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L’evidenza di una tale attitudine si manifestò chiaramente quando Femen prese di mira il dibattito sul velo islamico, indicato come il più evidente simbolo dell’oppressione patriarcale derivata da dogmi religiosi.

Le donne [in Medio Oriente] sono vittime di costanti oppressioni, e nessun costume che venga considerato come una forma di pudore le può proteggere.

Hijāb o burqaʿ contribuiscono all’iper-sessualizzazione del corpo femminile.

Sotto il burqa, c’è una vagina gigante che cammina. Il loro intero corpo è ridotto a quest’unico organo. Gli aggressori non vedono il velo come lo scrigno che contiene la perla, ma come un grosso pacco regalo, all’interno del quale c’è una donna nuda, che viene loro offerta306.

Il dibattito sulla retorica del velo si intensificò nei Paesi arabi a seguito della rivoluzione iraniana del 1979307; il tema fu affrontato da più punti di vista richiedenti diversi approfondimenti, pertanto appare evidente come l’attacco unificato e generalizzato di Femen non faccia altro che «ridurre le diverse situazioni e attitudini di milioni di donne musulmane a un singolo pezzo di vestiario»308. Per le donne musulmane, il velo può indicare un obbligo e un adeguamento passivo, ma può anche essere una scelta libera, per affermare il diritto sul proprio corpo, che viene sottratto allo sguardo consumistico maschile309; l’uso del velo e della sessualità a esso collegata assume, quindi, significati diversi, che ne arricchiscono le molteplici interpretazioni310.

305 Theresa O’Keefe, op. cit., p. 14.

306 Inna Shevchenko, Pauline Hillier, op. cit., p. 56.

307 Lama Abu Odeh, Post-Colonial Feminism and the Veil: Thinking the Difference, in “Feminist Review”,

n. 43, 1993, p. 26.

308 Lila Abu-Lughod, Do Muslim Women Really Need Saving? Anthropological Reflections on Cultural

Relativism and Its Others, in “American Anthropologist”, vol. 104, n. 3, 2002, p. 786.

309 Lama Abu Odeh, op. cit., pp. 29-30.

310 Non si intende qui presentare un quadro esaustivo della questione che riguarda il velo islamico. Si veda,

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Non riconoscendo, però, i differenti significati che niqāb, hijāb o altre tipologie di capi islamici hanno assunto nel corso della storia, le Femen separano la donna dal contesto culturale in cui si trova311.

Deena Mohamed312 diede vita a un fumetto, che si rivolgeva proprio al movimento ucraino, allo scopo di ribaltare il significato del grido di Femen, e rimarcare la decisione della donna musulmana di non essere salvata attraverso modelli occidentali. Il personaggio di Qahera rappresenta una donna, che attraverso il hijāb riesce a coniugare religiosità e femminilità; non si considera in pericolo, ma ritiene di poter contribuire lei stessa a migliorare la società in cui vive, esprimendo i valori in cui crede. La Mohamed denuncia così l’ingerenza non richiesta delle Femen e la loro scarsa conoscenza del mondo islamico.

Femen sembra causare quella violenza che Gayatri C. Spivak ha definito «epistemica», perché cerca di glorificare la propria missione sociale, facendo in modo che il soggetto coloniale si auto-immoli e accetti la volontà imposta dal colonizzatore313. Si tratta di un tipo di presunzione che rimanda al dibattito in seno al relativismo culturale e alla questione secondo cui conoscere la cultura di una regione, i credi religiosi e il tipo di trattamento ivi riservato alle donne, appaia più urgente dell’esplorare la storia dello sviluppo dei regimi oppressivi in quello stesso territorio314. D’altra parte, secondo Inna Shevchenko, per giustificare le azioni di Femen è sufficiente affermare che nel corso della storia dell’umanità tutti gli schiavi hanno negato di essere schiavi; il movimento si sente, perciò, autorizzato ad agire: «Dicono di essere contro Femen, noi rispondiamo che siamo qui per loro. Scrivono sui loro cartelli di non aver bisogno di essere liberate, ma nei loro occhi è scritto “aiutami”»315.

Il grido «Rather naked than in a niqab!» [«Nude piuttosto che con il niqāb!»] era stato presentato già nel marzo 2012, quando alcune attiviste ucraine, ancor prima dell’apertura della sede parigina, colsero l’invito di una militante francese di origini algerine, Safia Lebdi, e affrontarono la tematica dei veli e dei vestiti islamici con un’azione di protesta

311 Christina L. Ivey, Combating Epistemic Violence With Islamic Feminism: Qahera vs. FEMEN, in

“Women’s Studies in Communication”, vol. 38, n. 4, 2015, p. 386. DOI: 10.1080/07491409.2015.1088292.

