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CAPITOLO 1 – Prospettive di ricerca

1.1 Il viaggio di ricerca

Prima di passare alla parte della tesi in cui analizzo i contenuti emersi dalle interviste, risulta importante raccontare le modalità con cui si è arrivati a contattare i protagonisti della ricerca, le eventuali difficoltà riscontrate (i limiti della ricerca), i feedback (indiretti) degli intervistati rispetto l’approccio utilizzato e le loro caratteristiche generali.

I protagonisti delle interviste sono stati conosciuti tramite la mia personale cerchia di contatti presenti nelle zone di Treviso e Venezia. Ho deciso di concentrare la ricerca tra queste due province del Veneto perché risultavano le zone più vicine ai miei contatti, le zone da me più conosciute, in cui sapevo di poter trovare qualcuno “adatto” alla mia ricerca. Ho contattato varie figure presenti in campi diversi, in modo da non rischiare di raccogliere contenuti troppo omogenei tra loro. Mi sono rivolta a professionisti come educatori e assistenti sociali referenti in dei centri di accoglienza per uomini migranti, ho parlato con volontari e organizzatori di eventi culturali come “Arte Migrante Treviso” e con alcuni studenti frequentanti corsi serali di scuola superiore che hanno svolto il ruolo di intermediari tra me e i ragazzi afghani. Ho contattato in primis queste figure e discusso con loro rispetto al “profilo” (afghano, ragazzo di età tra i 20 e i 30 anni, richiedente asilo) che doveva possibilmente avere la persona da intervistare, ci siamo confrontati sulla reale possibilità di svolgere questi incontri tenendo conto dello stato di salute del soggetto, della sua disponibilità, dei suoi impegni, del livello di italiano parlato, dell’effettiva presenza in Italia o dell’assenza per via di spostamenti all’estero o in altre regioni. Non è stato facile e spesso il fattore lingua è risultato una barriera e un limite che ha precluso la possibilità di svolgere più interviste (ho svolto interviste solo in italiano), come anche l’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia fin dai mesi passati, non mi ha permesso fin da subito lo svolgimento delle interviste “faccia a faccia”. Anche gli impegni lavorativi dei ragazzi, spesso lavoro a turni o a chiamata, sono stati un ostacolo per l’effettiva possibilità di incontrarsi. Nonostante cercassi di agevolarli andando io nel quartiere di loro abitazione, a volte gli imprevisti di lavoro non hanno favorito l’effettiva avvenuta dell’incontro.

Col tempo sono riuscita ad individuare cinque ragazzi, li contattavo telefonicamente in modo da spiegare loro la natura del mio lavoro e in modo da accordarci sul giorno e il luogo dell'incontro. Tutti si sono mostrati fin da subito molto disponibili ed entusiasti rispetto alla proposta di un’intervista basata sul racconto della loro personale esperienza migratoria dall’Afghanistan all’Italia. C’era chi si mostrava più propenso a narrare con disinvoltura senza interrompersi, in maniera sciolta e lineare; chi invece faceva

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più fatica e aveva bisogno delle domande come guida per mettere in ordine il discorso e gli avvenimenti più importanti.

Prima di ogni intervista, precedentemente all’arrivo al luogo prefissato, cercavo di prepararmi adeguatamente ripassando la traccia delle domande, rivedendo i punti salienti che avevo bisogno emergessero ai fini della mia ricerca. Portavo sempre con me la traccia delle domande da fare, ma cercavo, nel corso delle interviste, di non darle troppa importanza, la tenevo in disparte come

promemoria, per non rischiare di irrigidire il mio interlocutore. Utilizzavo sempre un registratore, prima di avviarlo chiedevo il consenso del ragazzo. L’uso di questo strumento mi permetteva di condurre un’interazione naturale e mi dava la possibilità di dedicarmi interamente all’ascolto dei racconti del soggetto senza incorrere in distrazioni come l’annotazione di appunti e note che avrebbero potuto distrarlo e interromperlo. Rispetto al registratore però le reazioni sono state di tipo diverso, c’era chi si approcciava ad esso con naturalezza e disinteresse, spesso dimenticandosi della sua esistenza durante l’intervista; c’era chi invece si rilassava solo dopo che veniva spento e continuava allora ad aggiungere altri contenuti in modo più disinvolto e sereno rispetto a prima.

