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Nell'autunno 1920 Fiume divenne il centro di un piano insurrezionale, secondo il quale, attraverso una marcia su Roma, si sarebbe tentato di rovesciare il governo di Giolitti e si sarebbe imposto un nuovo regime in Italia. Personalità come Alfredo Rocco, Francesco Coppola, Enrico Corradini si recarono più volte a Fiume per incontrare d’Annunzio al fine di pianificare la marcia. Giolitti si mosse abilmente, portando dalla sua parte Mussolini, che fece di conseguenza mancare il suo appoggio al poeta e si assicurò la fedeltà dell’esercito. Poche settimane dopo Italia e Jugoslavia firmarono il Trattato di Rapallo, nel quale si impegnarono a riconoscere l’indipendenza di Fiume. D’Annunzio però rifiutò il trattato. Seguirono alcuni giorni concitati, ma nel momento in cui il Trattato di Rapallo fu ufficialmente accettato dal Regno d’Italia, il Generale Caviglia lanciò l’ultimatum a d’Annunzio.

Un primo attacco dell’esercito italiano fu sferrato la vigilia di Natale. Dopo la pausa di un giorno, il 26 dicembre la nave da guerra Andrea Doria incominciò a bombardare la città, il 27 dicembre d’Annunzio accettò le condizioni imposte dal governo italiano e rassegnò le dimissioni. Da quel momento cessò di esistere lo Stato libero di Fiume.

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Il Pugnale votivo: d’Annunzio uomo di lettere o leader politico?

Narra la storia che nel gennaio 1920 le donne di Fiume regalarono al poeta un pugnale decorato in oro e argento come simbolo della ribellione e della resistenza della città in risposta al governo di Nitti. Durante la cerimonia della consegna del pugnale d’Annunzio suggellò il momento con una frase rimasta celebre «ferrum est quod amat». Ma l’antefatto storico permette di riflettere su che valore letterario ebbe «il pugnale votivo» per d’Annunzio. Il vate ambiva a pubblicare certamente opere che erano richieste per la loro popolarità, sia ad altre che avrebbero potuto ribadire, se non rilanciare, il suo ruolo di guida politica. Tra queste ultime rientra sicuramente Il pugnale

votivo, una raccolta di discorsi e proclami politici del periodo fiumano che videro la luce

tra il gennaio ed il giugno 1920, che sarebbero dovuti essere pubblicati nel 1931. Come ha espresso Cristina Benussi, analizzando questi scritti, si delinea una situazione complicata, nella quale giocavano ostacoli economici, politici ai quali si aggiungevano anche opposizioni di natura morale, soprattutto da parte del Vaticano, che attraverso la Congregazione del Sant’uffizio, aveva messo all’indice tutte le opere d’annunziane, proprio quando il poeta voleva, attraverso la sigla grafica del Sodalizio dell’Oleandro, ristampare l’Opera Omnia per un pubblico più amplio. Si scoprono così quella fitta rete di relazioni tra la parte letteraria e quella politica del vate, tra la retorica applicata alla parola scritta e le teorie rielaborate per dare maggiore enfasi alla parola pronunciata da un oratore ad una folla ascoltante. Attraverso questa visione, Le vergini delle rocce e Il

fuoco svelano aspetti inediti, che aiutano a capire come mai d’Annunzio abbia avuto un

così grande successo anche presso lettori più ingenui. Le vicende del Pugnale votivo danno luogo alla trama di contratti, lettere e promesse editoriali, tra vita privata e pubblica che avvalorano uno scambio inscindibile tra azione politica e letteratura, che delinea con più esattezza la complessa personalità del poeta. Ed infatti la cura della

73 scrittura politica non era inferiore rispetto a quella messa nella scrittura letteraria. Questi discorsi sono strutturati con un’attenzione compositiva e formale che si riscontra nei testi poetici.143 Si riporta uno stralcio del discorso pronunciato da d'Annunzio in occasione della cerimonia della consegna del pugnale da parte delle donne di Fiume:

