverso rispetto a quello ritrovato negli uomini con PTSD.

Le strutture cerebrali nelle quali si evidenziamo evidenziano maggiori compromissioni legate al PTSD sono l’ippocampo, l’amigdala e la corteccia prefrontale (Karl et al., 2006). Anche la corteccia cingolata anteriore appare disfunzionale nel Disturbo Post-Traumatico da Stress e l’alterazione del circuito amigdala-locus coeruleus- cingolato anteriore sembra essere coerente con la cronica attivazione noradrenergica descritta nei soggetti traumatizzati (Hamner, Lorberbaum & George, 1999).

Alcuni studi hanno supportato l’ipotesi di possibili conseguenze del trauma che si esprimono a livello neuroanatomico in una riduzione dell’ippocampo in cui il volume vede una riduzione tra il 5% e il 12%, fino ad arrivare al 22% bilateralmente (Bremner et al., 1995; Gurvits et al., 1996; Bremner et al. 1997; Bonne et al., 2008). Bonne e colleghi (2001) hanno replicato questa indagine tramite acquisizione di immagini MRI ma non hanno rilevato differenze nel volume ippocampale tra sopravvissuti a un trauma con PTSD o senza, inoltre, una riduzione dell’ippocampo non sembra essere un fattore di rischio per lo sviluppo di PTSD. Numerosi studi successivi hanno invece confermato la riduzione del volume ippocampale in soggetti traumatizzati (Villarreal et al., 2002; Hedges et al., 2003; Lindauer et al., 2004; Vythilingam et al., 2005; Bonne et al., 2008; Felmingham et al., 2009; Zhang et al., 2011). Altri invece non hanno riportato significative differenze (Golier et al., 2005), così come studi effettuati sui bambini maltrattati non hanno evidenziato importanti differenze (De Bellis et al., 1999; 2001; 2002). Se quindi la riduzione del volume ippocampale sia conseguenza del disturbo post- traumatico da stress o se invece rappresenti un fattore di rischio per lo sviluppo di tale patologia non è chiaro (O’Doherty et al., 2015).

Dal momento che l’amigdala ha un ruolo fondamentale nella valutazione emozionale degli stimoli e che i soggetti traumatizzati tendono a interpretare gli input sensoriali come esperienze del

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trauma passato (van der Kolk et al., 2004), indagare il ruolo dell’amigdala nei soggetti traumatizzati appare fondamentale per la comprensione del meccanismi patofisiologici associato al PTSD (Woon & Hedges, 2008). Una recente meta-analisi ha indagato donne con PTSD esposte a maltrattamento infantile ricercando differenze sia a livello dell’ippocampo che dell’amigdala rispetto a un gruppo di controllo; i risultati non hanno mostrato differenze per quanto riguarda il volume dell’ippocampo e amigdala sinistra mentre hanno evidenziato una riduzione nell’amigdala destra nelle donne traumatizzate (Veer et al., 2015). Tali risultati appaiono solo in parte sovrapponibili a quelli evidenziati da una precedente meta-analisi che ha individuato un volume ippocampale ridotto bilateralmente in soggetti con PTSD e significative riduzioni anche a livello della corteccia cingolata anteriore e del volume dell’amigdala bilateralmente (Karl et al., 2006). I risultati appaiono però discordanti in quanto, in bambini vittime di abuso, il volume ippocampale appare normale. L’ipotesi prospettata è che l’atrofia sia associata all’esposizione al trauma (Woon & Hedges, 2008). Altri studi condotti nei soggetti con PTSD, evidenziano riduzioni significative di regioni come ippocampo e amigdala così come quelle osservate a carico della corteccia cingolata anteriore, corteccia prefrontale mediale, giro frontale mediale, frontale superiore e corteccia del precuneo probabilmente correlate con la sintomatologia del disturbo post-traumatico da stress ( O’Doherty et al., 2017).

Gong e colleghi hanno infine valutato la possibilità di individuare soggetti esposti a traumi con o senza PTSD tramite uno studio di risonanza magnetica strutturale. La comparazione tra soggetti con PTSD e controlli sani sulla base sia della materia grigia che di quella bianca ha permesso una discriminazione con accuratezza del 91%, mentre comparando soggetti traumatizzati con PTSD o soggetti traumatizzati senza PTSD, la materia grigia ha permesso una distinzione con accuratezza del 67%. Ciò ha portato gli autori di ipotizzare la presenza di pattern neuroanatomici alterati la cui comprensione appare di rilevanza per la pratica clinica (Gong et al., 2014).