Nell’affrontare le prime interviste risultavo, forse, agitata e in ansia, temevo di invadere lo spazio intimo della persona con le mie domande. A volte mi capitava (cosa non consigliata da manuale), di riempire i silenzi del mio interlocutore con altre domande. Ho cercato però di eliminare col tempo e con il

susseguirsi degli incontri quest’abitudine. Ho capito quanto sia importante aspettare e rispettare i tempi dell’altro, non avere fretta di fare domande per coprire imbarazzi o silenzi (La Mendola 2009), in quanto nei momenti di silenzio si possono riscontrare vari significati: può essere che il soggetto non sappia cosa dire, può essere invece un momento per riflettere su ciò che c’è da dire, o un attimo di pausa dalla narrazione, oppure può essere che la persona non abbia capito la domanda.

I nuclei tematici principali che sono stati affrontati nelle interviste e dai quali sono emerse narrazioni più o meno ricche di riflessioni e aneddoti riguardano: il viaggio migratorio (l'anno di partenza

dall’Afghanistan e d'arrivo in Italia, le tappe, i paesi attraversati, le motivazioni che li hanno spinti a partire, il momento dell’arrivo in Italia e l’iter per la regolarizzazione dei documenti), l’eventuale ritorno in Afghanistan (motivazioni e racconti collegati alla situazione sociale, politica ed economica dell’ Afghanistan), la famiglia d’origine (rapporto con i genitori e con i fratelli, tradizioni, religione), la vita ora in Italia (lavoro, tempo libero, vita quotidiana, formazione scolastica e professionale, vita

relazionale). Questi sono i temi che sono stati affrontati, essi hanno preso un taglio diverso a seconda dell’interlocutore e dell’importanza che dava ai racconti e agli avvenimenti espressi.

I ragazzi che ho intervistato hanno un’età compresa tra i 20 e i 30 anni (nessuno sa bene la propria data di nascita, non sanno bene i loro anni, lo dicono approssimativamente, ma non sono sicuri e non se ne preoccupano molto di questa cosa), provengono dalle zone del nord-est dell’Afghanistan, in particolare dalle città di Baghlan, Parwan, Kabul e Ghazni. Sono tutti i figli maggiori all’interno delle loro famiglie

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rispetto agli altri fratelli. Vengono da famiglie di ceto medio-basso, solo uno racconta di avere una famiglia benestante, il padre era un ex commerciante di prodotti dall’India. Gli altri provengono da famiglie medio-povere con madre casalinga e padre il più delle volte contadino o pastore. Per quanto riguarda l’istruzione hanno vissuti variegati: due su cinque avevano studiato fino alle superiori in

Afghanistan ma senza conseguire il diploma, gli altri non hanno fatto più di uno o due anni di scuola, ma principalmente quella coranica (di studio del corano, non statale), tutti, però, chi più e chi meno, hanno continuato con gli studi in Italia. Hanno conseguito la licenza media qui, in seguito al conseguimento del corso di lingua L2, c’è chi poi ha continuato con i corsi serali per le superiori e ha terminato e chi invece per motivi di lavoro ha lasciato, chi sta finendo e chi (uno) ha conseguito nel corso degli anni una laurea triennale e una magistrale. Per la maggioranza svolgono in Italia lavori manuali, solo uno su 5 fa il mediatore linguistico culturale e lo scrittore, gli altri sono operai semplici, tecnici, manutentori o carpentieri che cambiano spesso lavoro, in base anche alle esigenze del mercato.

Gli intervistati erano entusiasti nel raccontare le loro esperienze e si mostravano allo stesso tempo consapevoli della delicatezza delle tematiche affrontate attraverso i loro racconti. Credo che tramite quest’esperienza di condivisione con me dei loro vissuti, abbiano avuto un’occasione per rielaborare aspetti passati della loro vita e per analizzarli da un punto di vista diverso rispetto a quello che avevano al momento del viaggio (verso l’Italia).

«Quando adesso mi ricordo (del viaggio) mi sembra strano come ho fatto a passare quella strada (in

montagna) veramente, era pericoloso, c’è, non sapevo neanche dove sto andando…con quel

coraggio…poi in boschi, in montagna…la paura sempre.» Mati, 24 anni

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