Nella Chiesa di San Vito

Sorelle in Cristo, fratelli nel Dio vivo, già ricevetti da voi il lauro non piegato, il fiore non legato, il vessillo tessuto con le fibre del cuore dolente e le lacrime senza parole, e il sorriso illuminato come sono illuminati gli occhi prima di piangere; tutti i doni, tutti i segni, ma non quello che consacra il difensore e l'assaltatore: non questo. Nella Chiesa dove giurava il Capitano ed era dalla campana convocato il consiglio del popolo, io da voi ricevo il sacramento del ferro, il sacramento che conferma il patto di sangue. E lo ricevo per grazia del Signore e della vostra virtù, lo ricevo quando la troppo lunga attesa è riscossa dall'allarme e quando l'allarme ci trova tutti in piedi e pronti. […] Una donna come voi pietosa e come voi di grande animo, Sorelle, sciolse il corpo legato al tronco, lo avvolse nel lino e lo trafugò. Voglio pensare che col ferro della prima e dell'ultima, Sorelle, è battuta la lama di questo pugnale votivo: col filo del primo dolore e con la punta dell'ultimo fervore.144

Colpisce profondamente il lettore (e ne sarà stata impressionata la folla che ha ascoltato il discorso) la dimensione di sacralità che pervade tutto il testo. Si nota una particolare attenzione del poeta alla costruzione del testo, che risulta ridondante e permeato di retorica. Questa cura minuziosa nella costruzione sintattica è quella che d'Annunzio era solito dedicare alla scrittura di testi letterari che avrebbe voluto divulgare e testimonia quanto importante fosse per lui redigere testi di natura politica che potessero invadere l'animo di tutte le persone e consacrarlo un vero e proprio leader.

143 GIANCARLO LANCELLOTTI, Il pugnale votivo di Gabriele d’Annunzio, Hammerle Editori in Trieste,

2002, p. 9

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CAPITOLO 3

3 La guerra dell’umile Ungaretti.

«I vivi saranno con noi, dopo la guerra; chi rimarrà di noi, che con lei, con Soffici, con Palazzeschi, con Jahier e con De Robertis, con Serra e in particolare con Prezzolini hanno preparato questa miglior aria nostra, in Italia»145

Cenni biografici.

Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio del 1888 da una famiglia originaria del piccolo paese di San Concordio, nella provincia di Lucca146. Fino dalla giovinezza la patria lontana, identificata nell’Italia, è un luogo sognato, che prende forma nell’immaginazione del giovane ragazzo147. Alessandria era una metropoli lontana dall’Europa, posizionata in una zona di confine con il Mediterraneo, che infonderà al giovane Ungaretti un senso di estraneità e di lontananza che lo accompagnerà per tutta la vita e che condividerà con l’amico Moammed Sceab, morto suicida148. Alessandria era famosa anche per la presenza di un immenso porto. Nasce così, anche da questa immagine che si suggella nell’immaginario di Ungaretti, il mito del Porto: il luogo dell’avventura, di partenza, ma anche di arrivo, dopo un lungo e

145GIUSEPPE UNGARETTI, Lettere a Giovanni Papini, 1914-1918, a cura di Maria Antonietta Terzoli,

introduzione di Leone Piccioni, Mondadori, Milano, 1988, p. 174.

146 Il padre era un operaio impiegato nello scavo del Canale di Suez, che abbandonò presto la moglie ed

il figlio a causa di una morte prematura per idropisia. Maria Lunardini, donna forte e decisa, riuscì a mandare avanti la sua famiglia grazie alla gestione di un piccolo forno e riuscì a far proseguire gli studi al giovane Ungaretti. Cfr. con ANDREA CORTELLESSA, Ungaretti, Torino, Einaudi, 2000, p. 7 e ss.

147 La patria lontana prendeva spesso forma nella mente del giovane Ungaretti grazie alle storie ed ai

racconti tramandati dalla madre, definita una “Statua davanti all’Eterno” nella lirica la Madre, nel Sentimento del tempo: “Era dalla mattina alla sera presa dai suoi affari di casa [..] e naturalmente non si abbandonava che di rado alla tenerezza”. Alessandria d’Egitto era una città cosmopolita, che racchiudeva in sé molte culture e costumi. Cfr. ANDREA CORTELLESSA, Ungaretti, cit., p. 10

148 A Moamed dedica la lirica In memoria, contenuta nella raccolta l’Allegria. La stanza di albergo era

condivisa con Ungaretti, situata in rue des Carmes. La crisi identitaria non si risolve nemmeno quando il poeta decide che è arrivato il momento di lasciare l’Egitto, per andare in quella che era considerata al tempo la patria della letteratura, il luogo in cui ogni uomo d’intelletto avrebbe desiderato di vivere per poter allargare i propri orizzonti culturali. Cfr. ANDREA CORTELLESSA, Ungaretti, cit., p. 10-14.

