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Un’altra importante reazione fu rappresentata dai vociani, un gruppo di intellettuali che ruotarono intorno al giornale «La Voce», fondato nel 1908 da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Entrambi provenivano da un'altra famosa rivista letteraria, il «Leonardo», edita da Vallecchi, di breve vita, che pubblicò precisamente dal 4 gennaio del 1903 fino all'agosto del 1907, per un totale di 25 fascicoli.41

L’obiettivo di Prezzolini, redattore della «Voce», fu quello di superare la rivista concorrente il «Marzocco» cercando di raggiungere un amplio pubblico, costituito anche da quei piccoli centri di campagna, nei quali si tentava di dare voce alla nascente borghesia intellettuale, per creare un'alternativa valida al gruppo politico di Giolitti. Il titolo «La Voce» fu scelto da Prezzolini e la testata fu progettata da Ardengo Soffici. In una prima fase di attività, che va dal 1908-1911, «La Voce» non fu solamente una rivista letteraria, ma si distinse per l'impegno degli scrittori nei confronti di temi contemporanei come il divorzio, la questione meridionale, il suffragio universale maschile, dichiarando che il letterato potesse essere nuovo solo se fosse stato capace di confrontarsi con il contesto politico e culturale di quegli anni: un uomo di cultura che si sarebbe posizionato all'opposto della figura dannunziana e che avrebbe rappresentato per i vociani i vizi dell'artista che dovevano essere contrastati. Anche dal punto di vista strettamente politico si dichiarò guerra alla corrente trasformista giolittiana che stava impoverendo sempre di più la vita degli italiani.

41Nel momento in cui Prezzolini e Papini decisero di fondare «La Voce» si dovettero confrontare con la

rivista «Marzocco», fondata da Adolfo ed Angelo Orvieto. Il titolo «Marzocco» fu scelto da Gabriele d'Annunzio e riprese il nome e lo stemma araldico dell'antico leone rampante in rame che costituiva uno dei simboli della Repubblica fiorentina.

27 Ma le differenze di opinioni all'interno della redazione emersero in occasione della campagna di Libia. Prezzolini sosteneva che entrare in guerra fosse «un dovere di disciplina nazionale sacrificare le personali vedute dinanzi all'interesse pubblico»42, questa posizione si sarebbe andata a scontrare con quella di un’altra figura, quella di Salvemini, che contrariato da ogni forma di nazionalismo, decise di abbandonare «La Voce» per fondare «l'Unità».

Dopo l'abbandono di Salvemini, la direzione passò nelle mani di Prezzolini, aprendo così lo scenario alla seconda fase della redazione del giornale, nella quale si annunciarono nuovi obiettivi e linee guida. Si intravide un forte ritorno alla purezza della letteratura, che ruppe quella sincronia che la legava alla vita reale, tipica della prima fase. Alla fine del 1914 la direzione passò a De Robertis, che la denominò «La voce bianca», facendola divenire un periodico a carattere esclusivamente letterario. Rifiutò ogni contestualizzazione storica, puntando sull'aspetto artistico del poeta, che si risolse in un metodo critico, incentrato sulla parola e sulla concezione di una lirica pura, fondata sulla poetica del frammento, che venne rappresentato, nei suoi esempi più celebri, dal canone dall'ermetismo. Sulle pagine della rivista appariranno in questi anni i primi versi di autori come, ad esempio, Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi, Dino Campana e Clemente Rebora.

42 Cfr. https://wsimag.com/it/cultura/4286-la-voce-la-rivoluzione-culturale-di-prezzolini-e-papini,

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La guerra della lingua.

Ogni studente, sui banchi di scuola, aveva studiato con diligenza Orazio, ed aveva imparato la lezione espressa nel verso significativo: Dulce et decorum est Pro patria mori. L’educazione classica in materia di guerra aveva insegnato, fin dal tempo dei romani, la virtù e l’estetica del sacrificio e quanto fosse dolce e decoroso morire per la patria. Inoltre era consentito operare nella memoria della cultura una serie di connessioni che garantivano che l’irrazionale storico della guerra si rendesse razionale. Questo processo è attestato anche dalla quantità di pagine prodotte dalla scrittura: ogni soldato, senza volto, volle trovare il modo di riconoscersi.43 Un grande studioso di letteratura di guerra, Fussel44, ha osservato che, grazie all’efficienza del servizio postale, i libri al fronte «erano comuni quanto i pacchetti di Fortnum and Mason’s, e il persistere senso di noia provocato da una situazione tattica statica, unitamentente all’impegno fi tutti di praticare l’idea del proprio affinamento culturale, fecero sì che in nessun’altra guerra siano stati letti così tanti libri»45. Ma libri di quale genere? Le opere maggiormente diffuse nella prima guerra mondiale erano quelle che offrivano un’oasi di ragionevolezza e di normalità nell’inferno della trincea, un luogo nel quale si poteva fruire di una breve tregua di visioni. Erano libri che erano sapienti nel trasformare una descrizione, un resoconto, puntuale e realistico in un’altra cosa che era la letteratura. Ma come si poneva la letteratura, mero artificio, nei confronti di una realtà che era impossibile anche solo da immaginare? Più specificatamente in che modo gli avvenimenti reali venivano deformati dall’uso di metafore, similitudini retoriche, prosa ritmica, assonanza, allitterazione, allusioni, strutture complesse che chiaramente implicavano una causalità?

43 Cfr. M.BIONDI, Tempi di Uccidere, cit., pp. 9-11.

44 P.FUSSEL, La Grande Guerra e la memoria moderna, introduzione all’edizione italiana di A. Gibelli,

trad. di G. Panzieri, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 1974-198.