312 Qahera, Part 2: on Femen, sul sito: ˂ http://qaherathesuperhero.com/post/61173083361 ˃. Consultato il

29 gennaio 2017.

313 Cit. in Christina L. Ivey, op. cit., p. 384. 314 Lila Abu-Lughod, op. cit., p. 784.

315 Ellne Gordts, Muslim Women Against FEMEN, “The World Post”, 04 maggio 2013. Ultima

107 nell’area del Trocadéro, a Parigi. Safia Lebdi fu colei che aiutò la costituzione della sede francese del movimento nel teatro Lavoir Moderne Parisien, perché convinta che le modalità di azione di Femen rappresentino un’importante affermazione dei diritti della donna, in contrasto all’immagine della «donna da copertina», sempre più sfruttata negli ultimi anni316.

Secondo la Lebdi, la denuncia della commistione fra religione e mercificazione femminile può ottenere maggiore risalto se parte dal corpo.

Non dimentichiamo che la nudità è un’arma assoluta contro l’oscurantismo e contro la violenza. Potremmo dire che l’utilizzo della nudità aspira all’uguaglianza fra gli uomini e le donne perché ci interroga su ciò che siamo. Bianchi, neri, grassi, magri, belli, brutti, con il seno o senza. Siamo tutti differenti, ma anche tutti uguali - è il principio dell’universalità, e non vedevo l’ora di riporre questa questione al centro del dibattito pubblico, in Francia e altrove. Di certo il pudore esiste, ma spesso è guidato dalla morale e non dalla ragione. Credo questo: ci sarà una nuova generazione, che si reclamerà “Femen”, e non “Femminista” 317.

Le denunce di Femen nelle manifestazioni contro il mondo islamico avrebbero, perciò, permesso di dare risalto alla sottomissione cui tutte le donne sono costrette, indipendentemente dal credo professato, e avrebbero stimolato un nuovo tipo di rivendicazione, che passa attraverso il topless. Safia Lebdi afferma, infatti: «Mettersi a nudo è ciò che possiamo fare di più forte. […] È un modo per fare un gran colpo, per andare contro i limiti che ci impongono»318.

Femen ha avuto il merito di ridonare valore al seno femminile quale strumento di protesta, ma bisogna ricordare che il movimento non detiene il monopolio sul significato che esso può assumere; secondo la Lebdi, anche allontanandosi dall’estetica femminile delle prime proteste e dalla loro radicalità, sarebbe possibile ricreare, attraverso la tattica del topless, la medesima destabilizzazione di cui le fondatrici ucraine furono autrici.

L’unione di attivismo, arte e politica appare imprescindibile, ma la sua efficacia viene meno in Femen a causa della guida militaresca di Inna Shevchenko che sembra ostacolare qualsiasi cambiamento di direzione. Pur collaborando sporadicamente alle azioni del movimento, la Lebdi decise, infatti, di dare vita a un nuovo progetto, Les Insoumis-es.

316 Intervista a Safia Lebdi (Les Insoumis-es), 04 febbraio 2017, cfr. Appendice B. 317 Ivi.

318 Nathalie Moga, Safia Lebdi, le renouveau féministe?, “Libération”, 3 febbraio 2013. Ultima

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Secondo l’attivista, per colpire in maniera efficace il sistema patriarcale, è necessario evitare che la propria comunicazione sia manipolata e deformata da enti esterni; grazie all’auto-produzione di immagini e video di divulgazione, tra cui un film-documentario nel 2013, intitolato proprio Les Insoumis-es, l’associazione starebbe combattendo in maniera efficace il sistema patriarcale. Per la Lebdi, la notorietà a livello internazionale e la partecipazione a convegni e pubbliche discussioni non sono sufficienti, se per esprimere il proprio pensiero si rimane invischiati nelle logiche di marketing e comunicazione contro le quali si afferma di voler combattere.

Les Insoumis-es rappresenterebbe, quindi, il nuovo volto di Femen, non solo perché numerose sono le ex attiviste che ora collaborano nel progetto319, ma soprattutto perché l’associazione ricerca un’analisi strutturale delle falle del patriarcato ed è aperta a collaborazioni esterne ai fini di individuare soluzioni concrete. Inna Shevchenko, invece, è solita ripetere: «Femen esiste per dare risalto ai problemi, non per risolverli. Lasciamo questo compito alle altre associazioni e al potere politico»320. Secondo la leader, le attiviste devono interiorizzare il sentimento di militanza, essere delle guerriere, o meglio delle «Amazzoni» come amano spesso definirsi, e dimostrare la loro insoddisfazione per la società attuale. Si traduce in questi termini la volontà di contribuire allo sviluppo della coscienza politica in tutti, uomini e donne, al fine di far nascere un impegno politico, che a loro parere, si tramuterà in azione diretta.