75 faticoso viaggio: dirà «il porto149 è stato per me il miraggio dell’Italia, di quel luogo imprecisato e perdutamente amato»150. La lingua materna non è rappresentata dall’Egiziano, bensì dall’italiano e questo vincolo lessicale resterà l’unico cordone ombelicale che legherà Ungaretti alla patria mai conosciuta fino a quel momento. Nelle Note a Vita d’un uomo è possibile leggere «Fino a quell’epoca non sapevo dell’Italia se non ciò che ne leggevo nei libri o che ne avevo imparato a casa o in collegio»151. Il sentimento struggente di ritorno a un qualcosa di indefinito, ma che rappresenta l’orizzonte verso il quale Ungaretti tende a proiettarsi, resterà un’immagine alla quale sarà legato per la vita. La ricerca spasmodica di appartenenza ad una patria, o più semplicemente, la ricerca della propria identità, della propria dimensione, non potrà che attraversare sentieri oscuri, per poi approdare ogni volta ad un nòstos, che però non potrà che rivelarsi sepolto, all’interno della sua anima. Nel 1912 decide di partire per Parigi ed invece che seguire la volontà della madre che l’avrebbe voluto avvocato, decide di frequentare le lezioni del filosofo Henri Bergson alla Sorbona, presso il College de France152. A Parigi strinse un’intensa amicizia con Guillaume Apollinare153. Conobbe anche Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Aldo Palazzeschi, che lo invitarono a

149 Un porto, emblema di una città che assomiglia sempre di più ad una Babele, titolo che rappresenta una

lirica del 1915, contenuta nell’Allegria e che nel 1919 suggella un’intera sezione del libro.

150 ANDREA CORTELLESSA, Ungaretti, cit., p. 10.

151 Si definirà a Papini, in una lettera risalente al 1918, un italiano di nostalgia: «amo questa terra

vezzosa[..], questa furiosa e mite Italia, [..]. Sono un italiano, e tanto un italiano di popolo, mio Papini. Sono nato dal popolo, da contadini che migliaia d’anni in un fiato di terra in San Concordio di Lucchesia [..]. Sono un italiano di nostalgia». Cfr. ANDREA CORTELLESSA, Ungaretti, cit., p. 14.

152 Con lui condividerà l’immagine del grande fiume della vita, la cui corrente attraversa le generazioni

umane e fluisce nei singoli individui storici. Questa metafora ritornerà in una celebre lirica del Porto

Sepolto I fiumi, ma questa idea sarà riproposta ogni qual volta Ungaretti deciderà di parlare della funzione del linguaggio nell’identità di un popolo.

153 Apollinaire era, come lui, un uomo di nostalgia, più precisamente un francese di nostalgia. Nato

dall’unione di una nobildonna polacca e da un ex ufficiale borbonico con sangue greco nelle vene, decise di stabilirsi a Parigi nel 1902. Divenne un punto di riferimento per i letterati del tempo con le raccolte

Alcools (1913) e Calligrammes (1918). Accolse con entusiasmo l’avanguardia cubista, si ricorda il già

citato Les peintres cubistes del 1913 e l’arte futurista. La poesia di Apollinare fece da scuola alla poetica ungarettiana «Apollinare pubblica in questi giorni un libro originalissimo senza punteggiatura “Alcool”» afferma in una sua lettera a Papini. Cfr. ANDREA CORTELLESSA, Ungaretti, cit., p. 14-16.

76 collaborare per la rivista «Lacerba»; i pittori Pablo Picasso, Giorgio De Chirico, Amedeo Modigliani e Georges Braque. Allo scoppio della Grande Guerra nel 1914 Ungaretti credette fermamente nella campagna interventista e scelse di arruolarsi come volontario presso il 19° reggimento di fanteria della Brigata Brescia, quando il 24 maggio del 1915 l’Italia entrò in guerra. Al termine del conflitto Ungaretti decise di rimanere a Parigi; prima come corrispondente del «Popolo d’Italia», allora quotidiano diretto da Benito Mussolini, e in seguito come impiegato all’ufficio stampa dell’ambasciata italiana. Negli anni Venti, precisamente nel 1925, decise di aderire al Manifesto degli intellettuali fascisti e si trasferì con la famiglia a Marino, in provincia di Roma. Lavorò per molte riviste italiane e francesi fino a quando nel 1936, su invito di Pen Club decise di accettare l’offerta di una cattedra di letteratura italiana a San Paolo del Brasile, dove rimarrà fino al 1942 per sfuggire al regime fascista, di cui era diventato un ferreo oppositore. Nel 1942 Ungaretti decise di tornare in Italia, ma fu vittima dell’epurazione fascista, fino a quando riuscì ad ottenere la cattedra all’Università La Sapienza di Roma, fino al 1985. Dopo una relazione sentimentale ed intellettuale con l’italo-brasiliana Bruna Bianco, di cui rimane tutt’oggi una cospicua corrispondenza, si spense a Roma nel 1970.