29 È stato possibile arrivare ad un compromesso tra le aspettative dei lettori, per i quali la storia scritta dovrebbe essere significativa ed interessante, ed il fatto crudele della realtà? Solo un illetterato totale, chi fosse digiuno perfino dell’istinto a narrare, che è pur sempre un mettere in forma, avrebbe potuto dire la verità, o meglio la cosa circoscritta alla cosa, il fatto ridotto a se stesso, e nient’altro46. «In un’atmosfera in cui il linguaggio e la letteratura avevano consapevolmente un peso tanto considerevole, anche gli illetterati potevano talora cogliere trionfi letterari genuini, anche se più modesti». La guerra ha invitato anche i soldati più semplici all’invenzione linguistica, perché c’erano da battezzare stati e condizioni di vita mai viste. La lingua veniva istintivamente sollecitata, provocata a confrontarsi con l’evento e il risultato era uno stile emotivo, quello prevalente al fronte.

Ad esempio chiamavano i morti piedi freddi (frifiped), o il cimitero campo di riposo (the rest camp); salire sul parapetto divenne saltare sui sacchi (jumping the bags). Spesso i nomi di città belghe e francesi offrivano occasioni per trovate spiritose: Idiot Crossroads (incroci degli idioti), oppure Dead Dog Farm (fattoria del cane morto), Jerk House (casa della carne essiccata), Vampire Point (posto del vampiro), Shelltrap Barn (fienile della trappola sotto tiro)47.

Nulla è stato definito orribile. Questa parole non veniva mai utilizzata in pubblico. Le cose erano maledettamente sgradevoli, piuttosto disgustose, o nei casi peggiori detestabili48.

Ci si domandò se la lingua fosse stata idonea all’inedito esistenziale provocato dalla guerra, e l’interrogativo si poneva più che sul piano linguistico, su quello retorico: «Naturalmente, una delle difficoltà della guerra è il contrasto tra gli avvenimenti e il

46M.BIONDI, Tempi di Uccidere, cit., pp. 11-13.

47 P.FUSSEL, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit., p. 226-227. 48P.FUSSEL, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit., p. 227.

30 linguaggio di cui si dispone- o che si pensa sia adeguato- per descriverli. Più precisamente il contrasto era tra gli avvenimenti e la lingua comune di cui ci si era serviti per oltre un secolo per celebrare l’idea di progresso. Da un punto di vista logico non c’è alcun motivo per cui la lingua, propriamente la lingua inglese nel caso dell’indagine di Fussel, non sia in grado di rendere alla perfezione la realtà della trincea: è una lingua ricca di parole come sangue, agonia, crudeltà assassinio, svendita, sofferenza e inganno, e di locuzioni come essere accorciato dalle gambe, trovarsi con gli intestini in mano, urlare tutta la notte e altre. Altre considerazioni riguardavano il vasto uso di eufemismi, a cominciare da quelli più usati nella comunicazione ai famigliari tramite corrispondenza49. Altri eufemismi suggerivano l’uso della forma passiva impersonale, nel momento in cui i fanti dovevano riferire fatti la cui pesantezza morale era eccessiva da sopportare in prima persona.

Dunque la guerra non investe solo la sfera intima delle persone, ma si riversa anche nel linguaggio, che si rinnova e si inventa, per tentare di descrivere anche solo in minima parte l’orrore che caratterizzò la Grande Guerra.

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Forme e tempi di scrittura.

Il conflitto che dilagò in Europa nel 1914 e che coinvolse militarmente l’Italia a partire dall’anno successivo, generò «una memoria di massa»50, costituita da scritture popolari e letterarie. Gli scrittori abbandonarono le biblioteche per calarsi nella dimensione reale, passando dal ruolo di spettatori a quello di protagonisti. La guerra costituì il momento culminante di ogni singola esistenza per l’orrore e la bellezza che la contraddistinsero, per la drammaticità e per l’eccitazione che ne derivò: un momento in cui tutti i soldati furono messi di fronte all'inconsistenza della vita: una «corolla/di tenebre» 51 davanti alla morte, come suggerisce il poeta Ungaretti, che getta l’uomo di fronte al proprio destino incerto. Il variegato ventaglio di forme con le quali si realizza la letteratura di guerra fa emergere una pluralità di voci e di punti di vista. Ogni scrittore vive e racconta l'esperienza di guerra in modo diverso. Questo però non deve limitare chi voglia compiere un'analisi per trovare dei tratti comuni in questa mole di testi. Al netto di coloro che restarono fedeli alla guerra acclamata nei mesi che precedettero la vigilia dell'entrata nel conflitto, continuando ad esaltarne la bellezza nei mesi successivi, con riferimento in modo particolare alle esperienze letterarie di d'Annunzio e di Marinetti, i poeti raccontarono il vero volto della guerra, descrivendo le giornate interminabili nelle trincee, la quotidianità fatta di attese, di fango e di bombardamenti dei nemici, sottolineando come l'esperienza di trincea abbia inciso nei loro animi una profonda ferita e come resti incolmabile la distanza tra coloro che hanno vissuto la guerra in prima linea e coloro che, invece, rimasero a casa.

50F.TODERO, Scrivere di guerra: poeti e romanzieri, in Dizionario storico delle Prima Guerra Mondiale,

diretto da N.LABANCA, Laterza, Bari, 2014, p. 371.

51 GIUSEPPE UNGARETTI, I fiumi, a cura di M. Diacono, L. Rebey, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie,

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