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CAPITOLO 2- Il viaggio

2.3 Viaggio verso l’Europa

Dall’Iran passano in Turchia, il viaggio avviene a piedi, di notte, attraverso le montagne. Il tragitto non risulta facile per nessuno dei due, c’è da sperare di non farsi male, di non scivolare da un dirupo; c’è da pregare di non essere scoperti per non essere riportati indietro. Il più delle volte devono correre, tra un tratto e l’altro, dicono, devono essere veloci e scattanti. Devono cercare di non essere da intralcio per gli altri (viaggiavano sempre in gruppo).

A Safar è capitato di farsi male alla caviglia, è scivolato quando stava correndo giù per una discesa al confine con la Turchia, ormai era quasi arrivato ma il dolore non gli ha permesso in quel momento di continuare. Un dolore atroce, mi dice, dalle sue espressioni del viso, durante l’intervista, sembra stia

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rivivendo quell’episodio molto fastidioso. Quest’imprevisto lo costringe a fermarsi e a tornare nuovamente in Iran, dove non può andare in ospedale per farsi visitare in quanto irregolare afghano.

«Sono stato curato da una signora in casa, non so chi era, forse una che conosceva i trafficanti, perché in Iran non potevo andare in ospedale, ero afghano. Mi ha curato con uova, con un liquido che non so, mi tirava il piede mi faceva un male, ma un male….avevo uno straccio in bocca, non potevo urlare perché se ci scoprivano…Sono stato lì in casa sua per una settimana, sono stati gentili ad aiutarmi. Me lo ricorderò sempre. Sono riuscito a partire dopo una settimana. Camminavo con un bastone.»

Safar, 30 anni

Arrivati in Turchia, i due, sono stati per tempi differenti, uno una settimana, l’altro alcuni mesi. Lì si sono solamente nascosti non potevano fare altro, dovevano nascondersi dalla polizia e dalla gente comune. Aspettavano le “direttive” dei trafficanti per continuare verso la Grecia. Vivevano in attesa di

un’occasione per andarsene e ricominciare a vivere in modo più sereno e tranquillo da un’altra parte. «Praticamente la tua vita esauriva e tu dovevi ricominciare. (nel senso che partiva ancora e tutto era

ancora diverso in un altro paese) Io infatti al giorno d’oggi faccio fatica a ricominciare sempre da capo

nella vita. In Iran ero praticamente un altro Gholam, durante il viaggio ancora un altro Gholam. La mia vita ricominciava di nuovo a prendere il suo cammino senza mai avere un ritorno indietro.»

Gholam, 30 anni

Da queste parole si percepisce la difficoltà della persona ad essere in continuo movimento, si percepisce il bisogno di stabilità, di equilibrio e di un posto sicuro in cui non dover sempre ricominciare con la lingua, col lavoro, con la vita.

In più, quando il soggetto decide di “affidarsi” a un contrabbandiere per il viaggio, non è completamente indipendente, non può fare quello che vuole della sua vita, deve rispettare le regole e le imposizioni date, non può decidere per sé, dipende dalle scelte di altre persone. Questo può essere fonte di sconforto e tristezza per i migranti, i quali non si sentono più padroni della loro esistenza.

Proseguendo con le tappe del viaggio migratorio, entrambi gli intervistati, dopo il periodo di attesa in Turchia riescono ad arrivare in Grecia, chi anche dopo più tentativi, attraverso un gommone a remi, fornitogli dai loro contrabbandieri/trafficanti, riesce a raggiungere le mete principali delle isole greche più vicine alle coste turche. Dai racconti di entrambi emerge la paura del mare, percepito da loro quasi come un oceano. Mi dicono che, abitando in Afghanistan non sapevano nuotare, non avevano mai avuto l’occasione di vedere una quantità d’acqua simile, essendo il loro paese circondato da terre, per nessun

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lato è circondato dal mare; il massimo che conoscevano erano laghi, fiumi e torrenti. Mi raccontano che la paura era tanta, l’attraversata in gommone è avvenuta di notte, quindi il mare si mostrava loro ancora più minaccioso, oscuro e impenetrabile.

«Ho detto ai miei compagni: o moriamo o andiamo» Safar, 30 anni

«Preferivo annegare che essere rimandato in Afghanistan.» Gholam, 30 anni

Probabilmente non avevano tanta altra scelta, o rischiavano di attraversare il mare con il gommone fino in Grecia o se fossero rimasti in Turchia prima o poi sarebbero stati presi dalla polizia e incarcerati o chissà che altro.

Una volta in Grecia entrambi avevano l’obiettivo di proseguire ancora verso l’Italia.

Il più delle volte, mi raccontano, quando i migranti arrivano a quel punto del viaggio non hanno più soldi per pagare dei trafficanti/contrabbandieri che li portino attraverso vie prestabilite e più o meno infallibili, a quel punto devono cercare di trovare una soluzione autonomamente. Anche a loro è successo lo stesso. Dovevano aspettare un’occasione per giungere in Italia. Entrambi, infatti, partono da Patrasso sotto un camion merci diretto in Italia, il quale veniva trasportato su di una apposita nave.

Ambedue i ragazzi arrivano al nord dell’Italia, uno a Milano, l’altro a Venezia.

«Io durante questi tre giorni sotto il camion non avevo più né acqua, né da mangiare (…) durante il viaggio avevo fame, ma poi non ti viene neanche tanto perché hai l’angoscia di essere beccato e quindi riesci a resistere. La sete invece è stata tremenda. Ho provato a bere la mia pipi, ma era una cosa imbevibile. In più non potevi neanche fare troppo la pipi perché poi potevi essere scoperto dall’odore. Sono cose che il tuo corpo deve trattenere. Poi sono arrivato a Marghera.»

Gholam, 30 anni

L’angoscia di essere scoperti, l’ansia e la costante paura che riempie gli animi dei migranti in quanto irregolari è un qualcosa di persistente, una caratteristica del viaggio di molti. Una sensazione che traspare ancora oggi, dopo molti anni passati dal viaggio.