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Poetica di Ungaretti: dall’Allegria dei naufragi al Sentimento del tempo.

La poesia di Ungaretti è generata da due spinte opposte, ma compresenti nella sua anima: un desiderio di avventura e un senso di spaesamento, che si traduce da un’adesione alle avanguardie del Novecento ad una nostalgia perenne verso tutto quel sistema di valori ancorati al passato. Alle fondamenta della sua formazione culturale è possibile trovare l’insegnamento del simbolismo europeo, soprattutto quello di matrice francese, ma l’esperienza traumatica della guerra arricchisce il suo simbolismo con una componente fortemente autobiografica. Per Ungaretti la poesia diventa la testimonianza assoluta dell’uomo, capace di recare le tracce di un’esistenza concreta, che sia immagine della vita d’un uomo. Le poesie assumono una dimensione sacrale nelle quali l’io lirico si fa portavoce del popolo, trovando per sé e per l’umanità un linguaggio adatto, scarnificato ed essenziale.

Tutta l’esperienza di Ungaretti è dominata dalla poetica dell’analogia154, che si distingue in due momenti precisi: il primo che trova espressione nella raccolta l’Allegria dei naufragi155, circoscritto a primi dieci anni del Novecento, che è caratterizzato da un’assoluta concentrazione linguistica, riducendo al minimo le parole e spezzando la sintassi del verso. Si trovano in questa fase componimenti brevissimi, fino a giungere

154 GIULIO FERRONI, Profilo storico della letteratura italiana, Volume II, Einaudi scuola, Torino, 2011,

pp. 130 e ss.

155La raccolta l’Allegria costituisce, come accennato in precedenza, il primo momento della poesia di Ungaretti, segnata nella redazione finale con le date 1914-1919 e si articola in cinque parti: Ultime, Il

Porto Sepolto, Naufragi, Girovago e Prime. Le prime poesie appaiono su «Lacerba» nel 1915, mentre le

successive nascono a seguito dell’esperienza sul Carso e racchiuse successivamente nella breve raccolta del Porto Sepolto, uscita per la prima volta ad Udine nel dicembre del 1916; a queste si aggiungo in seguito le poesie pensate nel post guerra, unite insieme alle precedenti nel volume l’Allegria dei naufragi, pubblicata a Parigi nel 1921. Tutte queste liriche poi furono riunite nel 1923 sotto la raccolta Il Porto

sepolto e nel 1931 con il titolo definitivo l’Allegria.

Il titolo Allegria, più esplicito nella forma l’Allegria dei naufragi, allude alla vitalità paradossale che si afferma in mezzo alla presenza costante della morte durante la guerra, alla forza “allegra”, vitale, della sopravvivenza. Questa poesia raggiunge i momenti di maggior intensità quando registra lo svuotamento dell’io, la sua riduzione e assimilazione ai paesaggi bellici raffigurati e, grazie all’analogia, l’io è posto sullo stesso piano di quel mondo segnato da una catastrofe. La parola risulta scarnificata all’essenziale, come se fosse frantumata. Cfr. GIULIO FERRONI, Profilo storico della letteratura italiana, cit., p. 132.

78 alla celebre lirica Mattina, composta da soli due versi: «M’illumino / d’immenso». Un secondo momento, che si attua negli anni Venti del Novecento, raccolto nel Sentimento del tempo156, è caratterizzato da un’espressione maggiormente amplia e distesa, recuperando forme eleganti e oscure della tradizione e tornando in parte alla metrica tradizionale, con modelli di riferimento quali Leopardi e Petrarca.

Ungaretti e la guerra: una prospettiva umile.