Il Disturbo Post-traumatico da Stress appare caratterizzato dall’attivazione fasica del sistema nervoso simpatico in risposta a stimoli associati ad un evento traumatico (Cohen et al., 1998). Cohen e colleghi (1998) hanno individuato un’alterazione a livello del SNA. I soggetti con PTSD presentavano una Heart Rate (HR) significativamente più alta e una Heart Rate Variability (HRV) più bassa rispetto ai controlli. Tali risultati sono compatibili con quelli emersi dallo studio su 9 pazienti con PTSD e 9 controlli in cui Cohen e colleghi (1997) hanno evidenziato un particolare profilo elettrofisiologico in pazienti con PTSD. I soggetti traumatizzati riportano un HR basale significativamente più alto rispetto ai controlli e livelli più bassi di Heart Rate Variability (HRV) con la componente High-Frequency (HF) più bassa e una Low-frequency (LF) più alta, indicando un incremento del tono simpatico e un decremento del parasimpatico (Cohen et al., 1997). Il sistema

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parasimpatico, in particolare la regolazione vagale, è coinvolto nelle risposte allo stress e nelle conseguenze a lungo termine dello stress ( Sahar et al., 2001). L’analisi dell’HRV permette di studiare il tono simpatico e parasimpatico e fornisce informazioni sulle interazioni tra questi due sistemi rilevando due componenti: bassa frequenza (LF, 0,1 Hz) e alta frequenza (HF, 0,25 Hz) (Cohen et al., 1997). In particolare sembra che in soggetti con PTSD vi sia una riduzione dell’attività parasimpatica (Green et al., 2016; Lee et al., 2018; Minassian et al., 2014).

Sahar e colleghi (2001) hanno valutato 29 soggetti, 14 con PTSD al momento dello studio e 15 senza, tramite elettrocardiogramma a riposo e durante compito aritmetico. I risultati non hanno individuano differenze nella misurazione basale tra i due gruppi, ma differenze nella risposta HF-HRV in risposta al compito aritmetico. Gli autori suggeriscono una differenza nel controllo parasimpatico della frequenza cardiaca in risposta alla sfida mentale tra i soggetti con PTSD e quelli senza. L’ipotesi è che questa differenza consisterebbe nella mancanza di modulazione vagale sulla risposta della frequenza cardiaca nei soggetti con PTSD oppure potrebbe essere dovuta ad una regolazione cortico-bulbare delle strutture del tronco cerebrale che in questa condizione è compromessa ( Sahar et al., 2001).

Keary e colleghi (2009) hanno valutato 40 donne, 20 con PTSD e 20 controlli che non hanno mostrato differenze nella misurazione basale del SNA come descritto da Sahar e colleghi (2001), mentre hanno evidenziato un abbassamento dell’attività parasimpatica in tutte le partecipanti durante i compiti stressanti con una riduzione statisticamente significativa nelle donne con PTSD. Questi risultati confermano un’alterata risposta parasimpatica in risposta a fattori di stress psicologico (Keary et al., 2009).

Una diminuzione nella risposta della componente parasimpatica del SNA appare caratteristica anche di soggetti con Disturbo di Personalità Borderline. Dal momento che tali soggetti mostrano difficoltà nella regolazione delle emozioni, del comportamento e nelle relazioni che si associano frequentemente a esperienze traumatiche, approfondire la valutazione del sistema nervoso autonomo può aiutare nella comprensione dei meccanismi neurali alla base di questo disturbo (Austin et al., 2007).

Tali ricerche conseguono all’ipotesi di Porges (2009) secondo cui la stima del tono vagale può rilevarsi utile come indice di vulnerabilità allo stress; l’aritmia sinusale respiratoria ( RSA) ha origine neurale e sembra fornire un indice più sensibile dello stato di salute rispetto alla frequenza cardiaca (Porges, 2009).

La Teoria Polivagale enfatizza la presenza di due circuiti vagali. Sono due infatti le principali branche del sistema parasimpatico: un circuito più nuovo e mielinizzato, ventrovagale, le cui fibre raggiungono gli organi sopra-diaframmatici, i muscoli del volto, dei polmoni, del cuore e un circuito

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più antico, dorsovagale, le cui fibre si portano agli organi sotto-diaframmatici. Il circuito più recente è impegnato nella comunicazione sociale e nel comportamento prosociale inibendo l’azione del sistema nervoso simpatico sul cuore e attenuando l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Il circuito più primitivo invece permette di mettere in atto la risposte difensiva di immobilizzazione (Porges, 2011). La Teoria Polivagale descrive come ognuno dei tre stadi gerarchicamente ordinati dello sviluppo del sistema autonomo dei vertebrati sia associato a un sottosistema autonomo nei mammiferi. I tre circuiti che rappresentano i tre stadi dello sviluppo sono rappresentati dalla componente vagale non mielinizzata, dalla componente simpatico adrenergica e dalla componente mielinizzata del vago. Essi sono associati all’immobilizzazione, alla mobilizzazione e alla comunicazione sociale (Porges, 2009). Tale teoria enfatizza un sistema integrato che coinvolge i muscoli del volto e della testa coinvolti nei comportamenti di impegno sociale, e la componente parasimpatica che calma il cuore e attenua l’attività simpatica (Austin et al., 2007).

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