Si tenta di analizzare in questo paragrafo i sentimenti del soldato Ungaretti durante gli anni della guerra, che vanno dal 1915 fino al 1918, attraverso la corrispondenza che vede come destinatari Papini, Marone, Soffici, Puccini e Prezzolini. In una recente ed assai documentata Introduzione alle Lettere di Ungaretti a Gherardo Marone, la studiosa Bernardini Napoletano ha giustamente sottolineato come queste lettere rivestano un valore specifico per la ricostruzione della filosofia del poeta negli anni di guerra: «La ricerca espressiva affidata alle lettere, con redazioni successive delle poesie, rinvia ad un progetto che ha assunto forma nel luglio del 1916», ovvero nel tempo della pubblicazione del Porto Sepolto, una pubblicazione che si attua «dopo un’attenta opera di revisione e di ordinamento, come Ungaretti dichiara in varie lettere a Papini dei primi di dicembre, sfatando la leggenda, accreditata dal poeta stesso, secondo cui l’edizione de Porto Sepolto sia tutta colpa di Ettore Serra. La conclusione dell’analisi della Bernardini è significativa: lì dove rileva che un aspetto significativo del laboratorio

156 Già a partire dai primi componimenti raccolti nel Allegria e corrispondenti alla sezione Ultime di

questa, Ungaretti si svela al lettore attraverso poesie più distese e composte. Sembra che voglia approcciarsi ad un “ritorno all’ordine”, dopo l’esperienza della parola frantumata, ritornando a un verso tradizionale come l’endecasillabo e all’uso della punteggiatura. La sua nuova poetica trova espressione nei testi che confluiscono nella raccolta il Sentimento del tempo, apparsa nel 1933 e nella forma ampliata del 1936. La sua parola «mira ora ad approfondire lontananze, a muoversi verso verità e profondità assenti alla percezione della vita comune»156. Sono due le esperienze alle quali essa si riferisce: il fascino del

Barocco a Roma, nella quale il poeta sperimenta l’orrore del vuoto interiore, e in un secondo momento il ritorno all’esperienza religiosa, legata alla sua nuova conversione dopo gli anni laici della guerra. Cfr. GIULIO FERRONI, Profilo storico della letteratura italiana, cit., p. 135.

79 ungarettiano al fronte è costituito dallo «scambio costante, a doppio senso, tra scrittura poetica e scrittura epistolare»: la quale «ha sempre per Ungaretti dignità letteraria e ricopre una funzione non marginale nel processo elaborativo dei testi poetici, in particolare di questo periodo, in quanto spesso ne accoglie o anticipa immagini e nuclei semantici»157. Senonché alcune locuzioni o immagini usate da Ungaretti derivano dal linguaggio parlato delle trincee. Lessico che si ritrova anche nel Porto Sepolto. Un esempio è addotto da uno dei componimenti più celebri della raccolta ungarettiana, Immagini di guerra: nella scrittura di Ungaretti agisce non solo il linguaggio dall’alto, ovvero derivante da una secolare tradizione letteraria, bensì quello del basso, che traduce in forme originali il parlato e l’immaginario del mondo militare158. Recita il componimento del Porto Sepolto:

Assisto la notte violentata

Il verbo rinvia a una esperienza di Ungaretti nell’ottobre del 1915, come «soldato aggregato all’ospedale militare» di Biella.

Come è stato detto dallo studioso Carlo Ossola dall’incipit si evince un lessico di corsia, che prosegue così:

L’aria è crivellata Come una trina Dalle schioppettate Degli uomini Rattrappiti

Nelle trincee

Come lumache nel loro guscio

La studiosa Barbara Bracco ha ipotizzato che rattrappiti come gusci di lumache denota l’impossibilità di dormire su giacigli fatti di paglia, senza alcun riparo dalla pioggia e dal freddo, il sentirsi vittime della violenza della guerra e della natura, come se fossero

157 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, Introduzione a GIUSEPPE UNGARETTI, Da una lastra di

deserto. Lettere dal fronte a Gherardo Marone, Mondadori, Milano, 2015, p. XIV.

158 PASQUALE GUARAGNELLA, Scritture dal fronte. Giuseppe Ungaretti e l’esperienza della Grande

Guerra, in S. MAGHERINI, In trincea. Atti del Convegno di Studi. Firenze 22-23-24 ottobre 2015, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2017, pp. 160-162.

80 imprigionati in un microcosmo di orrore, di fatica, di morte, nel quale i soldati, provenienti dal mondo agreste, si paragonavano spesso a bestie o a insetti159.

Un ulteriore esempio, che conduce nel cuore dell’esperienza della trincea, mostra come l’alba e la notte siano i momenti privilegiati della giornata e siano inseriti nel sistema simbolico basato su una serie di opposizioni: l’alba riporta la luce e con essa la memoria; il buio è associato ad un momento di quiete, che spesso è accompagnata da un forte turbamento per il soldato che si trova a dover pensare in silenzio160.

159 La studiosa Bracco ha inoltre rilevato che Ungaretti propone qui un’immagine che deve in gran parte

alla sua forza non dell’estro creativo del grande poeta, ma all’esperienza del combattente che, come tanti,

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